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Sono
STATI UNITI
Chi non ricorda il film, ormai stracult, di fine anni Settanta
"Saturday night fever"? E' la storia di un giovane
e bello John Travolta, ballerino amatoriale, che cerca di
uscire dall'emarginazione di una condizione di sottoproletariato
nella quale lui e i suoi amici si trovano "per nascita";
egli, però, non realizza pienamente (al contrario del
fratello prete) chi sia veramente, e la sua ribellione è
istintiva, e la presa di coscienza è ben di là
dal giungere. Il film, purtroppo, non fu interpretato dalla
maggioranza silenziosa (in Italia come altrove) come una storia
di emarginazione, e segnò simbolicamente la fine dell'impegno
e l'inizio degli anni Ottanta, il decennio dell'edonismo reaganiano
e di altre amenità che ancora oggi accompagnano le
nostre esistenze. Che strano simbolo; un film che, peraltro,
nulla aveva a che fare con l'Europa e con l'idea di società
che questo continente, allora diviso in due campi, si dava
nelle sue entità; la pellicola era, invece, un ottimo
spaccato di società americana, dove nessuno è
buono e dove i mediocri e i balordi sono gli statunitensi
di seconda generazione (i figli degli emigranti), mentre "gli
altri", quelli di cui lo spettatore sa grazie soltanto
alle parole dei mediocri, non sono neanche statunitensi, ma
"portoricani". Portoricani sono i componenti della
banda rivale, con la quale Travolta e co. si scontrano in
due riprese; portoricana, inoltre, è la coppia che
alla gara di ballo costringe al secondo posto lo stesso Tony
Manero e la sua dama, che rappresenta (lo dico per inciso)
l'unica porta di uscita verso una società diversa.
Mi colpì, quando uscì il film, quello che sembrava
un epiteto: "portoricano", come a dire, da noi,
"extracomunitario", ovvero "clandestino".
E sì che negli States i portoricani non sono del tutto
extracomunitari e clandestini; eppure non sono neanche dei
veri e propri cittadini.
Per meglio comprendere come sia possibile tutto ciò
nella patria della democrazia, è necessario ripercorrere
brevemente la storia di questa piccola ex colonia con bandiera
cubana.
Porto Rico è un'isola dell'arcipelago antillano, e
sorge a Est della Repubblica Dominicana. Colombo (Cristoforo),
dunque, vi si imbatté quasi subito e già nel
1493 Portorico fu invasa dagli spagnoli. Trascorsero secoli
di lotte e sottomissione, finché nel 1898, in occasione
della guerra ispano-statunitense, gli Usa invasero la colonia,
imposero l'idioma inglese-americano, un governatore militare
e, nel 1940, la cittadinanza statunitense ai nativi Portoricani,
nonostante l'opposizione quasi unanime della camera elettiva
locale, la Camera dei Delegati.
Il 4 luglio 1950, poi, il presidente statunitense Harry Truman
firmò il Public Act 600 che istituiva, per l'isola,
lo status di Commonwealth, che si realizzò il 25 luglio
1952. Tutto ciò, non senza che il 1° novembre 1950
due membri della resistenza portoricana attentassero, a Washington,
alla vita del presidente statunitense Harry Truman, fallendo
l'obiettivo.
Grazie al Commonwealth, le leggi a Porto Rico non le fanno
i portoricani ma gli statunitensi e, in particolare, il Tribunale
Supremo dell'isola, per il quale, si potrebbe dire, Porto
Rico appartiene agli States, ma non è parte degli States.
Una colonia a metà, una stella sulla bandiera statunitense
(l'ultima in ordine di tempo), e la negazione dei principali
diritti (tra cui quello di voto) ai suoi abitanti. Ogni legge
approvata dagli organi legislativi portoricani, infatti, può
essere revocata dal Congresso USA e le decisioni dei suoi
Tribunali nazionali sono soggette alla revisione delle Corti
statunitensi. Viceversa, le leggi del Congresso USA vengono
applicate in Porto Rico, fatto salvo che non sia esplicitamente
escluso.
Nel corso degli anni si sono avute tre consultazioni elettorali
riguardanti lo status dell'isola; nel 1967 il 60% si dichiarava
per il Commonwealth; nel 1993 il 48,6%; nel 1999, il 46,5.
L'indipendenza, lo si deve dire, non ha mai avuto un grande
proselitismo nell'urna (4%), mentre sempre di poco inferiore
al Commonwealth si raccoglievano i voti per diventare a tutti
gli effetti uno Stato della Federazione americana. Nel 1999,
però, la maggioranza assoluta dei voti è andata
alla soluzione numero 5, che rifiutava sia l'indipendenza,
sia il Commonwealth, sia diventare uno Stato, ma non proponeva
nulla.
Mesi fa, raccontava Sepùlveda sul "Manifesto",
egli aveva incontrato a Seul due marines degli Stati Uniti
che parlavano uno spagnolo caraibico ed erano di Porto Rico.
Andavano in Iraq, ma prima trascorrevano una settimana nella
Corea del Sud, come premio. Essi, a dire di Sepùlveda,
erano partiti volontari per l'Iraq perché al ritorno
li avrebbero fatti cittadini Usa. Ma come, e la stellina sulla
bandiera? Quella, a ben vedere, rappresenta la terra, la TERRA,
non chi la abita, gli indigeni dell'isola (i "Tainos"),
che chiamano Porto Rico "Boriquén".
Il musicista Filiberto Ojeda Rios, 72 anni, era diventato,
nel corso degli ultimi decenni, il capo del movimento indipendentista
dei Tainos. All'inizio degli anni Ottanta, cinque dopo l'uscita
de "La Febbre del Sabato sera", aveva compiuto una
rapina (era il 12 settembre 1983) a Hartford (Connecticut),
con lauto bottino di 7,2 milioni di dollari. Arrestato nel
1985, nel 1988 era ancora in attesa di giudizio e uscì
di prigione dopo aver pagato una cauzione di un milione di
dollari (un settimo della rapina!), controllato da un dispositivo
elettronico. Durò due anni, quindi si tolse il bracciale,
che fece recapitare al quotidiano indipendentista "Claridad",
di San Juan, e si diede alla clandestinità. Con un
evidente senso di vendetta, un tribunale statunitense lo condannò
in contumacia a 55 anni di carcere per la rapina del 1983
e le autorità posero sulla sua testa una taglia di
mezzo milione di dollari. Nessuno, però, riuscì
a scovarlo dalla sua clandestinità, da dove concesse
interviste, fece dichiarazioni scritte e persino registrò
messaggi destinati ai gruppi indipendentisti. La sua clandestinità
e lotta, però, sono terminate pochi giorni fa, quando
agenti dell'FBI (Federal Bureau of Investigation, dunque indagini
interne agli USA), lo hanno scovato e ucciso. Quindici combattenti
anticoloniali, inoltre, sono stati recentemente giudicati
e condannati a pene dai 35 ai 90 anni per opposizione all'autorità
statunitense di Porto Rico, altri sono in attesa di giudizio,
in prigione. Lontani i tempi di Clinton (1999), quando 11
prigionieri del movimento indipendentista furono rimessi in
libertà. Perché in America, lo si sa, ormai
si fa così.
MC, Roma.
* Cristo
Re
Lontani nello spazio, due statue di Cristo Re sono accomunate
da tempi simili. Quella imponente che sorge di fronte a Lisbona,
alta 28 metri (più unottantina di piedistallo),
e quella, ben più bassa, che abbraccia la Conca amatriciana
alle pendici dei Monti della Laga, furono infatti erette per
volere di due prelati addirittura un vescovo nel primo
caso alla fine della seconda guerra mondiale. Il signore,
motivarono entrambi, aveva voluto preservare, il Portogallo
intero nel primo caso, la zona di Amatrice nel secondo, dalle
distruzioni del conflitto.
Oggi, però, le cose stanno altrimenti: mentre Amatrice,
infatti, sembrerebbe non subire alcuno dei flagelli estivi
(fuoco, acqua, disastri aerei), il Portogallo brucia. Incendi,
in molti casi fuori dal controllo dei mitici Bombeiros,
stanno distruggendo boschi, strade, villaggi, cittadine, minacciando
finanche luniversità di Coimbra.
Quasi a prendersi gioco dei poveri portoghesi, a circa duemila
km di distanza da Lisbona la terra è sommersa da ingenti
piogge, che hanno provocato esondazioni di fiumi e portato
distruzione in molte zone della Svizzera, dellAustria
e della Germania (Baviera), minacciando anche la Repubblica
Ceca, la Croazia e la Slovenia. Come se non bastasse, inoltre,
il litorale romano ha anche vissuto la sua giornata da leone
quando, dopo una scossa di terremoto appena avvertita nei
quartieri meridionali della capitale, alcuni intrepidi romani
hanno dimostrato senso del coraggio e rispetto per i morti
del dicembre scorso sgombrando le spiagge. Si temeva, lo si
è letto il giorno dopo sui giornali, unonda anomala.
Se a questi preoccupanti dati aggiungiamo anche le cadute
degli aerei dei turisti, le bombe di Londra e quelle di Sharm
el-Sheik, si può dire che lestate in via di esaurimento
sia stata davvero distruttiva. Il Pil dei paesi toccati dalle
catastrofi (naturali?) avrà qualche leggero beneficio
dalla ricostruzione, ma ciò non servirà di certo
a rianimare un sistema economico agonizzante. Perché
è di questo che si sta parlando, del capitalismo che,
anche a costo di bruciare o di morire affogato, continua incessante,
in ogni stagione, la sua opera di deformazione dei paesaggi
e delle coscienze. Cercando di sostenere ad ogni costo uno
sviluppo insostenibile, i costi sono proprio quelli che sempre
con maggiore frequenza la natura, e le macchine, ci vengono
a chiedere.
No, griderà qualcuno. Alla Cina, si guardi alla Cina!
Ha scelto il capitalismo e fattura un aumento del 9% del Pil
annuo. Tutto ciò è vero, lo fattura, ma le conseguenze
di questo sviluppo sconsiderato sono drammatiche allinterno
del Paese. Ormai le rivolte locali contro la corruzione, la
distruzione dellambiente e la crescita della povertà
si contano nellordine delle migliaia e, secondo studi
recenti, se le cose non dovessero cambiare, nel 2010 si giungerebbe
al punto di rottura tra le due Cine (un tempo si sarebbe detto
a una situazione rivoluzionaria), quella dei poveri
e quella, più circoscritta, dei nuovi ricchi. Perché
lusura di un territorio, come quella di un uomo, ne
provoca irrimediabilmente la rottura. Come per lusura
di una macchina.
È strano che cadano aerei usati come autobus dai turisti
che, pur provenendo spesso da zone fornite di mari bellissimi,
cercano lesotico a pochi centesimi dallaltra parte
di quello che fu, per pochi anni anche di recente, il mare
nostrum? È strano che alcuni italiani perseverino nella
loro speciale capacità di trovarsi sempre nel posto
sbagliato nel momento sbagliato? Di recente il Corriere della
Sera pubblicava una lettera di un turista che si recava, nonostante
i morti, a Sharm, perché, secondo lui, il terrorismo
non doveva vincere, cambiando le nostre abitudini! Il 23 agosto,
invece, Euronews mandava in onda lintervista a un turista
italiano che si trovava in Portogallo. Protestava perché
le autorità gli avevano consigliato un pronto rientro
in patria, mentre egli voleva restare. Nonostante gli incendi,
nonostante fosse in atto una tragedia di enormi proporzioni.
O, invece, proprio per questo?
Da quando esiste, il capitalismo ha portato con sé
sviluppo insostenibile e guerre, contribuendo ad affamare
una buona percentuale di popolazione mondiale. Con la globalizzazione,
la guerra esportata ritorna in casa sotto forma di guerra
asimmetrica (o, volgarmente, terrorismo). E non conta portare
la guerra il più lontano possibile da casa, perché
la globalizzazione annulla le distanze (sembra, dicono).
I disastri naturali, poi, ora non accadono solo nei Paesi
poveri, ma anche in quelli che ne producono le cause, principalmente
attraverso labuso del territorio.
Lo stadio attuale del capitalismo è, sic stantibus
le risorse naturali, quello estremo. Esso non può condurre
tutti noi altro che verso una morte lenta, lentissima, ma
inevitabile, per un sentiero che promette nuove guerre e cataclismi
durante i prossimi decenni. I due Cristo Re che ne accompagneranno
le gesta sono gli ultimi, per il momento, e forse, come per
la Terza Roma, non ce ne saranno altri.
Vienna, 23 agosto 2005
M.C.
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Corrispondenza da San Pietroburgo
Ieri, 29 giugno 2005, con una sentenza senza
precedenti nella recente storia della Russia post sovietica,
è stato messo fuori legge il partito
nazional-bolscevico, fondato e diretto dallo scrittore Eduard
Limonov, di cui Odradek ha pubblicato il Diario di un
fallito.
Dopo la sentenza, legata a inadempienze amministrative, come
la mancata comunicazione della sede legale per gli anni trascorsi,
Limonov ha
dichiarato che il partito continuerà la sua attività
e che non rispetterà la decisione dei giudici. Sebbene
abbia sottolineato la valenza politica della sentenza, non
una parola è stata spesa per enfatizzare l'esistenza
di
toghe colorate (del resto qui i procuratori hanno una divisa
di tipo militare).
Negli ultimi tempi il partito di Limonov, oltre che per le
sue tesi scioviniste di natura nazionalcomunista, si è
distinto per azioni clamorose di protesta, come quando, all'inizio
di giugno, due attivisti, sospesi nel vuoto, sono riusciti
a tenere uno striscione di protesta appeso a un albergo di
fronte al Cremlino per più di quattro ore, senza che
la milizia potesse intervenire.
Limonov, si ricordi, si trova in libertà condizionata
dopo essere stato condannato a quattro anni di carcere per
attivita' sovversiva.
M.C.
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Un dispaccio della Tass rovescia la notizia da San Pietroburgo.
16/8/2005
- 14,30 Mosca, 16 agosto (Itar-Tass) - La Corte Suprema della
Russia ha capovolto martedì la decisione di liquidare
il Partito Nazionale Bolscevico guidato da Eduard Limonov.
La Corte perciò ha accolto l'appello di Limonov, con
il quale aveva chiesto di rovesciare la sentenza della Corte
della regione di Mosca. Un procuratore regionale ha però
annunciato di voler fare appello contro la decisione della
Corte Suprema.
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Caro Bachemaster,
ti allego un mio intervento al Seminario Stato Globalizzaziuone
Guerra che si tenne allUniversità degli
studi di Pisa il 3 e 4 marzo 2001. Della serie: Io lavevo
detto. Lo so, è una passione triste. Epperò,
sul sito, dovresti aprire una finestra per accogliere queste
recriminazioni. Se non ti piace Io lavevo detto,
potresti intitolarla per non scendere muti nel gorgo,
o qualcosa del genere. Odradek, nel 2000 pubblicò un
libro del Comitato Scienziate e scienziati contro la guerra:
Contro le nuove guerre. Cera un saggio
di Alberto Di Fazio sulla crisi energetica che individuava
il raggiungimento del picco del petrolio tra il
2008 e il 2010. Ebbene, il picco si è presentato con
largo anticipo. Nel mio intervento sollecitavo gli economisti
al convegno. Non mi si filarono di pezza. Solo la Turchetto
mi sibilò: malthusiano. Boh.
C.D.B., 29
giugno 2005
Requiem
per il petrolio (e per altro ancora) [sta su Giano
n. 37]
«Vorrei fare una riflessione breve e una domanda, segnatamente
a Turchetto e Bellofiore. La riflessione è questa:
si è spesso evocato qui Marx; ma a quale Marx si è
fatto riferimento? Al Marx del primo libro del Capitale, al
Marx della "legge generale delI'accumulazione capitalistica";
un Marx che a sua volta fa riferimento a crisi cicliche, per
certi versi benefiche, virtuose; crisi dalle quali il capitale
esce più bello e forte che pria, grazie alla scienza,
o meglio, all'innovazione tecnologica e/o alla guerra. Un
Marx apprezzato un po' da tutti: da Schumpeter al "Wall
Street Journal", un Marx presentabile e, per certi versi
rassicurante. Ricordo che generazioni di marxisti, con riferimento
a quel Marx, ci hanno indotto a credere che fosse il lavoro
il limite del capitale; non è vero, tragicamente non
è stato vero. Solo nel terzo libro Marx affronta i
limiti intrinseci e strutturali del capitale. Il capitale
per Marx sembra avere altri limiti; due essenzialmente: uno
interno, il profitto, la sua caduta tendenziale (a cui è
dedicata la terza sezione del terzo libro) ed uno esterno,
la terra (di cui tratta nella sesta sezione: "la terra
come limite all'espansione del capitale", non invento
nulla).
La terra con la t minuscola, ma anche la Terra con
la t maiuscola. La terra come bene non riproducibile.
Non entro nella "teoria generale degli extraprofitti",
perché sarebbe certamente ambizioso e dispendioso.
Mi rifaccio all'intervento del compagno di "Guerre e
Pace" e a quelli di Sartogo e Cortesi: partiamo dal petrolio.
Il petrolio, tra i frutti della Terra, è la merce che
entra nel prezzo di produzione di tutte le altre merci e anche
del suo stesso prezzo di produzione. Per la prima volta, e
questo è l'elemento direi caratteristico di questo
scorcio di secolo: una merce prodotta capitalisticamente,
il petrolio, entra nel prezzo di produzione di tutte le altre
merci, e anche di se stessa. Una merce, si badi bene, che
però, non può essere riprodotta capitalisticamente,
perché è una risorsa data. Ci sono limiti allo
sviluppo: certo, tutte le risorse non riproducibili, ma intanto,
sicuramente, il petrolio come fonte di energia; la sua scarsità
è un limite allo sviluppo, soprattutto quando non è
sostituibile da altre fonti più a buon mercato.
Ricordo la vicenda del "Club di Roma"; il Club di
Roma ha pubblicato due libri a distanza di più di un
decennio facendo delle previsioni. Queste previsioni sono
state testate: ci sono 4 modelli di 4 università americane
che individuano il picco della produzione del petrolio intorno
al 2008/2010: mica "chissà quando" (a fronte
di un Rubbia che dà delle cifre ottimistiche sulle
risorse disponibili: ma, anche allargandosi generosamente,
concede una trentina di anni in più). Ammettiamo questo
dato: 2008/2010, il picco della produzione.
La domanda, la domanda agli econornisti, agli economisti compagni,
è la seguente: vorrei sapere se ci si è posti
questo problema a livello teorico; cosa può succedere
quando la produzione di petrolio piccherà, quando la
produzione di petrolio raggiungerà il suo massimo,
cosa succederà al suo prezzo? E a quello di tutte le
altre merci? I manuali parlano di arresto della produzione.
Questo è uno scenario che mi permette di non parlare
di catastrofi; conosco, io che sono nel "Comitato Scienziate
e Scienziati contro la guerra", conosco il riflesso condizionato
dello scienziato quando sente parlare di catastrofi. Mette
mano alla pistola? No, comincia a fare dei gestacci, come
qualsiasi superstizioso. Lo scienziato non vuol sentire parlare
di catastrofi ... Allora, non parliamo di catastrofi. La domanda
è: cosa può accadere al sistema dei prezzi quando
il picco della produzione del petrolio raggiungerà
il suo massimo, a breve?»
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Caro Bachemaster, senza avere la pretesa di
convincere alcuno, ma a futura memoria e con riferimento,
semmai, ai referendum prossimi venturi, ti affido queste mie
povere considerazioni.
- Intanto voterò, come ho sempre fatto (molte volte
annullando la scheda) perché ho dei fucilati dai fascisti
in famiglia e non considero la democrazia un optional, comunque
in alternativa alle gite al mare.
- Voterò, nonostante consideri luso massiccio,
improprio e degenerato, dellistituto del referendum,
una delle cause del collasso costituzionale e della delegittimazione
del Parlamento. La deriva populista è cominciata e
poi cresciuta chiamando il popolo a credere di poter legiferare
in vece del Parlamento. Le massicce dosi referendarie che
i radicali hanno somministrato a questo paese hanno determinato
laccantonamento del proporzionale - cioè della
democrazia - a furor di popolo, e sottolineo furore,
ma più in generale hanno preparato la deriva neoliberista
instillando lidea delirante e onnipotente che il vero
problema fosse quello di liberarsi di lacci e lacciuoli. Revocata
la democrazia proporzionale la gente può
revocare in dubbio qualsiasi cosa, qualsiasi diritto.
- Voterò, nonostante non sia direttamente interessato,
e non veda in quei quesiti manifestarsi un interesse generale
e nemmeno interessi di classe. Ma prima di poter esprimere
un qualche convincimento, mi sono dovuto documentare. Non
mi lamento, è il mestiere del cittadino, la penosità
della democrazia che non ammette ignoranza; quello stesso
mestiere che la cittadinanza ha esercitato in Francia giungendo
a un referendum - quello sì trasversale - dopo unappassionata
discussione generale. Mi sono dovuto documentare contro voglia
sulle staminali, embrionali o adulte, sulle stimolazioni ovariche,
sui follicoli e sulle tube, sugli ovuli e sugli spermi.
- Ti invito a pubblicare le allegate considerazioni di Enzo
Marzo apparse su Radiolondra, newsletter n.
49 del 7 giugno 2005.
C.D.B., 9 giugno 2005
NOTA:
LA TRAPPOLA RADICALE E LE IPOCRISIE REFERENDARIE.
di Enzo Marzo
Quando sono aperte le danze, si balla. E con tutta la passione
e la determinazione dovute. Ma si ha anche il diritto-dovere
di affermare la propria contrarietà al ballo.
I laici italiani si sono lasciati trascinare dai radicali
in una battaglia referendaria inopportuna e disastrosa. Sia
ben chiaro, la legge sulla fecondazione assistita è
quanto di peggio potesse essere prodotto dalla Destra e dai
clericali di entrambi gli schieramenti. E sicuramente dobbiamo
adoperarci per abrogarla. Ma in che modo? Lo strumento scelto
dai radicali, ovvero il referendum in questo 2005, è
quanto di più sbagliato si potesse immaginare. So bene,
però, che gli argomenti critici che possono essere
addotti contro suonano del tutto irrilevanti alle orecchie
dei radicali, che non hanno mai mirato ad un'affermazione
nelle urne che sapevano impossibile
o altamente improbabile. I radicali hanno voluto semplicemente
stare sul palcoscenico per un po' di tempo, ridotti come sono
da anni alla politica d'avanspettacolo. E oggi Pannella, prima
del voto, prefigura una grande sconfitta con 60% di astensionismo,
ma non ne tira le conseguenze, anche personali, di politico
che per fini opportunistici sta regalando alla Chiesa cattolica
e alla destra berlusconiana una vittoria di cui certamente
non si sentiva il bisogno. Ma si sa, in Italia, i politici
che sbagliano non pagano mai. Imprecano contro il destino
cinico e baro, e restano a fare danni... Pannella e i referendari,
prima di raccogliere le firme per il referendum, sapevano
bene che :
1) l'attuale legge sul referendum è una vera truffa,
che di fatto ha reso inutile, anzi controproducente, il voto
No nelle urne perchè, per far fallire qualsiasi iniziativa
abrogazionista, basta predicare la comoda scelta astensionista
che parte avvantaggiata da una dote di almeno un 30% di astensionismo
fisiologico. Per affermarsi basta aggregare solo il consenso
di un 20% di elettori. Ci può non piacere, ma è
così. Immaginare che la Destra e la Chiesa non avrebbero
scelto questa via è da ipocriti. La decisione di vincere
il referendum attraverso l'appello all'astensione è
la scorciatoia scontata che tutti - compresi i radicali -
hanno imboccato da decenni, e che tutti useranno in futuro.
Scandalizzarsene ora è da falsi
ingenui. (Altro discorso sono le violazioni di legge di personalità
delle istituzioni, come dell'ateo-bigotto Pera, maestro di
trasformismi, che ogni giorno calpesta la Costituzione e dimostra
di non possedere alcun senso dello Stato, rivelandosi quanto
di più illiberale e inquinante abbia prodotto la Seconda
repubblica. Altro discorso ancora è la discesa in campo
ufficiale della Chiesa, in aperta violazione del concordato
e delle leggi dello Stato italiano. La Chiesa di Ruini da
tempo produce solo ingerenza clericale e le prerogative dello
Stato non sono difese da alcuna
istituzione. Strilliamo pure, ma le une e le altre violazioni
erano largamente prevedibili).
2) le condizioni per una onesta competizione in questa legislatura
non
esistono. Scoprire durante la campagna referendaria che l'informazione
televisiva è a regime monopolistico è da ipocriti.
Non ci si mette al tavolo
da gioco con dei bari. Ugualmente è da ipocriti scoprire
all'ultimo momento
che avere al Ministero degli interni un forzista democristiano
o uno
qualunque del centrosinistra forse non è del tutto
irrilevante.
Si poteva e si doveva aspettare un anno. Riconosco che hanno
ragione coloro
che pessimisticamente pensano che questo centrosinistra, ancorché
vincente,
non avrebbe la coesione e la determinazione di abrogare in
Parlamento questa
legge infausta, ma il contesto anche per una battaglia
referendaria
sarebbe stato molto meno infausto. E al referendum si sarebbe
potuta
anteporre una riforma della normativa sui referendum. Inoltre,
comunque, una
nostra sconfitta, almeno non avrebbe aperto una falla sulla
legislazione
abortista.
È da ipocriti scoprire solo ora che se la una vittoria
referendaria era
comunque assai incerta, sicura era invece la frattura gravissima
tra le
forze di opposizione a pochi mesi dalle elezioni politiche.
Certo, questo
argomento interessa poco ai radicali, che da tredici anni
hanno tradito le
loro radici progressiste e di sinistra e fanno il gioco di
Berlusconi (e il
Cavaliere saprà come ringraziarli per questo ennesimo
cadeau), ma avrebbe
dovuto avere un peso su quanti pongono (o dovrebbero porre)
al primo posto
la salvezza del nostro paese dalla devastazione berlusconiana.
So di non
sbagliare se antepongo la democrazia a quella che sarebbe
stata solo una
dilazione della lotta sulla fecondazione assistita.
Questo è tutto. L'amarezza è tanta. Che i laici
si facciano male da soli è
sconfortante. Non resta che sperare nel miracolo laico. Abbiamo
scelto di
lottare con un braccio legato. Si può vincere anche
così. Ma se si vince
anche così, vuol dire che in una competizione corretta
la laicità, il
fondamentalismo papista, lo avrebbe sbaragliato. Il paese,
nonostante le
forze clericali dei gruppi dirigenti e dei media, si sta secolarizzando.
Speriamo che ci regali una sorpresa. Andiamo a votare e a
votare quattro Sì.
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*
[Rossanda
ha colpito ancora, e lascia il segno Nel suo articolo-riflessione,
apparso sul manifesto del 29 aprile, intitolato Questioni
di Resistenza, con rigore e pazienza offre uno schema
interpretativo ampio e non riduttivo delle problematiche relative
alla Resistenza. Operazione improba e faticosa perché
la storia è una faccenda troppo importante per lasciarla
agli storici, i quali oscillano tra posizioni riduttive, e
ricostruzioni inutilmente onnicomprensive.
Odradek ha dedicato molti libri alla Resistenza, sia a quella
del centro che a quella del nord. Ripubblicando nel proprio
sito larticolo di Rossanda Odradek rende omaggio alla
severa compagna, riproponendo, con le parole di R.R., la propria
ricerca sulla Resistenza. Il Bachemaster]
DIBATTITI il manifesto, 29 aprile
2005
Questioni di resistenza
ROSSANA ROSSANDA
Dal
25 luglio 1943, la maggioranza degli italiani che era e sarebbe
potuta restare grigia, cercando di cavarsela come poteva,
fu investita dallo scontro nel paese e nel mondo. E dopo l'8
settembre tenersi da parte non fu materialmente possibile.
Insomma, dal 1943 al 1945, l'Italia cambiava e, chi più
chi meno, raggiunse l'antifascismo o almeno in esso sperò
La resistenza fu un sollevamento spontaneo di popolo o un'azione
minoritaria dai partiti? E poi, fu un movimento contro l'occupazione
tedesca o una guerra civile?La cautela delle parole pronunciate
dalle istituzioni il 25 aprile ha dimostrato come non sia
archiviabile questa data: essa tocca il presente, è
un passato che non passa. E non solo fra gli eredi di quelle
che furono le parti avverse, ma anche fra gli antifascisti,
ai quali ha posto le sole questioni storiografiche serie.
La prima delle quali è se la resistenza fu un sollevamento
spontaneo di popolo o un'azione minoritaria costruita dai
partiti; la seconda, se fu un movimento contro l'occupazione
tedesca o una guerra civile. La prima tesi nasce fin dalla
guerra nella resistenza rossa, specie in Piemonte
e in Lombardia, che si sente tradita dalle scelte del Partito
comunista. E' stata ripresa sul nostro giornale anche da Augusto
Illuminati nel commento al saggio di Valerio Romitelli. Ed
è da sempre, anche se in forma più articolata,
la convinzione di Luigi Cortesi, ora aggiornata di molteplici
documenti in Nascita di una democrazia (Manifestolibri, 2004).
La seconda, e in parte collegata, è stata posta dal
libro di Claudio Pavone, Una guerra civile (Bollati Boringhieri,
1991) nel corso della polemica fra storiografia comunista
e non comunista su chi ebbe l'egemonia in quegli anni, e poi
nella successiva ricerca e memoria storica.
Una storia diversa
Le code politiche delle due tesi, naturalmente semplificate,
sono evidenti. Se la resistenza è stata una spinta
spontanea di massa frenata dai partiti, la storia avrebbe
potuta andare assai diversamente e si può addossare
al Pci la colpa di avervi rinunciato per obbedienza al dettato
staliniano, che non voleva turbare gli accordi siglati a Yalta;
oppure ritenere che il Pci l'abbia cavalcata per perseguire
dopo il 1945 la bolscevizzazione del paese. Analogamente,
se si è trattato di una resistenza all'occupazione
tedesca, che promulgava all'interno l'azione alleata nella
guerra mondiale, nessuno dalla parte fascista potrebbe rivendicare
pari dignità nel ricordo. Mentre se si è trattato
d'una guerra civile, fortemente connotata da uno scontro di
classe, proverebbe un sovversivismo mai spento della sinistra
popolare italiana, permeata di comunismo e nemica della democrazia.
In ambedue i casi suonano un po' ipocriti gli appelli alla
riconciliazione fra i figli ed eredi, perché eludono
la ricostruzione storica (senza la quale non c'è memoria
da condividere, più convincente è la proposta
assolutoria dell'oblìo) e alludono pesantemente al
fatto che uno dei contendenti di allora andrebbe escluso dall'arco
democratico oggi. Come era stato un tempo con il Msi e come
oggi il centrodestra auspicherebbe con i partiti che sono
stati o si dicono comunisti. Quest'ultima è l'inclinazione
attuale (dai libri di Veneziani o Pansa e in genere del noltismo
indigeno, a quasi tutta la fiction storica della Rai, quale
che ne sia la qualità).
Le manifestazioni del 25 aprile di quest'anno sono andate
anche contro questa tendenza, favorita da un governo che accoglie
gli eredi del fascismo e una Lega i cui accenti troverebbero
d'accordo Farinacci o Starace e si arrestano solo sulla soglia
dell'antisemitismo per la vigilanza delle comunità
ebraiche.
In tema di ricostruzione storica, il libro di Luigi Cortesi
merita che ci si ritorni anche fra noi. E' convincente che
un grande movimento popolare, spontaneo e con una connotazione
nettamente di classe, sia sorto nel 1943, abbia rappresentato
la resistenza del biennio 1943-1945 e sia stato frenato dal
Pci per il personale moderatismo di Togliatti e/o per obbedienza
a Stalin? E' vero che esso corrisponderebbe anche ai protagonisti
di una lotta interna nel Pci, rispecchiato da Luigi Longo,
Pietro Secchia e Mauro Scoccimarro, contro l'ala moderata
dei Roveda, Amendola e Togliatti?
Una posizione comune
Non è la stessa controversia che ha opposto la storiografia
comunista a quella di Giustizia e Libertà, che ha accusato
la prima di aver messo in luce soltanto le brigate Garibaldi
e offuscato le altre, dai movimenti attorno a Giustizia e
Libertà ai liberali di Pierluigi Bellini delle Stelle,
ai cattolici attorno ai fratelli Di Dio. Su questo punto sembra
si sia raggiunta una posizione comune, della quale testimonia
anche il Dizionario della resistenza. Luoghi, formazione,
protagonisti e Storia e geografia della Liberazione (Einaudi
2001), il lavoro d'insieme ad oggi più completo. Al
Partito comunista si riferì in effetti la rete più
forte fra i combattenti in montagna e in città, ma
non fu la sola tendenza; e le differenze ci furono non solo
nell'impostazione ma nella tattica. Si aggiunga che recente
è la ricerca sulla resistenza di alcuni settori dell'esercito,
fino a poco fa trascurati anche per il fastidio dei partigiani
di fronte al dileguarsi delle forze armate come tali l'8 settembre;
basti fare i nomi di Giorgio Rochat e di Mario Isnenghi.
La pluralità delle forze resistenti ridimensiona la
tesi di una resistenza essenzialmente rossa. Si può
dare una rivolta democratica o nazionale contro un regime
autoritario e disastroso, che per di più aveva trascinato
il paese in guerra. Mi pare difficile dare natura di classe
anche a un episodio di massa come quello di Cefalonia o, come
ricordava D'Agostino, alle quattro giornate di Napoli cui
seguiva nel `46 un voto favorevole alla monarchia. Lo stesso
discorso, forse un po' più complesso, vale per la Repubblica
dell'Ossola, uno degli episodi maggiori della resistenza,
presieduta dal cattolico Piero Malvestiti. O per le azioni
coordinate da Tina Anselmi. Non tutta la resistenza fu dunque
rossa.
Ma come avrebbe potuto esserlo, rossa e spontanea, in un paese
dove il fascismo durava da vent'anni, non veniva da un colpo
di stato ma dalla crisi generale (per usare l'espressione
di Gramsci) seguita alla prima guerra mondiale, aveva tagliato
la leadership e ogni possibilità di espressione alle
sinistre? E inoltre, nei confronti di una classe media incerta
aveva favorito l'appeasement e l'indifferenza piuttosto che
una politica invasiva di reclutamento? Il totalitarismo spoliticizza
più che mobilitare. Così almeno fu in Italia,
aiutato dalla forza repressiva e dal non vedersi, per gran
parte degli anni Venti e per tutti i Trenta, nessuna praticabile
via di uscita. Questa si vide solo con la seconda guerra mondiale;
dovrebbe far pensare che in Spagna, dove la repressione era
stata più feroce e recente, ed enorme era la diffusione
dei partiti, non ci fu sollevazione perché abilmente
Franco non era entrato in guerra, e gli alleati glielo consentirono.
Calcoli non appassionanti
Sotto questo profilo, i calcoli di Renzo De Felice su una
maggioranza di italiani che sarebbe stata fascista e una minoranza
antifascista, non mi sembrano appassionanti. I processi di
spoliticizzazione e silenzio sono lunghi e contorti, quanto
possono essere rapide le prese di coscienza sotto una situazione
cogente, che porta a cercare collegamenti organizzativi e
ideali, insomma a un fondamentale mutamento delle soggettività,
sotto l'incombere della guerra.
A mio parere anche il rapporto fra spontaneità e ruolo
dei partiti che improvvisamente possono rientrare in scena
va visto attraverso questa griglia: c'è un legame non
semplice fra memoria, intollerabilità della situazione,
opportunità e spontaneità nel rivoltarsi di
un popolo. L'insieme di questi fattori investe e travolge
la zona grigia che la repressione ha creato, a sua volta non
riducibile a una vocazione opportunista.
Dal 25 luglio 1943, la maggioranza degli italiani che era
e sarebbe potuta restare grigia, cercando di cavarsela come
poteva, fu investita dallo scontro nel paese e nel mondo.
E dopo l'8 settembre tenersi da parte non fu materialmente
possibile. Insomma, dal 1943 al 1945, l'Italia cambiava e,
chi più chi meno, raggiunse l'antifascismo o almeno
in esso sperò.
Questo determina anche i fini dei resistenti. Tutte le forze
in campo si prefiggevano un cambiamento più radicale
di quel che ci fu nel 1945; tutti trovarono pesante la continuità
dello stato, durata fino agli anni Settanta. Ma non tutti
collegavano il fascismo al grande capitale, come
suonava il libro, che allora fu formativo, di Daniel Guérin,
né auspicavano una rivoluzione socialista. Questa differenza
non impedì la radicalità della lotta e delle
sue forme. E neppure incise sul fatto che fosse percepita
anche come una guerra civile, cioè non soltanto contro
l'occupazione ma contro chi ci aveva portato ad essa. Si può
persino osservare che certe forme di lotta, per esempio gli
attentati, furono proposte nel Cln non sempre e non tanto
dai comunisti quanto da altri. Ma su questo Claudio Pavone
ha detto tutto.
Una zona di resistenza rossa
Resta la domanda su come si forma una zona di resistenza rossa
in senso proprio. Credo si possa dire che essa ha un'ossatura
operaia, anche se non sono soprattutto gli operai a raggiungere
le formazioni armate in montagna. Ad essi si aggiunge una
più vasta frangia giovanile inquieta, che si è
spesso formata negli ultimi anni Trenta, e in cerca di maestri
e di idee, oltre che di collegamenti. E' innegabile che li
trova soprattutto nel Partito comunista e in una Giustizia
e Libertà dagli accenti allora assai più radicali
di quelli che avrebbe avuto in seguito.
D'altronde lo stesso appartenere a una formazione partigiana
determina e sviluppa una coscienza politica, ed è ovvio
che le sinistre, la loro storia e il loro patrimonio teorico
esercitino un richiamo più forte. Sarebbe se mai da
chiedersi quale fosse in quegli anni la coscienza di muoversi
in uno scenario mondiale. Per quel che può valere una
personale memoria, mi sembra che non ci sfuggisse il fatto
che da noi sarebbero arrivati gli alleati anglosassoni piuttosto
che le truppe sovietiche. Nel 1943 erano stati gli americani
a sbarcare in Sicilia e da allora furono loro e gli inglesi
a risalire la penisola. Non ricordo neppure che facesse problema:
significava soltanto che la nostra lotta, come
si chiamava la testata di Eugenio Curiel, la sola che parlasse
del domani, si sarebbe decisa in ambito nazionale. Entro che
limiti qualcuno pensò a una rivoluzione socialista
coincidente con la liberazione?
In conclusione, credo che sia poco proponibile un quadro nel
quale un popolo spontaneamente si solleva, dopo anni di silenzio,
per dar luogo a una resistenza classista, che poi il Partito
comunista finisce col limitare. Il processo di formazione
non è così lineare. E quindi neanche il rapporto
fra un sussulto morale e la crescente appartenenza ai partiti.
Non appartiene allo stessa problematica la questione che periodicamente
viene sollevata sulla lotta interna nel Partito comunista.
Questa ci fu e sicuramente oppose chi, nella divisione del
mondo e nell'esito impressionante dell'Europa dell'est dopo
il 1948, perseguì una democrazia avanzata
o progressiva, intrisa di gramscismo, e chi recepì
la spartizione dell'Europa come un momento tattico, obbligato
dal rapporto di forze mondiale, che sarebbe stato superato
grazie a un conflitto fra gli alleati e l'Urss, magari in
seguito a un colpo di stato reazionario.
Complessità del Partito nuovo
Questo dilemma, del quale non so valutare l'ampiezza effettiva
del seguito, fu risolto a favore dei primi non tanto da un'obbedienza
a Stalin quanto dalla stessa forza e complessità del
partito nuovo nella situazione specifica dell'Italia
e del dopoguerra. La storia si può fare anche con i
se, ipotizzando una rottura dello schema di Yalta
attraverso l'unificazione dei partigiani di Tito, italiani
e francesi. Non mi sembra che ce ne fossero le condizioni;
avrebbe presupposto un collegamento, nonché una liquidazione
di vivi nazionalismi, molto lontani dalla realtà. E
se si aggiunge che questo avrebbe dato luogo a una guerra
civile assai più lunga e necessariamente a uno schiacciamento
sul blocco sovietico, non mi pare a distanza che sarebbe stato
un esito molto augurabile.
Quel che è certo è che la divisione all'interno
del Pci non è rappresentata da una sinistra favorevole
all'ipotesi insurrezionale e classista, che sarebbe stata
di Luigi Longo, Mauro Scoccimarro e Pietro Secchia, avendo
come controparte Togliatti. Dall'occupazione delle fabbriche
seguita all'attentato di Pallante a Togliatti nel 1948, Luigi
Longo non si separa dalla linea togliattiana; la conferma
nella svolta del 1956 e, fin che può, del 1968. Mauro
Scoccimarro conta poco nel Pci dagli anni `50 in poi. Resta
problematica la sola figura di Pietro Secchia, molto amato
dalla sinistra esterna al Pci, meno da chi stava all'interno.
Il diario di Secchia costruisce questa immagine di sé,
ma egli non prese una posizione diversa né nel 1948,
né fece una battaglia nel 1956. Avrebbe poi attaccato
la Cina nel 1960 e non appoggiò nessuna sinistra, tantomeno
il movimento studentesco nel 1968 e la grande mobilitazione
operaia nel 1969. Più tardi avrebbe avuto contatti
con un settore armato, ma senza parteciparvi. Se la sua posizione
politica concreta si identifica nel tentativo di costruzione
di un piccolo partito interno e parallelo, in vista di un
colpo di stato avversario e con collaboratori del calibro
di Giulio Seniga - come a me sembra - non è difficile
capire come Togliatti possa averne avuto facilmente ragione.
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On
line - Chi desiderasse, per curiosità personale,
motivi di studio o altro, curiosare su internet alla ricerca
di dati economici, serie storiche, o semplicemente volesse
conoscere il punto di vista delle grandi istituzioni economiche
internazionali, andrebbe incontro a una sorpresa. O quantomeno
a un moderato disappunto, qualora non fosse, prudentemente,
diffidente verso questi organismi.
Nella bibliografia dei libri di economia internazionale sono
usuali i rimandi, per informazioni, ai siti di Banca Mondiale,
FMI, OCSE, WTO, e vari centri studi statunitensi. Forse navigo
in fretta e superficialmente, forse la connessione lenta mi
malpredispone verso le ricerche approfondite, fatto sta che
trovare dei files gratuiti, è impossibile. Vengono
ovunque richieste cifre scoraggianti, da pagare con carta
di credito, oppure si pretende labbonamento per ricevere
le loro periodiche pubblicazioni. Il più esoso, se
si vogliono stilare classifiche, è il WTO che, forse
con la scusa di non essere un organo delle Nazioni Unite,
vende nel suo Bookshop online le proprie pubblicazioni, libri
o Cd-rom di dati per cifre a partire dai 60-70$. La cosa divertente
è che il prezzo in dollari e euro in realtà
è solo indicativo, come si evince da unattenta
lettura dei prezzi. Infatti il WTO, che ha sede a Ginevra,
pretende di essere pagato in franchi svizzeri, cosa che scoraggia
ulteriormente chi volesse conoscere i dati, per esempio sul
commercio internazionale nel 2004 e ricavarsi da solo i cosiddetti
fondamentali macroeconomici non fidandosi dei giornali.
E da scartare qualunque ipotesi che giustifichi questa
procedura con la necessità di finanziarsi di queste
organizzazioni. La vendita delle pubblicazioni online, per
quanto consistente e remunerativa possa essere, non può
che partecipare per una percentuale infinitesima al bilancio,
per esempio, della Banca Mondiale. Della serie, al massimo
ci si pagano la fornitura annuale di carta igienica per qualche
loro ufficio. Rimane quindi come unica spiegazione che i documenti
sono venduti a prezzi scoraggianti per scelta politica e non
per necessità di autofinanziamento (parola
che, con virgolette, significa quasi sempre rapina).
Forse non si vuole che le relazioni di queste istituzioni
possano essere consultate direttamente dal comune umano (in
quanto portatore degli omonimi diritti), forse perché
si preferisce comunicargliele, opportunamente alterate, attraverso
il sistema dei media.
In breve il parco buoi del sistema economico e
politico deve fidarsi, accettare che leconomia sia cosa
per pochi iniziati, assecondare le speculazioni destabilizzanti
e votare per chi promette miracoli economici che non hanno
possibilità di realizzarsi neanche nel paradiso concorrenziale
dei neoclassici.
Non che si debba dare la colpa di questo solo ai siti a pagamento,
ma sicuramente è unimportante spia di quello
che nei vertici economici del mondo si pensa del consumatore-elettore-investitore.
Fa eccezione a tutto questo il sito del Fondo Monetario Internazionale
(IMF) che mette a disposizione gratuitamente numerose pubblicazioni,
anche recenti, scaricabili in .pdf.
Può sembrare un paradosso che la più contestata
organizzazione finanziaria, considerata un vampiro, un Robin
Hood alla rovescia, un tiranno con la ventiquattrore
listituzione che obbliga un paese in crisi economica
e finanziaria a privilegiare la solvibilità solo nei
confronti dei creditori esteri , gestisca un sito internet
così disponibile. Può darsi rientri in una campagna
dimmagine o operazione trasparenza voluta
da qualche alto dirigente. OK
Fenimore B., 21 maggio 2005
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Modesta
proposta di ingegneria patriottica
Raccolta di firme per Giorgio Albertazzi (o Giano Accame,
o Carlo Mazzantini) senatore a vita
La pacificazione nazionale è lì, a portata di
mano, con uno di quegli interventi che non costano niente
e che, quindi, piacciono molto al demi monde.
Come ci vanno spiegando autorevoli storici, occorre restaurare
il concetto di patria (Patria, pardon); ma il concetto deve
poggiare su una memoria condivisa. La circostanza è
quanto mai problematica in un paese con solide tradizioni
di guerra civile. Ecco allora la proposta: nominare senatori
a vita un partigiano e un fascista.
Ecco allora, per incanto, che il Parlamento accoglie e rappresenta
rastrellati e rastrellatori, torturati e torturatori, occupati
e occupanti, insorti e collaborazionisti, vincitori e vinti,
accomunati dallamor di patria (Patria, pardon).
Nessuno, credo, potrebbe eccepire, chessò, uno scadimento
della rappresentatività del Parlamento dopo lelezione
di Cicciolina e Toni Negri. Mentre vasto è lo schieramento,
trasversale of course, che potrebbe appoggiare una simile
proposta; schieramento coincidente con la mitica zona
grigia, ora costituita da quelli che non cé
differenza tra destra e sinistra, e più in generale
dalla koyné postmodernista, per la quale ma basta
con questo vecchiume, occorre guardare avanti.
I primi firmatari potrebbero essere: Violante Luciano grande-amante
dei ragazzi di Salò, Rosario Bentivegna che con Carlo
Mazzantini intrattiene calde relazioni giungendo a scriverci
insieme un libro grondante amor di patria (Patria, pardon),
tale Casarini del nord est che sulla pacificazione tanto si
è speso scoprendo lapidi alle vittime delle foibe.
Ciampi Carlo Azeglio
La proposta così si precisa: Giorgio Albertazzi senatore
a vita insieme a un partigiano. Lunico disponibile potrebbe
essere Rosario Bentivegna, mentre non credo che la stessa
disponibilità potrebbe essere data, per es., da Giovanni
Pesce.
In tutta modestia, io non firmerei.
C.D.B., 15 maggio 2005
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[Caro Bachemaster, la rivista Cassandra, n. 12, marzo
2005 (redazione.cassandra@fastwebnet.it) ha voluto pubblicare
questo mio intervento sul concetto di piccola borghesia.
Se credi, sarei felice fosse affisso in bacheca. Grazie. C.D.B.]
Piccola
borghesia, un concetto da non buttare
Se buttiamo via il concetto di piccola borghesia,
elaborato da Marx nel 1847 in Miseria della filosofia, e prima
ancora, vividamente, nella lettera ad Annenkov del 28 dicembre
1846, ci condanniamo a navigare a vista, a galleggiare sui
movimenti, a riconoscere la liceità programmatica del
tutto e subito, del pane e pure le rose;
a fare gli storiografi di ununica emergenza, sempre
uguale, quella dello stato nascente in cui lindistinto
non è quello della notte, ma quello della cloaca. Scusa
limmagine forte, ma quando si ha a che fare
con unimmane raccolta di merci non ci si
può esimere dal tenere conto delle ricadute della riproduzione:
sociali, culturali, ideologiche e politiche, eterogenee e
rigurgitanti quanto vuoi, ma in fondo sempre le stesse. Siccome
ho il testo digitalizzato, ti riporto un passo di Marx:
In una società progredita, il piccolo borghese
è necessariamente, per la sua stessa posizione, socialista
da un lato ed economista dall'altro; cioè egli è
abbagliato dalla magnificenza della grande borghesia e simpatizza
con le miserie del popolo. Interiormente si lusinga di essere
imparziale e di aver trovato il giusto equilibrio, che
egli pretende è qualcosa di diverso dalla mediocrità.
Un piccolo borghese di questo tipo divinizza la contraddizione,
perché la contraddizione è la base della sua
esistenza. Egli stesso non è altro che una contraddizione
sociale in atto. Egli deve giustificare in teoria ciò
che è in pratica, e il signor Proudhon ha il merito
di essere l'interprete scientifico della piccola borghesia
francese; un merito genuino, perché la piccola borghesia
costituirà una parte integrante di tutte le imminenti
rivoluzioni sociali.
Lho riportato perché nel finale Marx fa la previsione
per cui di questa neoformazione non ci si libera, dal momento
che è lo stesso alternarsi delle crisi a riprodurla.
Ma anche per dire che non credo che si debba fare, di necessità,
virtù teorica. In questo caso, credo si
possa tranquillamente essere dottrinari. Cambiano
le forme, ma la sostanza resta quella. A parte il fatto che
non mi pare sostenibile che i torti del comunismo
possano essere le ragioni dei libertari.
Ho passato undici anni - sicuramente non i migliori della
mia vita - in un partito comunista; ne sono dovuto uscire
per laria resa irrespirabile dal diffuso anarchismo
concettuale (in senso proprio e figurato).
Ogni qual volta mi capitava di invitare a rivolgere lattenzione
su Stato (e ogni volta ero costretto a spiegare che la lettera
maiuscola è una regola ortografica e non libidine di
servilismo), moneta, banca centrale, esercito, costituzione,
diritto - cioè su rapporti sociali istituzionalizzati
grazie ai quali da qualche secolo il capitalismo si riproduce
- ebbene ogni volta mi toccava sopportare sorrisetti di sufficienza
da parte di giovani e vecchi imbecilli: Ma non lo sai
che lo stato (con la lettera minuscola) è violenza
organizzata? Che i trattati sono pezzi di carta?
e via riducendo, liquidando, idealizzando, e soprattuto dandomi
del feticista. Feticista chi? Ma feticisti loro, piuttosto.
Proprio come il selvaggio di Cuba del giovane
Marx - sto parlando dellultimo articolo della serie
sui furti di legna, apparso sulla Gazzetta renana
-, il selvaggio cioè che, avendo compreso che i rapporti
tra gli invasori spagnoli erano regolati da oro monetato,
non appena questi risalirono a bordo delle loro navi e salparono
le ancore, prese un pezzetto doro, il supposto loro
feticcio, e lo gettò a mare, aspettandosi che anche
le navi, con il loro carico di violenza e di morte, colassero
a picco.
Ciò non avvenne, con grande sorpresa del selvaggio
di Cuba. Non sappiamo quali conclusioni trasse dal mancato
evento. La conclusione che suggerisce Marx è che i
processi di feticizzazione sono lunghi e complessi, nonostante
si manifestino in rapporti apparentemente semplici e che comunque
ne occultano la complessa genesi. Feticista è allora
chi ritiene di aver compreso tanto bene la natura del simbolo
da poterlo abbattere simbolicamente, svelandolo. Un tragico
paradosso.
E tale paradosso è fatto proprio, da un secolo e mezzo,
da quella contraddizione vivente, vera e propria
contraddizione reale, che è la piccola
borghesia, che si riconosce in parole dordine sempre
seducenti: reddito garantito, motorino gratis,
tanto per ricordare le ultime. (Cerchiamo di non dimenticare
la funzione esercitata dalloperaismo italiano, Tronti
e Negri, i quali pur partendo dalla centralità della
fabbrica e delle lotte, sottovalutarono gli elementi istituzionali
della riproduzione sociale, invitando a considerarli feticci,
appunto).
Non dico che, compresa questa peculiarità ricorrente,
tutto diventi più semplice; ma almeno la finiremo di
litigare tra noi.
###
*
Santo sùbito. Niente più che un foglio
affisso in bacheca, questo, ma i due più autorevoli
giornali della borghesia italiana, Corriere della sera
e La stampa, così titolavano a tutta (prima)
pagina sabato 9 aprile: «Laddio al Papa: Santo,
Santo» e «Lultimo abbraccio: Subito
Santo».
Quale il messaggio? Il carisma avanti tutto, è il popolo
che incorona: populismo terminale, santificazioni a furor
di popolo, che altro? Lo conosciamo il vizietto della borghesia
italiana: nessun patto tra le classi, sempre a cercare scorciatoie
e uomini della provvidenza
Ci vorrà tempo per riemergere dalla sbornia mediatica,
e recuperare il senso delle proporzioni, e anche le stesse
dimensioni dellevento.
Intanto, non cè alcun indizio che a Roma si siano
riversati due milioni di fedeli, la cifra più attendibile
essendo quella di coloro che hanno effettivamente sfilato,
fotografantisi, davanti al catatafalco: un milione e trecentomila,
comprensiva degli autoctoni (200 treni straordinari,
70 solo dal Lazio cinguetta Veltroni).
Poi, nella piazza la metà dei convenuti erano polacchi.
Altro che universalismo, il morto era il papa dellest
che incarnava il nazionalismo cattolico anticomunista, e ben
tre presidenti usa erano lì a testimoniarlo.
Allievo di Mac Luhan, ha dato al mondo limmagine drammaticamente
conclusiva di una istituzione che non gli sopravviverà.
Se in principio era il Verbo, la fine è lafasia.
Lesponenziale accelerazione dei processi, la loro mediatizzazione
travolge, una a una, le istituzioni che hanno accompagnato
e favorito il capitalismo occidentale, mentre altri popoli,
altre ricchezze, altri modi di sentire e rappresentarsi premono
potenti. Dixi et servavi animam meam.
C.D.B., 9 aprile 2005
###
E'
morto Ranieri di Monaco, e noi
non avevamo più lacrime.
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Con le venticinque pagine di sabato, il "Corriere
della sera" ha battuto il record raggiunto allindomani
della morte di Lady D. Nello stesso giorno Valentino Parlato
diceva tutto quello che cera da dire in un colonnino
sul manifesto. Concinnitas. Anche questo
sito vuole testimoniare a futura memoria, ma con misura. Scarto
un Vite parallele del nostro islamista, incentrato
sul confronto con Al Sistani, perché, francamente,
di ardua lettura. Scarto un intervento certamente più
breve, intitolato Maramaldo II incentrato sulla
vittoria sull'Impero del Male, ma anche "Interni"
sullespianto del santo cuore che i polacchi vorrebbero
detenere a Cracovia, onde avviare un redditizio reliquiario
e mi scuso per questo con glillustri collaboratori
che li hanno inviati preferendo la nota di MC. Alla
quale premetto un titolo decisamente liberatorio.
Bachemaster
Un
secolo durato cento anni
Con la morte di Karol Wojtyla si chiude un secolo, non un
secolo breve, come
inteso da alcuni (1914-1989), ma un secolo esatto, cominciato
in una piazza
di Pietroburgo nel 1905 e terminato ieri in piazza San Pietro.
Giovanni Paolo, il papa che ha sconfitto il comunismo, è
morto in mezzo alla
sua folla, mediando anche questa estrema parte di pontificato,
sovraesponendo ulteriormente le sofferenze di un anziano,
di un papa che,
infine, si è fatto uomo.
Ora non sarà facile sostituirlo. Ci dimenticheremo
di lui, come se non fosse
mai esistito, come prevede la nostra epoca della notizia del
giorno, o la
sua eredità sarà mantenuta (a quale prezzo?)
dalla chiesa romana? Cosa potrà
fare di piú, senza soluzione di continuità,
un nuovo papa, che già non abbia
avuto posto con Wojtila? E se no, chi si assumerà la
responsabilità di
smentirlo? Forse si prepara un "XX Congresso" stile
conciliare?
Totus tuus. Questo era la verità di Giovanni Paolo.
Egli credeva fermamente
nella Madonna, alla quale si è donato completamente.
È stata la sua forza.
Ma, per comprendere, basta a noi questa professione di fede?
O, forse, non
ci dovremmo porre una semplice, piú terrena domanda:
Il mondo, dal 1978, è
migliorato o peggiorato?
Non c´è piú la minaccia del comunismo.
Ma era una minaccia? Non sembra che
la sua caduta abbia portato a un miglioramento generale delle
relazioni
internazionali. Molti eserciti, anche ex comunisti, sono impegnati
in
missioni all´estero. La guerra è diventata "infinita",
il solo mezzo
efficace con cui affermare il "diritto", con cui
preparare il futuro (tanto
che alla luce degli ultimi avvenimenti anche la reazione di
Vienna
all´attentato di Sarajevo del 1914 meriterebbe altra
lettura!). Le regioni
dell´Asia centrale, ex repubbliche sovietiche, vivono
anni di instabilità,
dopo essere passate per guerre civili impensabili solo 15
anni fa. La
povertà, nel mondo, è aumentata, cosí
come l´incidenza delle malattie e
della morte per la fame, nonché il numero dei profughi.
Non è, ovviamente, responsabilità di Giovanni
Paolo, come non è solo suo il
merito di aver fatto cadere il comunismo. Anche a Cuba lo
sanno. Sarà per
questo che hanno proclamato un giorno di lutto nazionale?
MC
###
Il
risveglio del vaiolo
Il vaiolo non e' solo di competenza degli scienziati: tutti
i cittadini del mondo, potenziali vittime, hanno il diritto/dovere
di fare il possibile per impedire che venga risvegliato.
Cari
amici e colleghi,
vi annuncio che e' stata finalmente lanciata l'iniziativa
sul vaiolo di cui ho gia' scritto su questa lista.
Invito quindi a scrivere e a diffondere quanto possibile.
Siccome io sono la referente in Italia, se volete/potete organizzare
iniziative pubbliche, vi invito a contattarmi.
Grazie, ciao
monica,
3 aprile 2005
Dr.
Monica Zoppè
Lab. of Gene and Molecular Therapy, IFC-CNR
Via G. Moruzzi, 56124 Pisa. Italy
Tel. +39 050 3153095
Fax: +39 050 3153327
Cell. +39 347 9794579
e-mail mzoppe@ifc.cnr.it
Cari amici e colleghi,
Forse sapete (forse no) che l'Organizzazione Mondiale della
Sanita' (OMS) sara' chiamata, nella prossima Assemblea generale
di Maggio 2005, a decidere in merito ad alcune richieste per
poter utilizzare il virus del vaiolo in esperimenti 'a scopo
difensivo'.
Questi esperimenti comprendono la produzione di vaiolo ricombinante,
la creazione di virus ibridi tra il vaiolo umano e quello
di altri animali, e chiedono la distribuzione senza restrizioni
di segmenti di DNA del virus.
Inutile sottolineare che questi esperimenti non possono che
aumentare il pericolo di un rilascio, accidentale o intenzionale,
quando al momento non esiste nessuna minaccia da parte di
'stati canaglia' ne' da gruppi terroristici. Tra l'altro,
le risorse ingentissime necessarie per allestire questi esperimenti
in condizioni di (relativa) sicurezza, potrebbero e dovrebbero
essere investite in ricerche su malattie che davvero fanno
milioni di vittime all'anno.
Il vaiolo e' una malattia spesso mortale (ma chi sopravvive
puo' rimanere sfigurato, cieco ecc.), contro cui l'OMS stessa
ha condotto una campagna di vaccinazione mondiale che ha portato
alla sua estinzione in natura. Dal 1978 nessun essere umano
e' piu' stato infettato, e la malattia e' stata dichiarata
debellata, tanto che chi ha meno di 25 anni non e' nemmeno
stato vaccinato (gli altri portano ancora un segno sul braccio,
ma l'immunità e' ormai caduta).
Senonche' campioni di vaiolo sopravvivono ancora in due laboratori
militari di Stati Uniti e Russia: non sarebbe ora che fossero
distrutti anche questi?
Invece l'OMS, dopo aver rimandato piu' volte la data della
distruzione definitiva, sta per compiere un enorme passo indietro.
Una commissione apposita ha dato parere favorevole a che sia
concesso il permesso per gli esperimenti richiesti. La decisione
finale spetta comunque all'Assemblea, che si terra' appunto
nel prossimo maggio a Ginevra.
Abbiamo ancora poco tempo per far sapere al Segretario Generale
dell'OMS, ed ai
rappresentanti nazionali presso l'Assemblea, che il vaiolo
va relegato nei libri di storia, non ai laboratori militari.
Invito dunque chiunque possa farlo, a mandare una lettera
in cui si richiede sia il divieto di sperimentare liberamente
con i geni del vaiolo, sia la distruzione dei campioni ancora
presenti.
Potete farlo tramite il sito www.smallpoxbiosafety.org, che
abbiamo allestito
a questo scopo con una collaborazione internazionale tra ONG.
L'operazione richiede solo qualche minuto e puo' avere un
significato importante anche per le generazioni a venire.
Vi invito anche a diffondere quest'iniziativa con la massima
urgenza.
Grazie mille
Monica Zoppè
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Pulizie
di Pasqua
La mattina del 21 marzo, in quellesemplare città
di Legge e di Scienza che si è dotata da qualche tempo
di più moderna ed efficiente giunta clerical-riformista,
è stato ordinato lo sgombero di una trentina di rumeni
in attesa di risposta alla domanda di asilo politico. Gli
allogeni erano già stati allontanati la settimana precedente
da uno scalo migranti chiuso durante loperazione. Dopo
due notti in stazione hanno optato per i comfort di una baraccopoli
lungo il fiume. È qui che li ha raggiunti il braccio
democratico della legge: vigili del reparto sicurezza, coadiuvati
da polizia, carabinieri e ruspe, hanno posto fine allo scempio
edilizio e alla pratica dei condoni. Il dirigente dellufficio
stranieri del Comune si è detto del tutto alloscuro
delloperazione, ma la prudenza non è mai troppa:
prima che altri si appropriassero del merito e raccogliessero
il plauso cittadino, il sindaco è intervenuto in Consiglio
comunale ed ha imperiosamente dichiarato: "Lo sgombero
lho deciso io!". Nessuno ha osato più toccarglielo
ed anzi, la rivendicazione varrà anche per i prossimi,
annunciati interventi su "altri insediamenti abusivi,
dove come si legge sulla stampa locale vivono
in condizioni spaventose almeno 100 persone, minacciate dal
freddo e dalle improvvise piene" del fiume.
Il sindaco ha aggiunto paterno che il Comune non tollererà
più avventati artifici architettonici "rischiosi
per lincolumità di chi li realizza", ma
è anche stato "molto duro" verso chi "fa
un uso distorto del diritto dasilo", che "riguarda
chi è perseguitato politicamente nel suo Paese non
chi è genericamente in condizioni di povertà".
La sostanza del messaggio, che correva il rischio di risultare
un po criptico, è stata illuminata dal vicesindaco,
il quale la sera stessa ha maternamente ricevuto alcuni dei
senzatetto rumeni in municipio. Il colloquio non è
durato a lungo: a nome di tutti, un distorsore particolarmente
sfrontato gli ha rivolto una sola domanda "Dove
andremo a dormire stanotte?" ricevendone parimenti
una sola risposta "Questo fa parte del suo progetto
di vita quando ha deciso di venire in Italia".
Il vicesindaco ha voluto caritatevolmente spiegare che se
putacaso vengono qui senza che nessuno li perseguiti per le
loro idee e magari poi si scopre che i fedifraghi non
sono neanche intellettuali, o al limite, to, giornalisti
, se son giunti spinti solo dalla miseria e dalla fame
dico, se ne devono andare di corsa, per mai più non
tornare, a meno di non seguire le apposite, razionali procedure.
Si potrebbe obiettare allaustera sovracittadina che
difficilmente le sue sagge parole convinceranno gli ostinati
turbatori del nostro civile convivere ad affrontare in patria,
con serena fiducia, i rigori della Divina Provvidenza. È
piuttosto da credere che furbi come sono apporteranno qualche
sostanziale modifica al loro "progetto di vita",
inclusiva della medesima bontà con la quale sono stati
accolti allarrivo. Ma tantè, e del resto
alla bisogna, come si è visto, la democrazia sa reagire
da par suo.
Ora, io nelloccasione non discuto lo zelo degli amministratori
che svolgono con talento umanitario e ferma determinazione,
come si addice ai buoni, il compito loro affidato di sorvegliare
e punire , perché sarebbe come dire che è
colpa del banchiere se ruba. È che se cammino per le
strade di questa compiaciuta e edificante città, o
anche solo apro le finestre di casa, avverto sempre più
insopportabile e nemico il fetore, prima morale poi politico,
di coloro che li hanno votati, che li hanno preferiti per
il miglior uso persuasivo del manganello, per scendere in
piazza e picchiare con quello, e che quando hanno vinto, in
quella piazza hanno pure festeggiato lo scampato pericolo.
Roberto
De Caro,
22
marzo 2005
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Ancora
su Jena.Già quel nostri
la dice tutta, ma sentiamo cosa secerne Casimiro:
Su La Stampa del 5 marzo grande spazio per la liberazione
di Giuliana Sgrena. Anche Jena
dice la sua, con un aforisma intitolato "Servi".
«Adesso
voglio proprio vedere chi ha il coraggio di sostenere che
i nostri servizi segreti sono servi degli americani».
Ha ragione. Dora in poi bisognerà definirli "schiavi".
Quando fanno qualcosa che non piace al loro padrone, infatti,
vengono falciati via con una raffica. Una Jena
vera se ne sarebbe accorta subito, un cagnolino invece non
ci vuole neanche pensare.
Casimiro
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La
questione che da molti anni è dibattuta, dai politici
più che dagli storici, dai giornalisti più che
dagli accademici, riguarda la valenza dei morti della nostra
storia recente. Per decenni l'Italia è vissuta allnterno
di una storia politica condivisa; i morti non erano tutti
uguali; la morte era intesa come l'esito di una vita e una
vita sbagliata era seguita da una morte consimile. I cambiamenti
politici dell'ultimo quindicennio hanno sconvolto anche questa
condivisione e le nuove forze politiche emerse dalla fine
della prima repubblica ogni giorno chiedono nuove riabilitazioni
post mortem per vittime, presunte vittime, e carnefici. Quello
che appare come un compromesso tra i nuovi e i vecchi rappresentanti
è racchiuso nella formula: i morti sono tutti uguali.
Sembra una formula ineccepibile, neutrale, pacificatrice.
Ma lo è? A una più attenta riflessione, direi
di no. La coincidenza di epoche, idealità, motivazioni
ed esiti, infatti, anziché propiziare la pacificazione
(qualora questo sia l'intento reale di tale richiesta, ma
è lecito dubitarne), non fa altro che creare nuove,
e più profonde fratture, preparando il terreno per
una nuova violenza; se, infatti, i morti sono tutti uguali,
ogni parte coinvolta nella lunga guerra civile italiana penserà
solo ai propri, ignorando quelli dell'avversario. Sarà
la fine della storia condivisa e l'inizio della storia militante.
Bene che vada si allargheranno le fratture tra le parti politiche,
male che vada ci si comincerà ad occupare anche dei
morti dell'avversario, ma per disprezzarne il ricordo.
Jan Sudrab, 20
febbraio 2005
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Riportiamo questo aureo articolo di Giulietto
Chiesa in quanto saggio di argomentazione.
NON si possono chiamare cose diverse, e addirittura opposte,
con lo stesso nome.
Ben vengano, allora, le virgolette.
''TERRORISTI''
di Giulietto Chiesa
16 febbraio
2005, in uscita sul settimanale russo Kompania
Dopo
13 lunghissimi giorni di silenzio da quando hanno sequestrato
Giuliana Sgrena (la seconda giornalista italiana dallinizio
della Guerra in Irak) arrivano sue notizie. E' viva, si esulta.
Non basta, aggiungo...
Non posso dire che sia una mia amica personale: ci siamo visti
poco, ma lavora per uno dei giornali per cui anchio
scrivo sovente e lho avuta per collega in una delle
guerre cui ho assistito, e che ho raccontato. Fu in Afghanistan.
E una buona giornalista e ho sempre letto le cose che
scriveva: precise, attente, informate. Lho vista ieri
nel video che i suoi sequestratori hanno mandato fuori dalla
sua prigione. Certo lhanno fatto per i loro scopi. Scopi
che non conosciamo e sui quali possiamo soltanto congetturare.
Lho vista in lacrime, spezzata dalla paura della morte,
implorare soccorso
dal governo italiano, da coloro che hanno lavorato con lei,
dal marito che ben poco può fare.
Fanno ricadere su di lei, I suoi rapitori, - pare, questo
e quanto dicono - la responsabilità dellaggressione
anglo-americano-italiana contro il popolo iracheno, contro
lIrak. LItalia fa parte del gruppo dei paesi occupanti,
occupa la terza posizione per numero di truppe. Tutto sembra
molto logico. I mass media scrivono: sono terroristi. E intendono:
sono quelli di Al Qaeda.
Ma a me questa disinvolta successione di passaggi logici
, questi sillogismi, non convincono affatto. Qualche
giorno fa il presidente francese, Jacques Chirac, commentando
la situazione analoga della giornalista francese di Liberation,
Florence Aubenas, rapita in Irak da oltre due mesi e sparita
nel nulla, ha pronunciato una frase sibillina, ma molto significativa
come segnale .
Voleva scoraggiare altri giornalisti francesi dallandare
in quel tritacarne che, da due anni, si chiama Irak. E ha
detto, allIncirca: State attenti, voi che insistete
per andare laggiù, che noi poi dobbiamo pagare dei
prezzi molto gravi.
Mi sono chiesto cosa significassero queste parole. Forse che
Chirac ha dovuto pagare un alto, o altissimo riscatto per
liberare i due giornalisti che hanno preceduto Florence Aubenas
in qualche scantinato di Baghdad? Non credo che si riferisse
ai soldi. Uno stato come la Francia, per salvare un suo cittadino,
per salvarsi la faccia, può bene tirare fuori qualche
milione di euro, perfino qualche decina di milioni di euro,
dai suoi forzieri. Non e certo questo il punto. Il punto
e un altro. Chirac parla di un prezzo politico. E non
rivela di quale prezzo si tratti. Ma quale prezzo politico
potrebbero chiedere i terroristi a un governo che non ha preso
parte allaggressione? Un governo che, anzi, al contrario,
ha osteggiato la guerra voluta da Bush, definendola illegale
?
E chiaro che a Chirac hanno chiesto qualche seria ritirata
politica, di fare ammenda per qualcosa, di cedere su altri
scenari, su altri problemi. Per questo il presidente francese
non rivela, ma e evidente che non può trattarsi
del ritiro di truppe che la Francia non ha mai schierato sul
terreno iracheno. Eppure i terroristi (ora comincio
a mettere tra virgolette questa parola) trattano la Francia
come nemica. Ecco il punto: perché?
Forse perché non sono precisamente terroristi. O, per
meglio dire, non sono soltanto terroristi islamici. Forse
perché, insieme ai terroristi, che svolgono opera di
manovalanza,ci sono altri terroristi, ben più
potenti e meglio organizzati, che hanno buone ragioni per
vendicarsi del fatto che la Francia non ha partecipato
allaggressione. Naturalmente in termini politici e strategici,
la vendetta e una categoria insoddisfacente, troppo
piena di sentimento. Ma quando si tratta di liquidare il nemico,
ogni crite rio e buono. E la stessa logica che
nei giorni scorsi spingeva Thomas Friedman a descrivere (sul
New York Times) la politica di Bush in questi termini: non
deve restare un solo mullah sulla faccia della terra.
Che ne dicono i miei 24 lettori di questa ipotesi? Prevedo
lobiezione di alcuni: ma allItalia i terroristi
hanno qualcosa da chiedere. E vero. Ma allora perché
se la prendono con una giornalista di sinistra, che scrive
per un giornale di sinistra, che e sempre stata contro
la guerra in Irak, che si può dire simpatizza
apertamente per la causa del popolo iracheno aggredito? A
che serve attaccare un amico degli iracheni? Torturarlo, ucciderlo
?
Ce una sola spiegazione: non sono terroristi,
sono terroristi.
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[Le
cifre sulle quali M.D.C. costruisce il suo ottimo articolo
sono tratte da Il nemico interno, di Cesare Bermani,
da noi edito.]
il
manifesto - 13 Febbraio 2005 pagina 08
Anni '70, le cifre della violenza bipartisan
Una guerra civile in piccolo, fatta di migliaia
di scontri, risse e attentati, con la destra sempre protagonista
M.D.C.
C'è molta deformazione nel modo in cui la maggior parte
dei media sta trattando la confessione tardiva di Achille
Lollo sul rogo di Primavalle. La destra estrema, i fascisti
o ex che dir si voglia, stanno sfruttando la grancassa per
accreditarsi come vittime della violenza comunista
negli anni '70. In mancanza di contraltare, qualche opinionista
di memoria corta concede loro tale patente decisamente usurpata.
Quanti hanno più di 40 anni non faranno fatica a ricordare
un numero impressionante di aggressioni fasciste che sono
costate la vita o ferite più o meno gravi a tanti compagni.
Ma i più giovani, a dar retta alle cronache di questi
giorni, potrebbero legittimamente pensare che la sinistra
- e solo lei - abbia molto da farsi perdonare. Com'è
andata, insomma, la storia delle violenze dal '68 in poi?
Per rispondere siamo ricorsi al libro Il
nemico interno, dello storico Cesare Bermani. Che ci ricorda
intanto come, tra sinistra e fascisti, non sia mai corso buon
sangue, dal 1919 alla caduta del muro di Berlino (poi la sinistra
ha preferito dimenticare; gli ex fascisti, a quanto pare,
no). Limitandoci al periodo più recente, però,
va registrato che il primo caduto negli anni della contestazione
fu certamente lo studente di sinistra Paolo Rossi, ucciso
a Roma il 27 aprile del 1966, sulla scalinata della facoltà
di Lettere, davanti agli occhi di una polizia abbastanza miope.
Miopia inguaribile, almeno per tutti gli anni '70, e che convinse
quasi tutti, a sinistra, che esistesse quantomeno una benevola
tolleranza nei confronti dei neofascisti (sia quelli
del partito di Almirante che gli altri più radicali,
come Ordine Nuovo o Avanguardia Nazionale). Anche la magistratura
dell'epoca (si pensi al processo per piazza Fontana) sembrava
affetta da una malattia molto simile.
Da lì in poi, soprattutto dopo il '68, è possibile
definire quantitativamente le aggressioni, più o meno
reciproche. Dal 1969 al 1975 rimangono uccise o ferite
442 persone a causa di episodi di violenza o attentati. Ben
413 sono stati determinati dalle `stragi di stato' e dall'eversione
fascista, mentre solo 29 sono ascrivibili alle organizzazioni
di sinistra. Il sommare le vittime delle stragi
di stato con quelle causate dai fascisti appare legittimato
dal fatto - incontestabile - che in tutte le indagini sulle
stragi sono stati imputati (qualche volta condannati, più
spesso protetti dai servizi segreti e fatti espatriare) numerosi
militanti dell'estrema destra. D'altra parte, le 29 vittime
(uccisi o feriti) da gruppi di sinistra comprendono anche
quelle colpite dalle organizzazioni della lotta armata e non
riguardano perciò soltanto i fascisti.
Nello stesso periodo si ebbero 2.528 episodi di violenza,
di cui 194 ascrivibili alla sinistra, ben 1.671 alla destra
e 174 ad altri. Gli attentati non rivendicati
sono stati invece 1.708, di cui 175 ascrivibili alla
sinistra, ben 1.339 alla dstra e 194 a ignoti. Si può
dunque dire senza tema di smentita che nella prima metà
degli anni '70 - in cui cade anche il rogo di Primavalle -
la violenza fascista è addirittura straripante, con
qualche risposta da parte di alcuni militanti
di sinistra.
Le cose cambiano negli anni successivi. Tra il 1976 e il 1982
gli episodi di violenza sono stati 2.321, 977 attribuibili
alla sinistra, 1,254 alla destra. Gli attentati
non rivendicati sono invece stati 4.445; 1.617 ascrivibili
alla sinistra, 1.206 alla destra, 1.622 a ignoti. Altra
cosa sono gli attentati rivendicati dalle organizzazioni
della lotta armata, sia di sinistra che di destra, che entrano
in un altro computo. Nel periodo indicato si verificano 2.055
attentati riconosciuti da gruppi di sinistra (394 dalle sole
Brigate Rosse, 107 da Prima Linea), mentre 388 sono di destra.
C'è però da aggiungere che a quel punto la maggior
parte delle azioni di sinistra non vanno a colpire
solo i fascisti, ma anche uomini e apparati dello stato; mentre
le azioni di destra restano indirizzate quasi
esclusivamente verso i compagni. Bermani calcola
in 22 i militanti di sinistra uccisi dai fascisti in agguati
o scontri di piazza, mentre sono 11 i neofascisti morti nello
stesso modo.
Quasi metà della violenza degli anni `70
è comunque concentrata in tre soli anni: dal '77 al
'79. Qui gli episodi genericamente violenti sono stati
1.098, di cui 831 ascrivili alla sinistra, 206 alla destra.
I veri e propri attentati non rivendicati sono stati
3.084, di cui 1.393 ascrivibili alla sinistra,
854 alla destra, 837 a ignoti. Quelli rivendicati
sono stati 1.808; ai 1.541 rivendicati da sinistra si
contrappongono i 267 rivendicati da organizzazioni di destra.
In un solo anno, infine, le aggressioni contro i fascisti
superano quelle di questi ultimi contro i compagni: nel 1977.
Cifre degne di una piccola guerra civile. Cifre
con cui è illusorio pensare di potersi misurare usando
il metro deformante della giustizia dei tribunali (per quante
stragi di stato sono stati arrestati e condannati
i colpevoli?). In questa mole enorme di fatti violenti ognuno
potrà agevolmente trovare qualche episodio mai completamente
chiarito, con personaggi scampati alla condanna o all'arresto
per un colpo di fortuna o un interessamento di potenti.
Personaggi che poi si sono rifatti una vita, come
i tre chiamati ora in causa dall'improvvisa e improvvida sortita
di Lollo. E che magari, come qualche protagonista degli scontri
di allora, siede su qualche poltrona importante. Persino ministeriale,
si potrebbe dire.
Si può solo scegliere come chiudere quella pagina.
O con la vendetta di parte, a seconda di chi va (temporaneamente)
al governo. O con l'amnistia generale. Ma proprio per tutti,
e senza condizioni che ne riducano o invalidino
il significato politico.
Altrimenti si andrà avanti così, con un uso
meschino della storia e di singole storie, che un giorno risolleva
certi morti e un altro quelli sull'altro fronte.
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Il
sequestro di Giuliana Sgrena
è questione troppo seria per lasciarla gestire dallinformazione
embedded, quella che riceve le notizie solo dal
governo e non si chiede mai se siano vere oppure no.
I diretti interessati, il manifesto, sono giustamente cauti
nellipotizzare uno scenario, stretti come sono tra la
necessità di capire, quella di informare correttamente
e quella ancora più importante di non
compromettere la vita di Giuliana con qualche azzardo dietrologico
di troppo, di quelli che fanno imbizzarrire chi dovrebbe operare
sul campo per salvarla.
Non può e non vuole farlo, naturalmente, neppure Velina
della sera, che non si trova in Iraq e lavora
è necessario dirlo chiaramente de relato,
su informazione dirette o indirette, oltre che sulle immancabili
agenzie.
Per ora martedì 8 febbraio, ore 16 sembra
necessario e anche utile mettere in fila alcuni dettagli incontrovertibili,
ma molto poco evidenziati dalla stampa italiana.
1) La sigla posta in calce ai primi tre comunicati attribuiti
ai rapitori è Organizzazione della Jihad islamica
nel primo; Organizzazione della Jihad nel paese di Rafidain
(Terra tra i due fiumi, o Mesopotamia). Il nome somiglia
a quello del gruppo che farebbe capo ad Al Zarqawi: Organizzazione
di al Qaida della Jihad nel paese di Rafidain.
Questa somiglianza è servita a tutti i media per dire,
a un certo punto, che Giuliana fosse stata già
passata agli uomini di Zarqawi.
2) Il sito su cui questi comunicati sono fatti comparire si
chiama Al Massada.net. Dallorario di aggiornamento si
capisce facilmente che il server si trova a Kabul, in Afghanistam.
lunico paese del mondo con un fuso orario spostato di
30 minuti rispetto alla norma. Inutile dire che in Afghanistan
gli americani controllano solo qualche città, ma di
certo hanno il pieno controllo della rete telematica e telefonica.
3) In Iraq, naturalmente, nessuno si preoccupa minimamente
di ciò che si pensa in Italia. Ma tutti i giornali
iracheni, domenica 6, attribuivano a Zarqawi il rapimento
di Giuliana. Il gruppo di Zarqawi ha fatto a questo punto
una mossa totalmente nuova: ha smentito di essere responsabile
del sequestro. Non era mai avvenuto, e anche questo deve essere
tenuto nel dovuto conto.
4) Sui perché della mossa di Zarqawi (o di chi per
lui) è inutile lambiccarsi troppo. Il suo comunicato
è arrivato con le modalità note da tempo, direttamente
ad Al Jazeera, ed è stato ritenuto da tutti (soprattutto
dagli arabi) attendibile al 100%.
5) Nel suo comunicato, Zarqawi dichiara che questa notizia
(laver sequestrato loro Giuliana, ndr) non è
vera, e che questo pessimo canale (il sito Al Massada.net,
ndr) come al solito diffonde notizie false allo scopo di diffamare
i mujahidin davanti ai musulmani.
Non solo. Nel testo viene data una definizione inequivocabile
del sito su cui sono apparse tutte le rivendicazioni,
compresa quella sulla assoluzione e prossima liberazione
di Giuliana: Ammoniamo i musulmani dal seguire questo
canale di spie perché noi di Al-Qaeda abbiamo sistemi
speciali e conosciuti di inviare comunicati via internet.
Sembra daltronde abbastanza logico che un sito filo
al Qaida dovunque potrebbe essere posizionato, tranne
che in un territorio sotto controllo Usa. Il canale
di spie Al Massada, insomma, non sarebbe altro che uno
specchietto per le allodole, costruito per agganciare
islamisti estremisti e un po coglioni, del genere che
per sapere cosa fare per arruolarsi va a vedere
su Internet.
6) Tutte le indagini sul sequestro vengono condotte, sul campo,
dai servizi segreti Usa, in particolare da una unità
dellintelligence dedicata alla caccia dei sequestratori.
Questi specialisti hanno fin da subito puntato
a incastrare lautista e linterprete che erano
con Giuliana. I quali sono anche gli unici di cui lei si fidasse
in tutta Baghdad, perché li conosceva da diversi anni.
Nessuna indagine, al momento, risulta essere stata condotta
fin qui nei confronti delle guardie private quattro,
di cui tre armate con Kalashnikov che stazionavano
allingresso del compound da cui Giuliana stava uscendo
al momento dellagguato. E sì che i quattro non
si sarebbero insospettiti per la presenza di due auto con
otto persone a bordo, parcheggiate proprio davanti allingresso,
al termine di una strada che si interrompe proprio lì.
Ulteriore elemento: le quattro guardie hanno raccontato di
aver sostenuto una sparatoria con gli otto rapitori. Ne consegue
che ci sarebbe stato un conflitto a fuoco tra dodici uomini
pesantemente armati e distanti una decina di metri. Ma che
si sarebbe miracolosamente concluso senza neppure un ferito
leggero.
A risentirci nei prossimi giorni.
Velina della Sera
JENEIDE
###
[Siamo
alle solite, adesso sono tutti antibarenghiani della prima
ora. Telefonano e scrivono per offrire la loro pietra. Poi
rispondo a Casimiro, che aveva evocato il logo de La Voce
del Padrone - quello con il cane compunto davanti alla
tromba del grammofono - per commentare il passaggio di Jena
alla Stampa]
Cari
di Odradek, ho letto come voi, sul Corriere della sera,
che lex direttore de il manifesto, Riccardo Barenghi
sta per passare a La Stampa. Con «compiti di
scrittura», aggiunge larticolista, senza omettere
che nel passaggio porterà con sé la firma e
la rubrica di Jena. Anche quelli de il manifesto sembra
che lo abbiano appreso dalla stessa fonte. Questioni di stile.
Un amico mi ha fatto notare che Jena, quello stesso giorno,
ha morso con determinazione il filosofo Gianni Vattimo, il
quale avrebbe qualificato come «partigiana» la
lotta degli iracheni, comprendendovi persino la primula verde
Al Zarqawi. Un «partigiano che sbaglia», chiosava
la Jena, evocando così antiche scomuniche a sinistra
sui «compagni che sbagliavano» impugnando le armi.
Lo stesso amico, uomo di alte letture, aggiungeva che non
gli sembra comunque un esempio di buon gusto un ex direttore
de il manifesto che usa il suo ormai ex giornale per
svillaneggiare un intellettuale che un tempo argomentava su
La Stampa e da qualche tempo lo fa su il manifesto.
Specie se si sta lasciando questo giornale per andare a scrivere,
per lappunto, su La Stampa. Complicato? Appena
un poco. Ma i conflitti di interesse sono sempre un po
contorti.
Peraltro, Jena è una penna acuminata, che ha insolentito
quasi sempre i «compagni di strada» de il manifesto.
Un battitore libero, insomma, che trova(va) la sua ragione
dessere nel fustigare le innumerevoli manchevolezze
(o peggio) dei diversi protagonisti del centrosinistra, Bertinotti
compreso. Allo scopo, si poteva pensare, di costringere quegli
stessi protagonisti a migliorarsi, a fare come diceva
un regista girotondista diventato poi un «moderato intransigente»
«qualcosa di sinistra».
Che dire? Ho provato a immaginare che effetto faranno le battute
della Jena che tutti noi ci siamo abituati a leggere
insieme alla vignetta di Vauro sul giornale di famiglia
degli Agnelli. Magari a fianco della vignetta di Forattini.
Spaesato e straniato ho cercato inutilmente unimmagine
che potesse rendere plasticamente questo effetto. Niente da
fare.
Solo dopo aver preso sonno mi si è catapultato davanti
agli occhi il disegnino un grammofono con davanti un
cane che faceva da logo, quandero piccolo, a
unallora famosa etichetta discografica: La Voce del
Padrone.
Casimiro 31
gennaio
Caro
Casimiro,
a me invece è venuto in mente un film di genere, Telephon,
che aveva per protagonista quel fantasista della monoespressione
che era Charles Bronson. Raccontava di una rete di spie sovietiche
(orsi?), opportunamente addestrate e condizionate, completamente
inserite nellidillio del suburbio amerikano (casette
unifamiliari col prato e col cane, ops). Bastava una telefonata,
una voce che dicesse con un certo tono una certa frase, e
loro tornavano ad essere le belve assetate di sangue quali
erano state addestrate a essere.
Squilla il telefono in una stanza de il manifesto.
Jena alza la cornetta. Trasale, mentre una voce suadente scandisce:
Cavo, missione compiuta. È ova che tovni a covso
Mavconi.
Se poi si volesse intersecare le due metafore, la voce che
esce dalla tromba potrebbe ingiungere:
Tovna a casa Lassie.
il
Bachemaster
###
[ Domanda:
Che cosa brandiva l'omino di Vauro nella mano sinistra, poi
sbianchettata?]
>>Bacheca
(pagina 3)
|
###
La
Jena in casa Agnelli
poteva far sfracelli.
Ma giunta che è a Torino
si scopre un cagnolino.
Azzannerà in quella contrada
gli ex compagni di strada,
anche se è cambiata
la parte della barricata?
Così, pensiero mesto,
ne ridevo su il manifesto,
mentre il coglion mavvampa
leggendola su La Stampa.
Tarantola
2
febbraio
###
[Felice
Accame,
ispirato dal nostro comunicato (vedi appresso) relativo
all'articolo di Aldo Cazzullo, ha fatto a Radiopopolare,
domenica il 23 gennaio, nella trasmissione "Caccia all'ideologico
quotidiano", l'intervento che qui si riproduce, anche
se il Bachemaster non è completamente d'accordo
su alcuni passaggi filobogdanoviani e misoleniniani]
Con
la pila e senza pile
Dice Laurence Sterne nella Vita e opinioni di Tristram
Shandy gentiluomo (pubblicato fra il 1760 e il 1767) che
i nostri preconcetti hanno un enorme potere sulla forma
delle cose e che, per sua natura, lipotesi assimila
ogni cosa in se stessa come suo nutrimento naturale e che,
dal primo istante in cui è nata, generalmente diventa
sempre più forte a causa di tutto ciò che uno
vede, sente, legge o capisce.
Capita a tutti, figuriamoci al giornalista.
Nel 1903, negli archivi del Dipartimento russo di polizia,
figuravano due nomi come quelli delle due persone più
pericolose per il regime zarista. Il primo era quello di Lenin,
il secondo quello di Bogdanov. Nella prefazione di Lenin alla
prima edizione di Materialismo e empiriocriticismo,
nel 1908, tuttavia, il nome di Bogdanov compare insieme ad
altri che, pur continuando a pretendersi marxisti, attaccano
sia la filosofia marxistica che il materialismo
dialettico. Più che lo zar, dunque, già
parecchi anni prima della rivoluzione dottobre, Bogdanov
era diventato il nemico da battere.
In gioco, forse, cera la filosofia in quanto tale
più amata da Lenin e meno amata da Bogdanov
e, di certo, in gioco cera la possibilità o meno
di parlare della verità oggettiva: obiettivo necessariamente
raggiungibile da parte del materialismo dialettico, secondo
Lenin, e risultato truffaldino dellasservimento della
filosofia agli interessi della borghesia, secondo Bogdanov.
Perse questultimo, ovviamente come perse la rivoluzione,
minata alla base dallarroganza degli intellettuali che
ne presero il comando. E, tuttavia, la sinistra bolscevica
come vennero chiamati Bogdanov e i suoi amici ,
ingoiando il rospo di un patto in virtù del quale la
disputa filosofica sarebbe stata affrontata e risolta a tempo
debito, e fidando delle proprie ragioni tanto quanto della
contraddittorietà delle tesi altrui, partecipò
attivamente ed entusiasticamente allinsurrezione. A
Bogdanov, privato di ogni carica in seno al Partito Comunista
Sovietico, rimase la magra consolazione di essere sopravvissuto
di poco al proprio avversario. Lenin morì
nel 1924 e Bogdanov che da medico qual era, rischiò,
a quanto pare, uninopinata trasfusione del sangue
nel 1928. Nonostante i suoi sforzi, invece, il materialismo
dialettico ha resistito ancora un po.
Nel 2005, capita, allora, che Il Manifesto, quotidiano
comunista, organizzi una grande assemblea con lo scopo di
ragionare di politica e di raccogliere, così ragionando
tutti i leader dei partiti che stanno alla sinistra
dei Ds e capita che il Corriere mandi una
sua penna salace per descriverne, più che landamento,
il colore. O di coglierne quei minuti particolari che potrebbero
valere più del generale.
E così che già con lincipit si conferisce
senso a chi scrive prima ancora che a ciò di
cui scrive -, perché erano dieci anni
recita così larticolo che non si
vedevano congressi politici senza hostess e con il materialismo
dialettico.
Sullastuzia di correlare elementi disomogenei fra loro
senza hostess e con il materialismo
dialettico ci si potrebbe scrivere un intero volume,
ma, facendola più breve, diciamo che risponde soddisfacentemente
allesigenza di svalorizzare un termine tramite laltro.
Chi pensasse, allora, che nellEuropa di oggi si aggiri
minacciosissimo il fantasma del materialismo dialettico, correlandolo
alle hostess gli rifila una legnata storica. Ben più
efficace di quelle di Bogdanov.
La categoria dellhostess, daltronde, è
di quelle solidissime. Prima di espandersi come air
hostess, e prima di perdere lair, il
termine derivava dallantico francese hostesse,
da cui loste di coloro che lo dimenticano sistematicamente
quando fanno i loro conti e lostessa sua signora. E
tramite lhostess da aereo che si arriva alla hostess
da congresso, e così come la prima presiede simbolicamente
alle ritualità estirpanti la paura o la certezza di
morirne, così per rimanere al tema lhostess
da congresso, sorriso a qualsiasi costo e scollatura ripida,
gambe fuori, coscia da 122 centimetri (qualcosa in più
rispetto alla hostess da aereo), presiede simbolicamente alle
ritualità estirpanti la paura o la certezza di quelle
idee, materialismo dialettico incluso, che in congresso potrebbero
anche venir dibattute. Voglio dire, più semplicemente,
che è vero: con le hostess, niente rivoluzione. Senza
con questo pretendere vero il contrario che senza hostess
la rivoluzione è garantita.
Larticolo avrebbe anche potuto fermarsi allincipit.
E avrebbe avuto tutto da guadagnarci, perché
le pagine van pur riempite e chi paga giornali e giornalisti
ama la ridondanza -, fra i punti fermi che caratterizzerebbero
levento fra Ingrao, punto, treccine rasta, punto,
Asor Rosa è in loden verde e sciarpa rossa, punto -,
cè anche Pile dei dialoghi su scienza e
filosofia di Bogdanov, punto.
Il giornalista ha commesso due gravi errori. Il primo. Non
tutto ciò che finisce in ov depone a favore
del materialismo dialettico. E nel caso di Bogdanov siamo
agli antipodi. Non solo. Il libro in questione Quattro
dialoghi su scienza e filosofia , lo so perché
lho curato io, discute proprio il senso dellalternativa
al materialismo dialettico proposta da Bogdanov e, in una
sua parte piuttosto cospicua, ne propone uninterpretazione
costruttivista. Conferma, in altre parole, lopposizione
ideologica fra Lenin e Bogdanov. E un caso in cui, insomma,
il giornalista che cercava il colore, sentendosi in dovere
di screditare invecchiando tutto ciò che gli capitava
sottocchio, si è rivelato daltonico.
Il secondo. Il preconcetto con cui si è aggirato negli
ambiti congressuali della sinistra radicale era talmente grosso,
grasso e pasciuto, che, anche nella più semplice arte
del percepire e del categorizzare, il giornalista è
caduto in fallo. Ha visto, infatti, pile del libro
in questione dove come mi testimonia chi ce le ha portate
e chi se ne è riportate a casa le rimanenti
di pila ce nera una sola. Formata da ben
cinque copie e affiancata da una sesta copia, ieraticamente
in piedi a sancire il culto di una rivoluzione non sua.
Note
Bogdanov era uno pseudonimo. In realtà si chiamava
Aleksandr Malinovsky (1873-1928). Le sue opere principali
sono Lempiriomonismo (1904-1907) e la Scienza
universale dellorganizzazione: Tectologia (che venne
pubblicata interamente fra il 1913 e il 1922).
I Quattro dialoghi su scienza e filosofia sono pubblicati
da Odradek, Roma 2004. Contengono una laconica presentazione
del sottoscritto, tre saggi di Ernst von Glasersfeld e uno
a testa di Massimo Stanzione e Silvano Tagliagambe.
Lepisodio è narrato nella bacheca del sito www.odradek.it
Informatori personali mi riferiscono che, a sera, di copie
ne sono rimaste due.
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*
IL PEZZULLO DI CAZZULLO. Chi mandare per il pezzo di colore
allassemblea della sinistra radicale a Roma,
promossa dal manifesto sabato 15? Al Corriere
della sera non hanno scelta. Perso Francesco Merlo, di
letture più vaste e meditate, schierato Gian Antonio
Stella sul fronte del nord-est a rilasciare umori antimeridionali,
non rimane che Aldo Cazzullo. Il quale, il giorno dopo, pubblica
(p.8) un inconcludente e sciatto articolo impressionistico
un pezzullo, insomma alla ricerca di qualche
inesistente nota di colore. Poveretto, gli unici colori che
racconta sono quelli delle sciarpe e delle camicie. Non trova
alcuno che gli regali un pettegolezzo che è uno. Nei
gabinetti, nessuno fabbrica febbrilmente molotov. E per di
più, manca lispirazione.
Si leggiucchia stancamente larticolessa finché
non si incappa in «Pile dei dialoghi su scienza e filosofia
di Bogdanov. Ingrao. Treccine rasta. Asor Rosa è in
loden verde e sciarpa rossa». Orpo, qui cè
il fumus cospirationis, avrà pensato il lettore
benpensante. Non vè chi non veda. Bogdanov finisce
per ov.
Ora, prima che su Libero si cominci a parlare del micidiale
cocktail Bogdanov, e che una qualche Procura apra un
fascicolo, è il caso di chiarificare per quanto è
possibile. Effettivamente, allAuditorium della Fiera
di Roma, in un banchetto di libri cera una
pila di sei volumi di Quattro
dialoghi su scienza e filosofia di A.A. Bogdanov,
edito da Odradek; e, a sera, ne erano stati venduti ben quattro.
Ma il libro, purtroppo per Cazzullo, ha tutta laria
di essere una macchinosa manovra della reazione in agguato.
Ernst von Glasersfeld, epistemologo austro-statunitense, scopre
i dialoghi di Bogdanov, e li pubblica presentandoli come unanticipazione
del proprio costruttivismo radicale. Due filosofi della scienza
di chiara fama, Silvano Tagliagambe e Massimo Stanzione, avallano
linterpretazione ricostruendo il pensiero di Bogdanov,
il primo in rapporto alla polemica che lo vide contrapposto
a Lenin, il secondo relativamente alloperazionismo e
al costruttivismo. Nel libro si parla soltanto di scienza
e natura, di empiriomonismo ed empriocriticismo, e nemmeno
tanto bene di Lenin. Del Lenin epistemologo, beninteso. Neppure
il dottor Giovagnoli della Procura di Bologna sarebbe in grado
di imbastirci sopra alcunché. Quali associazioni mai
saranno balenate nella testa di Cazzullo? Che sia un avvertimento?
Odradek, Ufficio stampa, 16 gennaio 2005
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Lon.
Severino Galante, che siede giustamente tra i parlamentari
italo-cossuttiani, si è schierato brillantemente tra
quanti hanno preso le difese del giudice milanese Clementina
Forleo, rea di aver assolto dallaccusa di
terrorismo internazionale tre nordafricani. Si tratta
di guerriglieri, avrebbe detto il giudice secondo
alcuni. Non ci sono le prove, avrebbe affermato
secondo altri.
Comunque sia, ha dichiarato il Galante, nella sentenza
di Milano i giudici si sono attenuti alle norme del diritto
internazionale. Forte di tanta copertura giuridica,
si è lanciato sembra persino in una disamina
della differenza tra violenza legittima (la resistenza alloccupante,
in questo caso) e il terrorismo, fino a battezzare quella
irachena come guerriglia.
Bene. Lo dico senza sorridere, perché mi sembrano parole
di buon senso.
Il problema che mi arrovella è un altro. Perché,
a questo punto, Severino Galante non si pente di essere stato
il testimone daccusa nel teorema Calogero
e nellinchiesta sette aprile? In fondo era
un processo davvero osceno, dove ai fatti (ai reati,
se si vuole) venivano anteposte le semplici possibilità
teoriche; dove alle prove si preferiva lanalisi
semantica dellideologia dei perseguiti: Sei autonomo
e rivoluzionario? E allora sei sicuramente un potenziale terrorista.
Se non lhai già fatto, stai per farlo.
Perfetto, meglio quasi dei gesuiti di Torquemada. E quasi
come ora, cambiati i protagonisti, con gli integralisti
islamici contro cui pretendono condanne extragiudiziali
i nostrani integralisti cattolici.
Perché non chiedere perdono alle decine di persone
compagni, più precisamente, anche se di una
parrocchia diversa dalla sua e dalla mia che ha fatto
finire in galera per anni, prima di essere (in buona parte)
assolti? Perché non dissociarsi da quel periodo della
sua vita in cui ha vissuto sotto protezione dei
servizi segreti italiani come un Giovanni Brusca qualsiasi?
Lo faccia. Forse ci sarà più facile evitare
di ridere leggendo quel che dichiara.
fujik
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* Riproduciamo lintervento di Felice Accame
(F.A., nello Zibaldone)
a Radio Popolare, del 9 gennaio 2005.
Per un motivo. Contiene spunti decisivi per un dibattito sul
relativismo storico, sul postmodernismo storiografico. Un
dibattito sicuramente collegato a quanto Marco Clementi
eccepisce nei confronti delle tesi di Benedetto Vecchi (vedi
qui appresso), il quale risolve il problema facendo a meno,
tout court, di storia e memoria.
Odradek aveva già cominciato a dire la sua in
Guerra civile e Stato, allorché aveva rivendicato
il diritto-dovere di riscrivere la storia, essendo il revisionismo
una sorta di abito da lavoro dello storico. Ma sotto condizioni.
Notte
e nebbia, ancora notte, ancora nebbia
Ho temuto di doverlo fare fin dallinizio e man mano
che i giorni passavano e man mano che cresceva limperativo
morale di doverlo fare cresceva in me un forte senso
di depressione, la noia mortale del già detto, il fastidio
fisico del già detto e ripetuto, il dolore angoscioso
della consapevolezza di averlo detto invano e la rabbia furiosa
di doverlo ridire ancora una volta, invano. Momentaneamente
sepolti dal ridicolo gli assertori di una storia oggettiva
il partito di coloro che ci dicono come sono
andate realmente le cose -, oggi spadroneggiano gli
assertori di una storia relativistica stando ben attenti
a non dichiararsi come il partito di coloro per i quali alla
storia può esser fatto dire qualsiasi cosa, ma,
pronti, prontissimi, per lappunto, a giustificare qualsiasi
cosa purché a loro torni qualcosa in tasca.
Il 20 ottobre del 1946, il SantUffizio trasmette ad
Angelo Roncalli, allepoca nunzio apostolico a Parigi,
un documento in cui lo si informa di alcune decisioni, approvate
dal Papa Pio XII decisioni alle quali il nunzio, ovviamente,
dovrà attenersi. Sono cinque vere e proprie istruzioni
su come comportarsi nei confronti di quei bambini ebrei
il documento dice giudei che, durante loccupazione
tedesca, sono stati salvati presso famiglie e istituzioni
cattoliche. La prima raccomanda di non rispondere per
iscritto alle autorità giudaiche che ne reclamano
la restituzione. La seconda raccomanda di prender tempo in
ogni caso, adducendo la necessità di svolgere indagini
prima di decidere. La terza vanta una sorta di diritto di
proprietà acquisita escludendo che, comunque,
possano essere restituiti quei bambini che avessero già
ricevuto il battesimo. La quarta accetta lidea che i
bambini eventualmente non ancora battezzati possano, a determinate
condizioni, essere anche restituiti. La quinta specifica che
se i bambini fossero stati affidati alla Chiesa Cattolica
dai propri genitori, e se questi ora li reclamano, i bambini
sempre a condizione che non siano stati ancora battezzati
possono essere restituiti.
Che da questa lettera tutte le nostre convinzioni in materia
possano venirne rivoluzionate tenderei ad escluderlo. Che
la Chiesa cattolica sia sempre stata antisemita è unovvietà,
perché, innanzititutto, ogni Chiesa è Chiesa
perché è contro unaltra Chiesa e, poi,
perché importanti suoi personaggi si pensi a
padre Agostino Gemelli, fondatore dellUniversità
Cattolica hanno ripetutamente scritto e detto, contro
ebrei e contro gli ebrei in quanto tali, cose gravissime e
vergognosissime. Che, oggi, la medesima Chiesa non ci tenga
un granché a questo suo irredimibile ed irrimediabile
passato è altrettanto ovvio: la corsa al lavaggio della
fedina penale è uno sport molto diffuso fra i potenti.
Allorché il Corriere della Sera
il 28 dicembre scorso pubblica questa lettera, infatti,
la notizia è unaltra. Pio XII ordinava sì,
ma, a quanto pare, Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII,
il Papa Buono, oggi già beatificato, non ubbidiva.
Senonché, senonché. Cè anche un
partito di gente che non ha di meglio da fare che non promuovere
la beatificazione di Pio XII e, dunque, dal giorno dopo, divampa
la polemica. Cè chi scopre ora linsensibilità
del Papa per lOlocausto e cè chi, invece,
ne loda la coerenza, perché ogni battezzato è
figlio della Chiesa, il che, visto e ben considerato
che le proprie regole se le stabilisce la Chiesa stessa, è
rigorosamente incontrovertibile. Cè chi scopre
che casi di non restituiti hanno continuato ad accadere anche
successivamente, chi sostiene che la lettera non è
proprio un falso ma almeno un falsoide sì, perché
si tratterebbe di una copia, forse di una sintesi di istruzioni
ricevute o forse, addirittura, di una lettera che il nunzio
apostolico in un delirio letterario da personalità
multipla - avrebbe scritto a se stesso, e cè
chi propone di bloccare il processo di canonizzazione di Pio
XII, e cè chi dice che Pio XII non era affatto
antisemita. E qui, ahimé, ahinoi e ahitutti, bisogna
fermarsi un attimo.
Lucetta Scaraffia, che purtroppo insegna storia contemporanea
allUniversità La Sapienza di Roma, fra laltro,
sostiene quanto segue: a) che la Chiesa cattolica non è
mai stata antisemita e che, se mai, bontà sua, è
stata antigiudaica; b) che non esistono prove che questo antigiudaismo
sia sfociato in un consenso e in un appoggio allantisemitismo
dei nazisti; e c) che la Chiesa di allora non poteva
certo avere la nostra attuale sensibilità verso gli
ebrei, perché ci siamo infatti resi conto solo
lentamente, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, della
mostruosità e dellentità del crimine perpetrato
dai nazisti contro gli ebrei prima, par di capire,
ritenevamo, noi tutti con Pio XII uniti, che questi ultimi
se la fossero cavata con una bella ramanzina e qualche scappellotto.
Ad approfondire questo taglio epistemologico alla moda, pochi
giorni dopo, provvede Ernesto Galli della Loggia (non chiedetemi
quale) che, prontamente, prende lultima palla al balzo
ed ha limpudicizia di affermare che lOlocausto
(
) ha cominciato a esistere solo dagli anni 60 in avanti
e che, dunque, scandalizzarsi per la mancata ripulsa
settanta o ottanta anni fa da parte di uomini e organizzazioni
di ciò che oggi definiamo antisemitismo costituirebbe
una grave, indebita forzatura. Allorigine
ci sarebbe un errore metodologico: quello di giudicare
moralmente e storicamente il passato, anche il più
prossimo, con il metro che adottiamo per giudicare il presente.
Il passato stesso e la sua immagine, filosofeggia
idealisticamente, sono a loro volta una costruzione
storica, qualcosa che non si costituisce immediatamente una
volta per tutte ma si forma e si trasforma con il tempo
e, dunque, amplio io il discorso, chi sa cosa diventeranno
i campi di sterminio tedeschi fra qualche anno: basta saper
attendere e se son svastiche rifioriranno.
Non la farò lunga, anche perché sulle miserie
del relativismo storico e sulle miserie nefande del relativismo
storico applicato al nazionalsocialismo o al comportamento
della Chiesa cattolica ho già più volte detto
la mia, ma qualcosa devo dire.
Che la Scaraffia faccia il pesce in barile o no, lantigiudaismo
(si sarà notato che il documento del SantUffizio
parla di giudei e non di ebrei) è
semplicemente un nome precedente dellantisemitismo
esattamente come Presidente del Consiglio era
il nome che, prima del fascismo, si usava invece di Premier.
Che questo antisemitismo tradizionale non abbia
costituito né consenso né appoggio
allantisemitismo nazista è letteralmente impensabile
sarebbe come dire che la Chiesa cattolica non abbia
mai costituito né consenso né appoggio alla
Democrazia Cristiana, o forse qualcosa di più improponibile
ancora. Che lOlocausto sia una costruzione storica
degli anni Sessanta è un falsificazione oscena. Ho
già avuto modo di ricordare, per esempio, che la Kressman-Taylor,
nella lontana America, ha scritto Destinatario sconosciuto
nel 1938, o che Rauschning ha pubblicato Hitler mi ha detto
il cui sottotitolo era un inequivocabile Confidenze
del Führer sul suo piano di conquista del mondo
a Parigi nel 1939, un testo, che appare nella versione
italiana già nel 1945, da cui si evince che la pianificazione
dei campi di sterminio nellambito di quella che
allora veniva definita politica biologica - è
già pronta e nota a tante persone fin dal 1933. E gli
esempi includendo magari i testi di Hitler medesimo
stampati in Italia dal democraticissimo e progressistissimo
conte Valentino Bompiani potrebbero moltiplicarsi.
Chi voleva capire, chi voleva vedere non dico fare
qualcosa -, senza il metro di oggi e con il metro di ieri,
senza aspettare i magici anni Sessanta, quando
i morti erano morti nonostante la costruzione storica
in fieri, quella della Scaraffia e del Galli della Loggia
(non chiedetemi quale), li desse ancora sul chi vive, chi
voleva capire e chi voleva vedere poteva sì,
poteva sia capire che vedere non dico fare qualcosa,
o lo dico? Sì, comprendendo vedendo volendo, poteva
anche fare qualcosa.
Allo storico spetta la consapevolezza delle categorie che
usa. Nessuno può pretendere da lui la Verità,
se non infilandosi nel vicolo cieco di un realismo filosofico
autocontraddittorio. Da questo esercizio consapevole delle
categorie, poi, lo storico deve ottenere descrizioni coerenti
delloggetto in studio. Tutto qui e almeno questo. Faccio
un esempio: se beato ha da essere chi ha dato lordine,
è difficile che possa esserlo anche chi, questordine,
non lha eseguito. Eppure la Chiesa cattolica ci riesce.
Sono nato nel 1945. Per forza di cose e non per ideologia
storiografica -, per me, il nazismo e i campi di sterminio
sono diventati un fatto storico con un certo ritardo. Ma sempre
prima di quel che i professori del relativismo
odierno vorrebbero. Con Notte e nebbia di Alain Resnais, un
documento visivo che rimane come un chiodo conficcatomi nel
cervello dal 1960, allorché lo vidi al cinema Ritz
di via Torino a Milano un documento visivo che, peraltro,
era stato girato già nel 1955 e completava i documenti
visivi precedenti, gli originali filmati di chi aveva varcato
fra i primi quelle soglie indimenticabili.
Note
Il documento in questione sarà pubblicato nel secondo
tomo del quinto volume di A. G. Roncalli (Giovanni XXIII),
Anni di Francia. Agende del nunzio Roncalli, a cura
di E. Fouilloux, pubblicato dallIstituto per le scienze
religiose di Bologna.
Gli articoli cui ci si riferisce tutti pubblicati sul
Corriere della Sera sono i seguenti: A.
Melloni, Pio XII al nunzio Roncalli: non restituite i bimbi
ebrei (28.12.2004); V. Messori, Pacelli fu coerente:
ogni battezzato è figlio della Chiesa (29.12.2004
nella stessa pagina: Amos Luzzatto, presidente
delle comunità ebraiche: orrendo il documento
sui bimbi accolti nei conventi); G. Miccoli, La Chiesa
e i piccoli ebrei: il caso del 1953 (30.12.2004); D. J.
Goldhagen, Goldhagen: papa Pacelli, perché non è
santo (4.1.2005 nella stessa pagina: L. Scaraffia,
Ma PioXII non è mai stato antisemita); D. Fertilio,
Il papa buono. Il vero volto di Roncalli al tempo della
Shoah (5.1.2005 nella stessa pagina: L. Accattoli,
Padre Gumpel. La lettera discussa? Fu proprio lui
a scriverla); E. Galli della Loggia, Antisemitismo.
Non giudichiamo il passato con il metro del presente (7.1.2005
nella stessa pagina: L. Accattoli, Gli sviluppi.
Tra Roma e Parigi, le ultime indiscrezioni su quel testo che
scotta). Stendo un velo pietoso su un intermezzo in cui
il vescovo di turno denunciava una sorta di Inquisizione
anticattolica in atto: alla sfacciataggine ed alla malafede
non cè mai fine.
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Marco Clementi
ha così commentato l'articolo di Benedetto Vecchi,
"Il taglio del Settantasette" apparso su il manifesto
del 24 dicembre 2004.
La recensione di Benedetto Vecchi della ristampa del volume
Settantasette (DeriveApprodi) pubblicata il 24
dicembre sul Manifesto (p. 15) pone alcune questioni
che richiedono più di una riflessione. La tesi di fondo
della recensione, se non ho compreso male, è che, come
viene detto nellincipit , [
] il culto della
memoria poco importa se apologetico o denigratorio
impedisce sempre di comprendere il presente [
];
secondo Vecchi, infatti, sia i critici di quel movimento,
sia i nostalgici, fanno del male ai movimenti sociali
attuali, i primi perché equiparano i due fenomeni,
i secondi in quanto ricordano con malinconia. Solo un sipario
definitivo su quella stagione, come sembra voler fare il libro
recensito, può liberare il pensiero che, finalmente,
può leggere il presente senza lipoteca
di una sconfitta, anche perché, ci ricorda il
recensore, la storia è andata avanti.
Secondo Vecchi, insomma, la storia di qualsiasi movimento
(o fenomeno?) dovrebbe essere accompagnata da macchie bianche,
corrispondenti alle sconfitte subite; da un oblìo opportunista,
mi viene da leggere, perché altrimenti diventa pesante
comprendere il presente.
Ma la vera pesantezza, invece, sta proprio nel
modo in cui Vecchi ha affrontato il tema, confondendo due
piani tra loro distinti, quello politico e quello storico,
fatto dal quale deriva la difficoltà di razionalizzare
il suo pensiero, tanto che costringe linterlocutore
a una sintesi in negativo: Vecchi ignora una delle massime
del movimento democratico europeo del Novecento, e cioè
che la lotta delluomo contro il potere sta proprio nella
lotta della memoria contro loblìo; ma non volendomi
addentrare nel discorso politico (se fossi chiamato a farlo
non declinerei), mi limito a poche riflessioni sulla storia.
Nessuno storico ha mai sostenuto che la storia sia maestra
di vita, dunque Vecchi da questo punto di vista può
stare tranquillo; tutti, però, concordano sul fatto
che le macchie bianche, inevitabili nella nostra disciplina,
devono essere riempite di contenuto, senza atti volontaristici
ma attraverso la ricerca; quando, poi, il tempo che ci separa
da un avvenimento è breve (come nel caso del Settantasette),
le macchie bianche sono necessariamente molte (e non per volontaria
omissione) e la necessità di ricercare e continuare
a riempire è ineluttabile. Non vorrei sembrare didascalico,
ma credo valga la pena riaffermare che una nazione che non
conosca la propria storia perde una delle qualità intrinseche
al suo essere un elemento unitario. La storia dItalia,
specialmente quella recente, è piena di queste macchie
bianche. Ne vogliamo aggiungere una nuova proprio quando non
solo i vincitori, come afferma Vecchi, hanno facoltà
di parola?
Marco Clementi
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Il primo dicembre 2003 è morto, a Roma, alletà
di 85 anni, Vittorio Somenzi, già docente di
Filosofia della scienza alla Sapienza. Era nato il 2 aprile
1918 a Redondesco, in provincia di Mantova. Era stato un partigiano
antifascista.
Nel primo anniversario della morte, pubblichiamo il ricordo
di Claudio Del Bello, nostro
collaboratore e suo allievo.
Di seguito, un contributo di Felice
Accame, dal quale si evince che non parlare mai
male di nessuno non è propriamente una virtù.
Vittorio
Somenzi, un maestro del domandare
Claudio Del Bello
da Giano,
n. 45
Aveva
avuto la prima cattedra di Filosofia della scienza in una
università italiana, non senza clamorosi contrasti
nella commissione. Lui, laico, fisico di formazione, fu loccasione
di una tardiva quanto simbolica riparazione per colmare un
buco più che ventennale. Il fascismo centra poco
(anche se ha fatto la sua parte). Il maggiore responsabile
della sottoordinazione della scienza, della sua derubricazione
ad ancella della filosofia, della sua assimilazione a tecnica,
ovvero a una delle tante ideologie, è stato lasfissiante
neoidealismo italiano, e cioè Croce e Gentile; più
Croce (con la sua teoria degli pseudoconcetti, quelli della
scienza, appunto) che Gentile, a dire il vero.
Dopo anni di incontrastato dominio di idealismo riformato
riemergeva, comunque, un naturale interesse per lanalisi,
la critica e la storia della scienza. E Somenzi seppe corrispondere
a questo interesse riannodando i fili interrotti di una tradizione;
non solo di quella da Leonardo a Galileo, a Volta, Galvani,
Schiaparelli, ecc. ma anche di quelli più recenti di
Peano, Vailati, Calderoni, Enriques, Colorni, che idealismo
e fascismo avevano oscurato, aprendo inoltre agli aspetti
più fecondi del pragmatismo americano, facendo conoscere
in Italia il pensiero e lopera di unaltra straordinaria
figura di scienziato-filosofo (premio Nobel per la fisica
nel 1946) e cioè Percy Williams Bridgman, con il quale
aveva lavorato durante un suo soggiorno negli Stati uniti
subito dopo la guerra, e dal quale aveva mutuato il punto
di vista operazionistico. Poté così
sviluppare e offrire la filosofia della scienza come la riflessione
filosofica di uno scienziato. La disciplina, in seguito, diventerà
la riflessione di filosofi sulla scienza. Il che non è
la stessa cosa. E a Somenzi non sfuggiva, infatti, lassurdità
di un insegnamento, come Filosofia della scienza, affidato
a filosofi che possono parlare solo di filosofia della scienza,
e non della scienza. Tuttavia, se la filosofia è larte
di porre domande e la scienza la disposizione a fornire risposte,
Somenzi era certamente più filosofo che scienziato.
Era sua profonda convinzione che la laurea in filosofia dovesse
essere la seconda laurea. Non solo perché così
si sarebbe conseguita in unetà più matura,
ma soprattutto perché sarebbe risultata lapprofondimento
dello studio di conoscenze particolari, della riflessione
sullapplicazione di procedure e regole proprie di una
disciplina specifica. Potendo così dare ragione (a
seconda che si voglia privilegiare il termine filosofia oppure
il termine scienza) del modo di formulare le domande, oppure
quello di dare risposte.
Ai suoi allievi rimane linsegnamento per il quale filosofia
della scienza è espressione problematica, bifronte,
palindroma; piena di tensioni e torsioni. Soprattutto oggi,
allorché si è costretti a dare conto di due
circostanze. Da parte della scienza, in cui un processo di
specializzazione progressiva ha condotto a parcellizzazioni
disciplinari sempre più spinte, mentre la tradizionale
gerarchia che vedeva legemonia delle scienze fisiche
è stata completamente azzerata; e non dimenticando
che limportanza economica (misurata dagli investimenti)
delle scienze è mutata sicché, mentre si è
fortemente ridotta limportanza della fisica, è
di molto aumentato il peso della biologia (biotecnologie)
e dellinformatica. Da parte della filosofia, nel suo
rapporto con la scienza, assistiamo a un aumento delle aspettative
che la filosofia non riesce a soddisfare. È stato notato
che i filosofi sembrano consumati dai dubbi proprio mentre
le persone comuni si volgono ad essi in attesa di certezze;
che oggi non cè più una filosofia che
si impone come guida universale; che non cè più
un unico sapere, mentre le fonti di conoscenza
si sono moltiplicate. E un libro recente sintitola Filosofie
delle scienze, proponendo cioè una filosofia
per ogni scienza, visto che una scienza unitaria non esiste.
Avevo cominciato a raccogliere i suoi scritti più antichi
e meno noti, e lui aveva suggerito il titolo del libro: Come
non detto, che bene illustra un suo tratto caratteristico;
infatti in questi scritti straordinari emerge una sua capacità
di anticipare tematiche e problemi, senza che nessuno gliene
abbia dato il riconoscimento. Tra laltro, noi allievi
scoprimmo che in un suo articolo su Synthèse aveva
anticipato proprio il concetto di paradigma scientifico
(circostanza che, ovviamente, nulla toglie a Kuhn, che vi
perviene sulla base di studi di storia della scienza).
Insieme a Silvio Ceccato e Giuseppe Vaccarino costituisce
la Scuola operativa italiana, che non ebbe esiti
istituzionali (se non importanti riviste come Sigma, Methodos
e Methodologia) e rimase fortemente marginalizzata; una scuola,
tuttavia, non provinciale, dal momento che può esibire
legami non occasionali con Hugo Dingler e Percy W. Bridgman
e addirittura prestiti rilevanti al costruttivismo, peraltro
riconosciuti e vantati da Ernst von Glasersfeld, Heinz von
Foerster e Paul Watzlawick.
Pioniere degli studi sul rapporto uomo-macchina e mente-cervello,
dellintelligenza artificiale e anticipatore della moderna
filosofia cognitiva, guardava con distacco e con un certo
sospetto alla loro disciplinarizzazione e istituzionalizzazione.
Tra i fondatori del CICAP, con Margherita Hack e Piero Angela,
sulla parapsicologia Somenzi aveva scritto molto; ovviamente
in termini liquidatorii, anticipando molte critiche al New
age e al Postmodernismo, prima ancora che la tendenza si manifestasse
con le caratteristiche che conosciamo. Agli occhi dei Postmodernisti,
Somenzi sarebbe apparso un riduzionista classico. E in qualche
misura lo era, dal momento che negava il bisogno di scomodare
concetti e teorie irrazionali e non verificabili finché
si può procedere con la scienza sperimentale.
Unultima notazione, ma decisiva, va fatta a proposito
della sua passione civile e politica. Alieno da esibizionismi
e ideologie conclamate era stato sempre molto riservato sulla
sua attività durante la Resistenza. Aveva fatto il
partigiano con lOri, ed era stato paracadutato due volte
oltre le linee nemiche. La seconda volta aveva continuato
la resistenza nelle bande del Friuli come ufficiale di collegamento.
Il 1° maggio del 1945, a Bolzano, era stato lui, giovane
tenente dellAeronautica, a controfirmare la resa dellultimo
contingente tedesco.
Con ogni evidenza, spinto dalla delusione e dalla preoccupazione
per la situazione politica, in questultimo decennio
leggeva per lo più libri di storia contemporanea italiana,
e su questi temi amava intrattenersi. Scuotendo mestamente
il capo, insofferente della storiografia ufficiale e delle
ricostruzioni di comodo, era bibliograficamente agguerritissimo
sulle vicende italiane del fascismo e della Resistenza.
A mettere insieme le testimonianze dei suoi tanti allievi,
con ciascuno dei quali continuava a coltivare qualcuno dei
suoi molteplici interessi (dalle neuroscienze, alla storia
della scienza, dalla pittura contemporanea alla storia, e
pure alla critica dellideologia) potrebbe risultare
una figura caleidoscopica, insulsamente enciclopedica e compulsivamente
curiosa, e che la sua passione civile e politica fosse separata
dal suo impegno filosofico e scientifico.
Al contrario, passione e impegno erano espressione di un medesimo
atteggiamento, di una visione unitaria che collegava, per
esempio, sia linsofferenza per il revisionismo storico
che quella nei confronti delle riletture mistiche e assolutorie
di Heisenberg. Non a caso, quindi, la borghesia italiana lo
ha scansato, e i necrologi che hanno accompagnato la sua morte
sono stati tanto compunti quanto tiepidi e distratti.
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Riportiamo anche la Caccia di Felice
Accame, letta a Radiopopolare nella trasmissione di
domenica 19 dicembre u.s.
Accame, reduce dalla Giornata in ricordo di Vittorio Somenzi,
organizzata a Roma, alla Facoltà di Filosofia dellUniversità
degli studi La Sapienza il 17 dicembre 2004, ha
voluto dissentire da Ruggero Pierantoni riguardo a una pretesa
irenica equidistanza di Vittorio Somenzi che non avrebbe mai
parlato male di nessuno.
da
Radio Popolare, 19 dicembre 2004
Commemorazione e unanimità
Dopo aver ricordato il collega e lamico con tanta sagacia,
con tanta abilità retorica, tanta brillantezza e altrettanta
lucidità, con tanta raffinatezza letteraria e fin senza
negarsi un tanto di snobistico birignao tutto tanto,
tutto forse troppo, per un discorso che, alla finfine, a virtù
altrui e non alle proprie avrebbe dovuto esser dedicato ,
dopo aver dato di sé, dunque, questottimo attestato
e prima di accogliere i calorosi plausi che è
ormai convinto di meritarsi , corona il suo intervento
pubblico confidando che il morto in vita, è
il caso di specificarlo non gli aveva mai parlato male
di nessuno.
Non parlar male del prossimo e prima che parlare, ovviamente,
non pensare male del prossimo - è indice di grande
consapevolezza e di umana pietà. La carne è
debole, lo spirito non ne parliamo nemmeno, la tentazione
di prendere la scorciatoia piuttosto della via più
lunga e faticosa, di solito, lha vinta su chiunque in
quattro e quattrotto. Chi sa di sé della
propria viltà in certi frangenti, dellimmediatezza
di un silenzio o di unomissione sa che non cè
affatto bisogno che il gallo canti tre volte e, dunque
commisurando gli altri alla propria statura, è ben
disposto a stendere un velo pietoso su chiunque classificando
ciascuna azione altrui con un sereno beneficio dinventario.
In una mano il Vangelo e nellaltra Il libro della norma
di Lao-Tse: a chi non denuncia la pagliuzza nellocchio
altrui non dovrebbe venir rimproverata la trave che è
conficcata nel suo e a chi, non esprimendo giudizi negativi,
dimostra di non aver conteso con gli altri, tocca poi tutto
lutile di non incorrere in alcun danno.
Accreditare un morto di questa capacità di unassunzione
di responsabilità dei propri errori tale da non poterne
più addebitare a nessuno parrebbe lespressione
della massima stima e del relativo senso di devozione che
ancora sentiamo di dovergli. Parrebbe.
Parlar male e prima di parlar male, ovviamente, pensar
male di qualcuno è, invece, doverosamente necessario.
Casa nostra, le strade, la gente oppressa e la gente che loppressa,
la cultura che produciamo, la nostra storia questo
nostro mondo, insomma proprio tutto giusto, tutto accogliente,
tutto sensato, tutto umano per tutti gli umani proprio non
è. Porzioni sempre più abbondanti della nostra
vita ci fanno orrore la difficoltà di parlarci,
la mancanza di lealtà alla quale veniamo educati da
subito, i gas delle automobili, il cibo che fa schifo, le
frottole sulla nostra storia e sulla nostra scienza, i fondamentalismi
religiosi e la loro insulsa autorità, la voracità
dei potentati e delle loro controfigure al governo, la benedizione
ecumenica dei mezzi di sterminio della nostra specie sul pianeta
-, tutto questo e parecchio altro ancora ci fa orrore e qualcuno
di questo orrore sarà pur responsabile. Dirmi che ne
siamo responsabili tutti, indistintamente, non mi sta bene,
perché nella mia vita e non credo sia capitato
solo a me ho più volte dovuto constatare che,
di fronte a certe scelte, chi poteva scegliere ha scelto la
migliore per sé facendo finta di non sapere che, al
contempo, quella scelta era la peggiore per gli altri.
Col tempo e con lesperienza i criteri per scegliere
il sano dal porcume me li sono costruiti. E in grazia
di ciò che posso dire che, sul mercato odierno, il
porcume è molto più del sano ed è in
grazia di ciò che un minimo di genealogia di questo
porcume sono ancora in grado di farla. Con nomi e cognomi:
so con discreta certezza che quel libro sostiene tesi vergognosamente
false nellinteresse minimo del suo autore e nellinteresse
massimo di chi lo sostiene nel mercato ideologico, so che
il tale nel dibattito televisivo sta mentendo, so che il talaltro
nel processo in corso sta dicendo un mucchio di balle cui
non crederebbe un bambino ma qualche magistrato invece sì,
so che quel titolo sul giornale dice esattamente il contrario
di quel che cè scritto nellarticolo e so
che quellaltro articolo è stato scritto soltanto
nellinteresse di uno che non ne è affatto lautore.
So perfino che in quel tal libro è stata cancellata
una frase per ordine di qualcuno, so che in un altro il nome
di un tizio è stato sostituito dal nome di un altro
so anche di casi in cui si è trattato del nome
dellautore , so che in un altro due fatti del
tutto estranei luno allaltro sono stati giustapposti
in modo che il lettore, inavvertitamente, ponga fra loro un
rapporto di causa e di effetto. Di questi scempi, che non
contribuiscono certo a migliorare la qualità della
nostra vita associata, so nome e cognome degli autori. Per
essere onorato da morto, dovrei tacerli? Non mi è mai
passato per lanticamera del cervello.
Chi ha criteri per dirimere, lo faccia. Assumendosene coraggiosamente
la responsabilità. Lunanimità è
un segnale inequivocabile di agghiacciante rassegnazione.
Accreditare un morto della virtù di non aver mai parlato
male di nessuno equivale ad addebitargli o unintrinseca
inettitudine o unirrimediabile viltà.
Lamico e collega così commemorante ha dunque
ritenuto di essersela cavata brillantemente con questa confidenza
finale al pubblico partecipe e prontissimo a battergli le
mani. Non ha capito di essersi messo, da solo, in un piccolo
guaio. Perché dimentico della strenua passione
politica che, invece, aveva da sempre caratterizzato la vita
di chi commemorava, dimentico del fatto che costui era ben
dotato di strumenti critici affilatissimi nonché della
volontà di applicarli non ha pensato che, forse,
non parlandogli male di nessuno, manifestava implicitamente
il proprio giudizio sulla sua persona. E, infatti, con il
morto quando era in vita, è ancora il caso di
specificarlo ne abbiamo parlato più volte. Di
lui. Maluccio.
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