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Sono STATI UNITI
Chi non ricorda il film, ormai stracult, di fine anni Settanta "Saturday night fever"? E' la storia di un giovane e bello John Travolta, ballerino amatoriale, che cerca di uscire dall'emarginazione di una condizione di sottoproletariato nella quale lui e i suoi amici si trovano "per nascita"; egli, però, non realizza pienamente (al contrario del fratello prete) chi sia veramente, e la sua ribellione è istintiva, e la presa di coscienza è ben di là dal giungere. Il film, purtroppo, non fu interpretato dalla maggioranza silenziosa (in Italia come altrove) come una storia di emarginazione, e segnò simbolicamente la fine dell'impegno e l'inizio degli anni Ottanta, il decennio dell'edonismo reaganiano e di altre amenità che ancora oggi accompagnano le nostre esistenze. Che strano simbolo; un film che, peraltro, nulla aveva a che fare con l'Europa e con l'idea di società che questo continente, allora diviso in due campi, si dava nelle sue entità; la pellicola era, invece, un ottimo spaccato di società americana, dove nessuno è buono e dove i mediocri e i balordi sono gli statunitensi di seconda generazione (i figli degli emigranti), mentre "gli altri", quelli di cui lo spettatore sa grazie soltanto alle parole dei mediocri, non sono neanche statunitensi, ma "portoricani". Portoricani sono i componenti della banda rivale, con la quale Travolta e co. si scontrano in due riprese; portoricana, inoltre, è la coppia che alla gara di ballo costringe al secondo posto lo stesso Tony Manero e la sua dama, che rappresenta (lo dico per inciso) l'unica porta di uscita verso una società diversa.
Mi colpì, quando uscì il film, quello che sembrava un epiteto: "portoricano", come a dire, da noi, "extracomunitario", ovvero "clandestino". E sì che negli States i portoricani non sono del tutto extracomunitari e clandestini; eppure non sono neanche dei veri e propri cittadini.
Per meglio comprendere come sia possibile tutto ciò nella patria della democrazia, è necessario ripercorrere brevemente la storia di questa piccola ex colonia con bandiera cubana.
Porto Rico è un'isola dell'arcipelago antillano, e sorge a Est della Repubblica Dominicana. Colombo (Cristoforo), dunque, vi si imbatté quasi subito e già nel 1493 Portorico fu invasa dagli spagnoli. Trascorsero secoli di lotte e sottomissione, finché nel 1898, in occasione della guerra ispano-statunitense, gli Usa invasero la colonia, imposero l'idioma inglese-americano, un governatore militare e, nel 1940, la cittadinanza statunitense ai nativi Portoricani, nonostante l'opposizione quasi unanime della camera elettiva locale, la Camera dei Delegati.
Il 4 luglio 1950, poi, il presidente statunitense Harry Truman firmò il Public Act 600 che istituiva, per l'isola, lo status di Commonwealth, che si realizzò il 25 luglio 1952. Tutto ciò, non senza che il 1° novembre 1950 due membri della resistenza portoricana attentassero, a Washington, alla vita del presidente statunitense Harry Truman, fallendo l'obiettivo.
Grazie al Commonwealth, le leggi a Porto Rico non le fanno i portoricani ma gli statunitensi e, in particolare, il Tribunale Supremo dell'isola, per il quale, si potrebbe dire, Porto Rico appartiene agli States, ma non è parte degli States. Una colonia a metà, una stella sulla bandiera statunitense (l'ultima in ordine di tempo), e la negazione dei principali diritti (tra cui quello di voto) ai suoi abitanti. Ogni legge approvata dagli organi legislativi portoricani, infatti, può essere revocata dal Congresso USA e le decisioni dei suoi Tribunali nazionali sono soggette alla revisione delle Corti statunitensi. Viceversa, le leggi del Congresso USA vengono applicate in Porto Rico, fatto salvo che non sia esplicitamente escluso.
Nel corso degli anni si sono avute tre consultazioni elettorali riguardanti lo status dell'isola; nel 1967 il 60% si dichiarava per il Commonwealth; nel 1993 il 48,6%; nel 1999, il 46,5. L'indipendenza, lo si deve dire, non ha mai avuto un grande proselitismo nell'urna (4%), mentre sempre di poco inferiore al Commonwealth si raccoglievano i voti per diventare a tutti gli effetti uno Stato della Federazione americana. Nel 1999, però, la maggioranza assoluta dei voti è andata alla soluzione numero 5, che rifiutava sia l'indipendenza, sia il Commonwealth, sia diventare uno Stato, ma non proponeva nulla.
Mesi fa, raccontava Sepùlveda sul "Manifesto", egli aveva incontrato a Seul due marines degli Stati Uniti che parlavano uno spagnolo caraibico ed erano di Porto Rico. Andavano in Iraq, ma prima trascorrevano una settimana nella Corea del Sud, come premio. Essi, a dire di Sepùlveda, erano partiti volontari per l'Iraq perché al ritorno li avrebbero fatti cittadini Usa. Ma come, e la stellina sulla bandiera? Quella, a ben vedere, rappresenta la terra, la TERRA, non chi la abita, gli indigeni dell'isola (i "Tainos"), che chiamano Porto Rico "Boriquén".
Il musicista Filiberto Ojeda Rios, 72 anni, era diventato, nel corso degli ultimi decenni, il capo del movimento indipendentista dei Tainos. All'inizio degli anni Ottanta, cinque dopo l'uscita de "La Febbre del Sabato sera", aveva compiuto una rapina (era il 12 settembre 1983) a Hartford (Connecticut), con lauto bottino di 7,2 milioni di dollari. Arrestato nel 1985, nel 1988 era ancora in attesa di giudizio e uscì di prigione dopo aver pagato una cauzione di un milione di dollari (un settimo della rapina!), controllato da un dispositivo elettronico. Durò due anni, quindi si tolse il bracciale, che fece recapitare al quotidiano indipendentista "Claridad", di San Juan, e si diede alla clandestinità. Con un evidente senso di vendetta, un tribunale statunitense lo condannò in contumacia a 55 anni di carcere per la rapina del 1983 e le autorità posero sulla sua testa una taglia di mezzo milione di dollari. Nessuno, però, riuscì a scovarlo dalla sua clandestinità, da dove concesse interviste, fece dichiarazioni scritte e persino registrò messaggi destinati ai gruppi indipendentisti. La sua clandestinità e lotta, però, sono terminate pochi giorni fa, quando agenti dell'FBI (Federal Bureau of Investigation, dunque indagini interne agli USA), lo hanno scovato e ucciso. Quindici combattenti anticoloniali, inoltre, sono stati recentemente giudicati e condannati a pene dai 35 ai 90 anni per opposizione all'autorità statunitense di Porto Rico, altri sono in attesa di giudizio, in prigione. Lontani i tempi di Clinton (1999), quando 11 prigionieri del movimento indipendentista furono rimessi in libertà. Perché in America, lo si sa, ormai si fa così.
MC, Roma.

 

* Cristo Re
Lontani nello spazio, due statue di Cristo Re sono accomunate da tempi simili. Quella imponente che sorge di fronte a Lisbona, alta 28 metri (più un’ottantina di piedistallo), e quella, ben più bassa, che abbraccia la Conca amatriciana alle pendici dei Monti della Laga, furono infatti erette per volere di due prelati – addirittura un vescovo nel primo caso – alla fine della seconda guerra mondiale. Il signore, motivarono entrambi, aveva voluto preservare, il Portogallo intero nel primo caso, la zona di Amatrice nel secondo, dalle distruzioni del conflitto.
Oggi, però, le cose stanno altrimenti: mentre Amatrice, infatti, sembrerebbe non subire alcuno dei flagelli estivi (fuoco, acqua, disastri aerei), il Portogallo brucia. Incendi, in molti casi fuori dal controllo dei mitici “Bombeiros”, stanno distruggendo boschi, strade, villaggi, cittadine, minacciando finanche l’università di Coimbra.
Quasi a prendersi gioco dei poveri portoghesi, a circa duemila km di distanza da Lisbona la terra è sommersa da ingenti piogge, che hanno provocato esondazioni di fiumi e portato distruzione in molte zone della Svizzera, dell’Austria e della Germania (Baviera), minacciando anche la Repubblica Ceca, la Croazia e la Slovenia. Come se non bastasse, inoltre, il litorale romano ha anche vissuto la sua giornata da leone quando, dopo una scossa di terremoto appena avvertita nei quartieri meridionali della capitale, alcuni intrepidi romani hanno dimostrato senso del coraggio e rispetto per i morti del dicembre scorso sgombrando le spiagge. Si temeva, lo si è letto il giorno dopo sui giornali, un’onda anomala.
Se a questi preoccupanti dati aggiungiamo anche le cadute degli aerei dei turisti, le bombe di Londra e quelle di Sharm el-Sheik, si può dire che l’estate in via di esaurimento sia stata davvero distruttiva. Il Pil dei paesi toccati dalle catastrofi (naturali?) avrà qualche leggero beneficio dalla ricostruzione, ma ciò non servirà di certo a rianimare un sistema economico agonizzante. Perché è di questo che si sta parlando, del capitalismo che, anche a costo di bruciare o di morire affogato, continua incessante, in ogni stagione, la sua opera di deformazione dei paesaggi e delle coscienze. Cercando di sostenere ad ogni costo uno sviluppo insostenibile, i costi sono proprio quelli che sempre con maggiore frequenza la natura, e le macchine, ci vengono a chiedere.
No, griderà qualcuno. Alla Cina, si guardi alla Cina! Ha scelto il capitalismo e fattura un aumento del 9% del Pil annuo. Tutto ciò è vero, lo fattura, ma le conseguenze di questo sviluppo sconsiderato sono drammatiche all’interno del Paese. Ormai le rivolte locali contro la corruzione, la distruzione dell’ambiente e la crescita della povertà si contano nell’ordine delle migliaia e, secondo studi recenti, se le cose non dovessero cambiare, nel 2010 si giungerebbe al punto di rottura tra le due Cine (un tempo si sarebbe detto – a una situazione rivoluzionaria), quella dei poveri e quella, più circoscritta, dei nuovi ricchi. Perché l’usura di un territorio, come quella di un uomo, ne provoca irrimediabilmente la rottura. Come per l’usura di una macchina.
È strano che cadano aerei usati come autobus dai turisti che, pur provenendo spesso da zone fornite di mari bellissimi, cercano l’esotico a pochi centesimi dall’altra parte di quello che fu, per pochi anni anche di recente, il mare nostrum? È strano che alcuni italiani perseverino nella loro speciale capacità di trovarsi sempre nel posto sbagliato nel momento sbagliato? Di recente il Corriere della Sera pubblicava una lettera di un turista che si recava, nonostante i morti, a Sharm, perché, secondo lui, il terrorismo non doveva vincere, cambiando le nostre abitudini! Il 23 agosto, invece, Euronews mandava in onda l’intervista a un turista italiano che si trovava in Portogallo. Protestava perché le autorità gli avevano consigliato un pronto rientro in patria, mentre egli voleva restare. Nonostante gli incendi, nonostante fosse in atto una tragedia di enormi proporzioni. O, invece, proprio per questo?
Da quando esiste, il capitalismo ha portato con sé sviluppo insostenibile e guerre, contribuendo ad affamare una buona percentuale di popolazione mondiale. Con la globalizzazione, la guerra esportata ritorna in casa sotto forma di guerra asimmetrica (o, volgarmente, terrorismo). E non conta portare la guerra il più lontano possibile da casa, perché la globalizzazione annulla le distanze (sembra, dicono).
I disastri naturali, poi, ora non accadono solo nei Paesi poveri, ma anche in quelli che ne producono le cause, principalmente attraverso l’abuso del territorio.
Lo stadio attuale del capitalismo è, sic stantibus le risorse naturali, quello estremo. Esso non può condurre tutti noi altro che verso una morte lenta, lentissima, ma inevitabile, per un sentiero che promette nuove guerre e cataclismi durante i prossimi decenni. I due Cristo Re che ne accompagneranno le gesta sono gli ultimi, per il momento, e forse, come per la Terza Roma, non ce ne saranno altri.
Vienna, 23 agosto 2005

M.C.


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* Corrispondenza da San Pietroburgo
Ieri, 29 giugno 2005, con una sentenza senza precedenti nella recente storia della Russia post sovietica, è stato messo fuori legge il partito
nazional-bolscevico, fondato e diretto dallo scrittore Eduard Limonov, di cui Odradek ha pubblicato il Diario di un fallito.
Dopo la sentenza, legata a inadempienze amministrative, come la mancata comunicazione della sede legale per gli anni trascorsi, Limonov ha
dichiarato che il partito continuerà la sua attività e che non rispetterà la decisione dei giudici. Sebbene abbia sottolineato la valenza politica della sentenza, non una parola è stata spesa per enfatizzare l'esistenza di
toghe colorate (del resto qui i procuratori hanno una divisa di tipo militare).
Negli ultimi tempi il partito di Limonov, oltre che per le sue tesi scioviniste di natura nazionalcomunista, si è distinto per azioni clamorose di protesta, come quando, all'inizio di giugno, due attivisti, sospesi nel vuoto, sono riusciti a tenere uno striscione di protesta appeso a un albergo di fronte al Cremlino per più di quattro ore, senza che la milizia potesse intervenire.
Limonov, si ricordi, si trova in libertà condizionata dopo essere stato condannato a quattro anni di carcere per attivita' sovversiva.
M.C.

* Un dispaccio della Tass rovescia la notizia da San Pietroburgo.

16/8/2005 - 14,30 Mosca, 16 agosto (Itar-Tass) - La Corte Suprema della Russia ha capovolto martedì la decisione di liquidare il Partito Nazionale Bolscevico guidato da Eduard Limonov. La Corte perciò ha accolto l'appello di Limonov, con il quale aveva chiesto di rovesciare la sentenza della Corte della regione di Mosca. Un procuratore regionale ha però annunciato di voler fare appello contro la decisione della Corte Suprema.

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* Caro Bachemaster,
ti allego un mio intervento al Seminario “Stato Globalizzaziuone Guerra” che si tenne all’Università degli studi di Pisa il 3 e 4 marzo 2001. Della serie: “Io l’avevo detto”. Lo so, è una passione triste. Epperò, sul sito, dovresti aprire una finestra per accogliere queste recriminazioni. Se non ti piace “Io l’avevo detto”, potresti intitolarla “per non scendere muti nel gorgo”, o qualcosa del genere. Odradek, nel 2000 pubblicò un libro del Comitato Scienziate e scienziati contro la guerra:Contro le nuove guerre”. C’era un saggio di Alberto Di Fazio sulla crisi energetica che individuava il raggiungimento del “picco” del petrolio tra il 2008 e il 2010. Ebbene, il picco si è presentato con largo anticipo. Nel mio intervento sollecitavo gli economisti al convegno. Non mi si filarono di pezza. Solo la Turchetto mi sibilò: “malthusiano”. Boh.
C.D.B.
, 29 giugno 2005


Requiem per il petrolio (e per altro ancora) [sta su Giano n. 37]
«Vorrei fare una riflessione breve e una domanda, segnatamente a Turchetto e Bellofiore. La riflessione è questa: si è spesso evocato qui Marx; ma a quale Marx si è fatto riferimento? Al Marx del primo libro del Capitale, al Marx della "legge generale delI'accumulazione capitalistica"; un Marx che a sua volta fa riferimento a crisi cicliche, per certi versi benefiche, virtuose; crisi dalle quali il capitale esce più bello e forte che pria, grazie alla scienza, o meglio, all'innovazione tecnologica e/o alla guerra. Un Marx apprezzato un po' da tutti: da Schumpeter al "Wall Street Journal", un Marx presentabile e, per certi versi rassicurante. Ricordo che generazioni di marxisti, con riferimento a quel Marx, ci hanno indotto a credere che fosse il lavoro il limite del capitale; non è vero, tragicamente non è stato vero. Solo nel terzo libro Marx affronta i limiti intrinseci e strutturali del capitale. Il capitale per Marx sembra avere altri limiti; due essenzialmente: uno interno, il profitto, la sua caduta tendenziale (a cui è dedicata la terza sezione del terzo libro) ed uno esterno, la terra (di cui tratta nella sesta sezione: "la terra come limite all'espansione del capitale", non invento nulla).
La terra con la t minuscola, ma anche la Terra con la t maiuscola. La terra come bene non riproducibile. Non entro nella "teoria generale degli extraprofitti", perché sarebbe certamente ambizioso e dispendioso. Mi rifaccio all'intervento del compagno di "Guerre e Pace" e a quelli di Sartogo e Cortesi: partiamo dal petrolio. Il petrolio, tra i frutti della Terra, è la merce che entra nel prezzo di produzione di tutte le altre merci e anche del suo stesso prezzo di produzione. Per la prima volta, e questo è l'elemento direi caratteristico di questo scorcio di secolo: una merce prodotta capitalisticamente, il petrolio, entra nel prezzo di produzione di tutte le altre merci, e anche di se stessa. Una merce, si badi bene, che però, non può essere riprodotta capitalisticamente, perché è una risorsa data. Ci sono limiti allo sviluppo: certo, tutte le risorse non riproducibili, ma intanto, sicuramente, il petrolio come fonte di energia; la sua scarsità è un limite allo sviluppo, soprattutto quando non è sostituibile da altre fonti più a buon mercato.
Ricordo la vicenda del "Club di Roma"; il Club di Roma ha pubblicato due libri a distanza di più di un decennio facendo delle previsioni. Queste previsioni sono state testate: ci sono 4 modelli di 4 università americane che individuano il picco della produzione del petrolio intorno al 2008/2010: mica "chissà quando" (a fronte di un Rubbia che dà delle cifre ottimistiche sulle risorse disponibili: ma, anche allargandosi generosamente, concede una trentina di anni in più). Ammettiamo questo dato: 2008/2010, il picco della produzione.
La domanda, la domanda agli econornisti, agli economisti compagni, è la seguente: vorrei sapere se ci si è posti questo problema a livello teorico; cosa può succedere quando la produzione di petrolio piccherà, quando la produzione di petrolio raggiungerà il suo massimo, cosa succederà al suo prezzo? E a quello di tutte le altre merci? I manuali parlano di arresto della produzione. Questo è uno scenario che mi permette di non parlare di catastrofi; conosco, io che sono nel "Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra", conosco il riflesso condizionato dello scienziato quando sente parlare di catastrofi. Mette mano alla pistola? No, comincia a fare dei gestacci, come qualsiasi superstizioso. Lo scienziato non vuol sentire parlare di catastrofi ... Allora, non parliamo di catastrofi. La domanda è: cosa può accadere al sistema dei prezzi quando il picco della produzione del petrolio raggiungerà il suo massimo, a breve?»

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* Caro Bachemaster, senza avere la pretesa di convincere alcuno, ma a futura memoria e con riferimento, semmai, ai referendum prossimi venturi, ti affido queste mie povere considerazioni.
- Intanto voterò, come ho sempre fatto (molte volte annullando la scheda) perché ho dei fucilati dai fascisti in famiglia e non considero la democrazia un optional, comunque in alternativa alle gite al mare.
- Voterò, nonostante consideri l’uso massiccio, improprio e degenerato, dell’istituto del referendum, una delle cause del collasso costituzionale e della delegittimazione del Parlamento. La deriva populista è cominciata e poi cresciuta chiamando il popolo a credere di poter legiferare in vece del Parlamento. Le massicce dosi referendarie che i radicali hanno somministrato a questo paese hanno determinato l’accantonamento del proporzionale - cioè della democrazia - a furor di popolo, e sottolineo “furore”, ma più in generale hanno preparato la deriva neoliberista instillando l’idea delirante e onnipotente che il vero problema fosse quello di liberarsi di lacci e lacciuoli. Revocata la democrazia proporzionale la “gente” può revocare in dubbio qualsiasi cosa, qualsiasi diritto.
- Voterò, nonostante non sia direttamente interessato, e non veda in quei quesiti manifestarsi un interesse generale e nemmeno interessi di classe. Ma prima di poter esprimere un qualche convincimento, mi sono dovuto documentare. Non mi lamento, è il mestiere del cittadino, la penosità della democrazia che non ammette ignoranza; quello stesso mestiere che la cittadinanza ha esercitato in Francia giungendo a un referendum - quello sì trasversale - dopo un’appassionata discussione generale. Mi sono dovuto documentare contro voglia sulle staminali, embrionali o adulte, sulle stimolazioni ovariche, sui follicoli e sulle tube, sugli ovuli e sugli spermi.
- Ti invito a pubblicare le allegate considerazioni di Enzo Marzo apparse su Radiolondra, newsletter n. 49 del 7 giugno 2005.

C.D.B., 9 giugno 2005

NOTA: LA TRAPPOLA RADICALE E LE IPOCRISIE REFERENDARIE.
di Enzo Marzo
Quando sono aperte le danze, si balla. E con tutta la passione e la determinazione dovute. Ma si ha anche il diritto-dovere di affermare la propria contrarietà al ballo.
I laici italiani si sono lasciati trascinare dai radicali in una battaglia referendaria inopportuna e disastrosa. Sia ben chiaro, la legge sulla fecondazione assistita è quanto di peggio potesse essere prodotto dalla Destra e dai clericali di entrambi gli schieramenti. E sicuramente dobbiamo adoperarci per abrogarla. Ma in che modo? Lo strumento scelto dai radicali, ovvero il referendum in questo 2005, è quanto di più sbagliato si potesse immaginare. So bene, però, che gli argomenti critici che possono essere addotti contro suonano del tutto irrilevanti alle orecchie dei radicali, che non hanno mai mirato ad un'affermazione nelle urne che sapevano impossibile
o altamente improbabile. I radicali hanno voluto semplicemente stare sul palcoscenico per un po' di tempo, ridotti come sono da anni alla politica d'avanspettacolo. E oggi Pannella, prima del voto, prefigura una grande sconfitta con 60% di astensionismo, ma non ne tira le conseguenze, anche personali, di politico che per fini opportunistici sta regalando alla Chiesa cattolica e alla destra berlusconiana una vittoria di cui certamente non si sentiva il bisogno. Ma si sa, in Italia, i politici che sbagliano non pagano mai. Imprecano contro il destino cinico e baro, e restano a fare danni... Pannella e i referendari, prima di raccogliere le firme per il referendum, sapevano bene che :
1) l'attuale legge sul referendum è una vera truffa, che di fatto ha reso inutile, anzi controproducente, il voto No nelle urne perchè, per far fallire qualsiasi iniziativa abrogazionista, basta predicare la comoda scelta astensionista che parte avvantaggiata da una dote di almeno un 30% di astensionismo fisiologico. Per affermarsi basta aggregare solo il consenso di un 20% di elettori. Ci può non piacere, ma è così. Immaginare che la Destra e la Chiesa non avrebbero scelto questa via è da ipocriti. La decisione di vincere il referendum attraverso l'appello all'astensione è la scorciatoia scontata che tutti - compresi i radicali - hanno imboccato da decenni, e che tutti useranno in futuro. Scandalizzarsene ora è da falsi
ingenui. (Altro discorso sono le violazioni di legge di personalità delle istituzioni, come dell'ateo-bigotto Pera, maestro di trasformismi, che ogni giorno calpesta la Costituzione e dimostra di non possedere alcun senso dello Stato, rivelandosi quanto di più illiberale e inquinante abbia prodotto la Seconda repubblica. Altro discorso ancora è la discesa in campo ufficiale della Chiesa, in aperta violazione del concordato e delle leggi dello Stato italiano. La Chiesa di Ruini da tempo produce solo ingerenza clericale e le prerogative dello Stato non sono difese da alcuna
istituzione. Strilliamo pure, ma le une e le altre violazioni erano largamente prevedibili).
2) le condizioni per una onesta competizione in questa legislatura non
esistono. Scoprire durante la campagna referendaria che l'informazione
televisiva è a regime monopolistico è da ipocriti. Non ci si mette al tavolo
da gioco con dei bari. Ugualmente è da ipocriti scoprire all'ultimo momento
che avere al Ministero degli interni un forzista democristiano o uno
qualunque del centrosinistra forse non è del tutto irrilevante.
Si poteva e si doveva aspettare un anno. Riconosco che hanno ragione coloro
che pessimisticamente pensano che questo centrosinistra, ancorché vincente,
non avrebbe la coesione e la determinazione di abrogare in Parlamento questa
legge infausta, ma il contesto – anche per una battaglia referendaria –
sarebbe stato molto meno infausto. E al referendum si sarebbe potuta
anteporre una riforma della normativa sui referendum. Inoltre, comunque, una
nostra sconfitta, almeno non avrebbe aperto una falla sulla legislazione
abortista.
È da ipocriti scoprire solo ora che se la una vittoria referendaria era
comunque assai incerta, sicura era invece la frattura gravissima tra le
forze di opposizione a pochi mesi dalle elezioni politiche. Certo, questo
argomento interessa poco ai radicali, che da tredici anni hanno tradito le
loro radici progressiste e di sinistra e fanno il gioco di Berlusconi (e il
Cavaliere saprà come ringraziarli per questo ennesimo cadeau), ma avrebbe
dovuto avere un peso su quanti pongono (o dovrebbero porre) al primo posto
la salvezza del nostro paese dalla devastazione berlusconiana. So di non
sbagliare se antepongo la democrazia a quella che sarebbe stata solo una
dilazione della lotta sulla fecondazione assistita.
Questo è tutto. L'amarezza è tanta. Che i laici si facciano male da soli è
sconfortante. Non resta che sperare nel miracolo laico. Abbiamo scelto di
lottare con un braccio legato. Si può vincere anche così. Ma se si vince
anche così, vuol dire che in una competizione corretta la laicità, il
fondamentalismo papista, lo avrebbe sbaragliato. Il paese, nonostante le
forze clericali dei gruppi dirigenti e dei media, si sta secolarizzando.
Speriamo che ci regali una sorpresa. Andiamo a votare e a votare quattro Sì.

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* [Rossanda ha colpito ancora, e lascia il segno – Nel suo articolo-riflessione, apparso sul manifesto del 29 aprile, intitolato “Questioni di Resistenza”, con rigore e pazienza offre uno schema interpretativo ampio e non riduttivo delle problematiche relative alla Resistenza. Operazione improba e faticosa perché la storia è una faccenda troppo importante per lasciarla agli storici, i quali oscillano tra posizioni riduttive, e ricostruzioni inutilmente onnicomprensive.
Odradek ha dedicato molti libri alla Resistenza, sia a quella del centro che a quella del nord. Ripubblicando nel proprio sito l’articolo di Rossanda Odradek rende omaggio alla severa compagna, riproponendo, con le parole di R.R., la propria ricerca sulla Resistenza. Il Bachemaster]

DIBATTITI – il manifesto, 29 aprile 2005
Questioni di resistenza
ROSSANA ROSSANDA

Dal 25 luglio 1943, la maggioranza degli italiani che era e sarebbe potuta restare grigia, cercando di cavarsela come poteva, fu investita dallo scontro nel paese e nel mondo. E dopo l'8 settembre tenersi da parte non fu materialmente possibile. Insomma, dal 1943 al 1945, l'Italia cambiava e, chi più chi meno, raggiunse l'antifascismo o almeno in esso sperò


La resistenza fu un sollevamento spontaneo di popolo o un'azione minoritaria dai partiti? E poi, fu un movimento contro l'occupazione tedesca o una guerra civile?La cautela delle parole pronunciate dalle istituzioni il 25 aprile ha dimostrato come non sia archiviabile questa data: essa tocca il presente, è un passato che non passa. E non solo fra gli eredi di quelle che furono le parti avverse, ma anche fra gli antifascisti, ai quali ha posto le sole questioni storiografiche serie. La prima delle quali è se la resistenza fu un sollevamento spontaneo di popolo o un'azione minoritaria costruita dai partiti; la seconda, se fu un movimento contro l'occupazione tedesca o una guerra civile. La prima tesi nasce fin dalla guerra nella “resistenza rossa”, specie in Piemonte e in Lombardia, che si sente tradita dalle scelte del Partito comunista. E' stata ripresa sul nostro giornale anche da Augusto Illuminati nel commento al saggio di Valerio Romitelli. Ed è da sempre, anche se in forma più articolata, la convinzione di Luigi Cortesi, ora aggiornata di molteplici documenti in Nascita di una democrazia (Manifestolibri, 2004). La seconda, e in parte collegata, è stata posta dal libro di Claudio Pavone, Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991) nel corso della polemica fra storiografia comunista e non comunista su chi ebbe l'egemonia in quegli anni, e poi nella successiva ricerca e memoria storica.
Una storia diversa
Le code politiche delle due tesi, naturalmente semplificate, sono evidenti. Se la resistenza è stata una spinta spontanea di massa frenata dai partiti, la storia avrebbe potuta andare assai diversamente e si può addossare al Pci la colpa di avervi rinunciato per obbedienza al dettato staliniano, che non voleva turbare gli accordi siglati a Yalta; oppure ritenere che il Pci l'abbia cavalcata per perseguire dopo il 1945 la bolscevizzazione del paese. Analogamente, se si è trattato di una resistenza all'occupazione tedesca, che promulgava all'interno l'azione alleata nella guerra mondiale, nessuno dalla parte fascista potrebbe rivendicare pari dignità nel ricordo. Mentre se si è trattato d'una guerra civile, fortemente connotata da uno scontro di classe, proverebbe un sovversivismo mai spento della sinistra popolare italiana, permeata di comunismo e nemica della democrazia.
In ambedue i casi suonano un po' ipocriti gli appelli alla riconciliazione fra i figli ed eredi, perché eludono la ricostruzione storica (senza la quale non c'è memoria da condividere, più convincente è la proposta assolutoria dell'oblìo) e alludono pesantemente al fatto che uno dei contendenti di allora andrebbe escluso dall'arco democratico oggi. Come era stato un tempo con il Msi e come oggi il centrodestra auspicherebbe con i partiti che sono stati o si dicono comunisti. Quest'ultima è l'inclinazione attuale (dai libri di Veneziani o Pansa e in genere del noltismo indigeno, a quasi tutta la fiction storica della Rai, quale che ne sia la qualità).
Le manifestazioni del 25 aprile di quest'anno sono andate anche contro questa tendenza, favorita da un governo che accoglie gli eredi del fascismo e una Lega i cui accenti troverebbero d'accordo Farinacci o Starace e si arrestano solo sulla soglia dell'antisemitismo per la vigilanza delle comunità ebraiche.
In tema di ricostruzione storica, il libro di Luigi Cortesi merita che ci si ritorni anche fra noi. E' convincente che un grande movimento popolare, spontaneo e con una connotazione nettamente di classe, sia sorto nel 1943, abbia rappresentato la resistenza del biennio 1943-1945 e sia stato frenato dal Pci per il personale moderatismo di Togliatti e/o per obbedienza a Stalin? E' vero che esso corrisponderebbe anche ai protagonisti di una lotta interna nel Pci, rispecchiato da Luigi Longo, Pietro Secchia e Mauro Scoccimarro, contro l'ala moderata dei Roveda, Amendola e Togliatti?
Una posizione comune
Non è la stessa controversia che ha opposto la storiografia comunista a quella di Giustizia e Libertà, che ha accusato la prima di aver messo in luce soltanto le brigate Garibaldi e offuscato le altre, dai movimenti attorno a Giustizia e Libertà ai liberali di Pierluigi Bellini delle Stelle, ai cattolici attorno ai fratelli Di Dio. Su questo punto sembra si sia raggiunta una posizione comune, della quale testimonia anche il Dizionario della resistenza. Luoghi, formazione, protagonisti e Storia e geografia della Liberazione (Einaudi 2001), il lavoro d'insieme ad oggi più completo. Al Partito comunista si riferì in effetti la rete più forte fra i combattenti in montagna e in città, ma non fu la sola tendenza; e le differenze ci furono non solo nell'impostazione ma nella tattica. Si aggiunga che recente è la ricerca sulla resistenza di alcuni settori dell'esercito, fino a poco fa trascurati anche per il fastidio dei partigiani di fronte al dileguarsi delle forze armate come tali l'8 settembre; basti fare i nomi di Giorgio Rochat e di Mario Isnenghi.
La pluralità delle forze resistenti ridimensiona la tesi di una resistenza essenzialmente rossa. Si può dare una rivolta democratica o nazionale contro un regime autoritario e disastroso, che per di più aveva trascinato il paese in guerra. Mi pare difficile dare natura di classe anche a un episodio di massa come quello di Cefalonia o, come ricordava D'Agostino, alle quattro giornate di Napoli cui seguiva nel `46 un voto favorevole alla monarchia. Lo stesso discorso, forse un po' più complesso, vale per la Repubblica dell'Ossola, uno degli episodi maggiori della resistenza, presieduta dal cattolico Piero Malvestiti. O per le azioni coordinate da Tina Anselmi. Non tutta la resistenza fu dunque “rossa”.
Ma come avrebbe potuto esserlo, rossa e spontanea, in un paese dove il fascismo durava da vent'anni, non veniva da un colpo di stato ma dalla crisi generale (per usare l'espressione di Gramsci) seguita alla prima guerra mondiale, aveva tagliato la leadership e ogni possibilità di espressione alle sinistre? E inoltre, nei confronti di una classe media incerta aveva favorito l'appeasement e l'indifferenza piuttosto che una politica invasiva di reclutamento? Il totalitarismo spoliticizza più che mobilitare. Così almeno fu in Italia, aiutato dalla forza repressiva e dal non vedersi, per gran parte degli anni Venti e per tutti i Trenta, nessuna praticabile via di uscita. Questa si vide solo con la seconda guerra mondiale; dovrebbe far pensare che in Spagna, dove la repressione era stata più feroce e recente, ed enorme era la diffusione dei partiti, non ci fu sollevazione perché abilmente Franco non era entrato in guerra, e gli alleati glielo consentirono.
Calcoli non appassionanti
Sotto questo profilo, i calcoli di Renzo De Felice su una maggioranza di italiani che sarebbe stata fascista e una minoranza antifascista, non mi sembrano appassionanti. I processi di spoliticizzazione e silenzio sono lunghi e contorti, quanto possono essere rapide le prese di coscienza sotto una situazione cogente, che porta a cercare collegamenti organizzativi e ideali, insomma a un fondamentale mutamento delle soggettività, sotto l'incombere della guerra.
A mio parere anche il rapporto fra spontaneità e ruolo dei partiti che improvvisamente possono rientrare in scena va visto attraverso questa griglia: c'è un legame non semplice fra memoria, intollerabilità della situazione, opportunità e spontaneità nel rivoltarsi di un popolo. L'insieme di questi fattori investe e travolge la zona grigia che la repressione ha creato, a sua volta non riducibile a una vocazione opportunista.
Dal 25 luglio 1943, la maggioranza degli italiani che era e sarebbe potuta restare grigia, cercando di cavarsela come poteva, fu investita dallo scontro nel paese e nel mondo. E dopo l'8 settembre tenersi da parte non fu materialmente possibile. Insomma, dal 1943 al 1945, l'Italia cambiava e, chi più chi meno, raggiunse l'antifascismo o almeno in esso sperò.
Questo determina anche i fini dei resistenti. Tutte le forze in campo si prefiggevano un cambiamento più radicale di quel che ci fu nel 1945; tutti trovarono pesante la continuità dello stato, durata fino agli anni Settanta. Ma non tutti collegavano il fascismo al “grande capitale”, come suonava il libro, che allora fu formativo, di Daniel Guérin, né auspicavano una rivoluzione socialista. Questa differenza non impedì la radicalità della lotta e delle sue forme. E neppure incise sul fatto che fosse percepita anche come una guerra civile, cioè non soltanto contro l'occupazione ma contro chi ci aveva portato ad essa. Si può persino osservare che certe forme di lotta, per esempio gli attentati, furono proposte nel Cln non sempre e non tanto dai comunisti quanto da altri. Ma su questo Claudio Pavone ha detto tutto.
Una zona di resistenza rossa
Resta la domanda su come si forma una zona di resistenza rossa in senso proprio. Credo si possa dire che essa ha un'ossatura operaia, anche se non sono soprattutto gli operai a raggiungere le formazioni armate in montagna. Ad essi si aggiunge una più vasta frangia giovanile inquieta, che si è spesso formata negli ultimi anni Trenta, e in cerca di maestri e di idee, oltre che di collegamenti. E' innegabile che li trova soprattutto nel Partito comunista e in una Giustizia e Libertà dagli accenti allora assai più radicali di quelli che avrebbe avuto in seguito.
D'altronde lo stesso appartenere a una formazione partigiana determina e sviluppa una coscienza politica, ed è ovvio che le sinistre, la loro storia e il loro patrimonio teorico esercitino un richiamo più forte. Sarebbe se mai da chiedersi quale fosse in quegli anni la coscienza di muoversi in uno scenario mondiale. Per quel che può valere una personale memoria, mi sembra che non ci sfuggisse il fatto che da noi sarebbero arrivati gli alleati anglosassoni piuttosto che le truppe sovietiche. Nel 1943 erano stati gli americani a sbarcare in Sicilia e da allora furono loro e gli inglesi a risalire la penisola. Non ricordo neppure che facesse problema: significava soltanto che “la nostra lotta”, come si chiamava la testata di Eugenio Curiel, la sola che parlasse del domani, si sarebbe decisa in ambito nazionale. Entro che limiti qualcuno pensò a una rivoluzione socialista coincidente con la liberazione?
In conclusione, credo che sia poco proponibile un quadro nel quale un popolo spontaneamente si solleva, dopo anni di silenzio, per dar luogo a una resistenza classista, che poi il Partito comunista finisce col limitare. Il processo di formazione non è così lineare. E quindi neanche il rapporto fra un sussulto morale e la crescente appartenenza ai partiti.
Non appartiene allo stessa problematica la questione che periodicamente viene sollevata sulla lotta interna nel Partito comunista. Questa ci fu e sicuramente oppose chi, nella divisione del mondo e nell'esito impressionante dell'Europa dell'est dopo il 1948, perseguì una “democrazia avanzata” o “progressiva”, intrisa di gramscismo, e chi recepì la spartizione dell'Europa come un momento tattico, obbligato dal rapporto di forze mondiale, che sarebbe stato superato grazie a un conflitto fra gli alleati e l'Urss, magari in seguito a un colpo di stato reazionario.
Complessità del “Partito nuovo”
Questo dilemma, del quale non so valutare l'ampiezza effettiva del seguito, fu risolto a favore dei primi non tanto da un'obbedienza a Stalin quanto dalla stessa forza e complessità del “partito nuovo” nella situazione specifica dell'Italia e del dopoguerra. La storia si può fare anche con i “se”, ipotizzando una rottura dello schema di Yalta attraverso l'unificazione dei partigiani di Tito, italiani e francesi. Non mi sembra che ce ne fossero le condizioni; avrebbe presupposto un collegamento, nonché una liquidazione di vivi nazionalismi, molto lontani dalla realtà. E se si aggiunge che questo avrebbe dato luogo a una guerra civile assai più lunga e necessariamente a uno schiacciamento sul blocco sovietico, non mi pare a distanza che sarebbe stato un esito molto augurabile.
Quel che è certo è che la divisione all'interno del Pci non è rappresentata da una sinistra favorevole all'ipotesi insurrezionale e classista, che sarebbe stata di Luigi Longo, Mauro Scoccimarro e Pietro Secchia, avendo come controparte Togliatti. Dall'occupazione delle fabbriche seguita all'attentato di Pallante a Togliatti nel 1948, Luigi Longo non si separa dalla linea togliattiana; la conferma nella svolta del 1956 e, fin che può, del 1968. Mauro Scoccimarro conta poco nel Pci dagli anni `50 in poi. Resta problematica la sola figura di Pietro Secchia, molto amato dalla sinistra esterna al Pci, meno da chi stava all'interno. Il diario di Secchia costruisce questa immagine di sé, ma egli non prese una posizione diversa né nel 1948, né fece una battaglia nel 1956. Avrebbe poi attaccato la Cina nel 1960 e non appoggiò nessuna sinistra, tantomeno il movimento studentesco nel 1968 e la grande mobilitazione operaia nel 1969. Più tardi avrebbe avuto contatti con un settore armato, ma senza parteciparvi. Se la sua posizione politica concreta si identifica nel tentativo di costruzione di un piccolo partito interno e parallelo, in vista di un colpo di stato avversario e con collaboratori del calibro di Giulio Seniga - come a me sembra - non è difficile capire come Togliatti possa averne avuto facilmente ragione.

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On line - Chi desiderasse, per curiosità personale, motivi di studio o altro, curiosare su internet alla ricerca di dati economici, serie storiche, o semplicemente volesse conoscere il punto di vista delle grandi istituzioni economiche internazionali, andrebbe incontro a una sorpresa. O quantomeno a un moderato disappunto, qualora non fosse, prudentemente, diffidente verso questi organismi.
Nella bibliografia dei libri di economia internazionale sono usuali i rimandi, per informazioni, ai siti di Banca Mondiale, FMI, OCSE, WTO, e vari centri studi statunitensi. Forse navigo in fretta e superficialmente, forse la connessione lenta mi malpredispone verso le ricerche approfondite, fatto sta che trovare dei files gratuiti, è impossibile. Vengono ovunque richieste cifre scoraggianti, da pagare con carta di credito, oppure si pretende l’abbonamento per ricevere le loro periodiche pubblicazioni. Il più esoso, se si vogliono stilare classifiche, è il WTO che, forse con la scusa di non essere un organo delle Nazioni Unite, vende nel suo Bookshop online le proprie pubblicazioni, libri o Cd-rom di dati per cifre a partire dai 60-70$. La cosa divertente è che il prezzo in dollari e euro in realtà è solo indicativo, come si evince da un’attenta lettura dei prezzi. Infatti il WTO, che ha sede a Ginevra, pretende di essere pagato in franchi svizzeri, cosa che scoraggia ulteriormente chi volesse conoscere i dati, per esempio sul commercio internazionale nel 2004 e ricavarsi da solo i cosiddetti fondamentali macroeconomici non fidandosi dei giornali.
E’ da scartare qualunque ipotesi che giustifichi questa procedura con la necessità di finanziarsi di queste organizzazioni. La vendita delle pubblicazioni online, per quanto consistente e remunerativa possa essere, non può che partecipare per una percentuale infinitesima al bilancio, per esempio, della Banca Mondiale. Della serie, al massimo ci si pagano la fornitura annuale di carta igienica per qualche loro ufficio. Rimane quindi come unica spiegazione che i documenti sono venduti a prezzi scoraggianti per scelta politica e non per necessità di “autofinanziamento” (parola che, con virgolette, significa quasi sempre “rapina”).
Forse non si vuole che le relazioni di queste istituzioni possano essere consultate direttamente dal comune umano (in quanto portatore degli omonimi diritti), forse perché si preferisce comunicargliele, opportunamente alterate, attraverso il sistema dei media.
In breve il “parco buoi” del sistema economico e politico deve fidarsi, accettare che l’economia sia cosa per pochi iniziati, assecondare le speculazioni destabilizzanti e votare per chi promette miracoli economici che non hanno possibilità di realizzarsi neanche nel paradiso “concorrenziale” dei neoclassici.
Non che si debba dare la colpa di questo solo ai siti a pagamento, ma sicuramente è un’importante spia di quello che nei vertici economici del mondo si pensa del “consumatore-elettore-investitore”.
Fa eccezione a tutto questo il sito del Fondo Monetario Internazionale (IMF) che mette a disposizione gratuitamente numerose pubblicazioni, anche recenti, scaricabili in .pdf.
Può sembrare un paradosso che la più contestata organizzazione finanziaria, considerata un vampiro, un Robin Hood alla rovescia, un tiranno con la ventiquattrore – l’istituzione che obbliga un paese in crisi economica e finanziaria a privilegiare la solvibilità solo nei confronti dei creditori esteri –, gestisca un sito internet così disponibile. Può darsi rientri in una campagna d’immagine o “operazione trasparenza” voluta da qualche alto dirigente. OK
Fenimore B., 21 maggio 2005

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Modesta proposta di ingegneria patriottica
Raccolta di firme per Giorgio Albertazzi (o Giano Accame, o Carlo Mazzantini) senatore a vita
La pacificazione nazionale è lì, a portata di mano, con uno di quegli interventi che “non costano niente” e che, quindi, piacciono molto al demi monde.
Come ci vanno spiegando autorevoli storici, occorre restaurare il concetto di patria (Patria, pardon); ma il concetto deve poggiare su una memoria condivisa. La circostanza è quanto mai problematica in un paese con solide tradizioni di guerra civile. Ecco allora la proposta: nominare senatori a vita un partigiano e un fascista.
Ecco allora, per incanto, che il Parlamento accoglie e rappresenta rastrellati e rastrellatori, torturati e torturatori, occupati e occupanti, insorti e collaborazionisti, vincitori e vinti, accomunati dall’amor di patria (Patria, pardon).
Nessuno, credo, potrebbe eccepire, chessò, uno scadimento della rappresentatività del Parlamento dopo l’elezione di Cicciolina e Toni Negri. Mentre vasto è lo schieramento, trasversale of course, che potrebbe appoggiare una simile proposta; schieramento coincidente con la mitica “zona grigia”, ora costituita da quelli che “non c’é differenza tra destra e sinistra”, e più in generale dalla koyné postmodernista, per la quale “ma basta con questo vecchiume, occorre guardare avanti”.
I primi firmatari potrebbero essere: Violante Luciano grande-amante dei ragazzi di Salò, Rosario Bentivegna che con Carlo Mazzantini intrattiene calde relazioni giungendo a scriverci insieme un libro grondante amor di patria (Patria, pardon), tale Casarini del nord est che sulla pacificazione tanto si è speso scoprendo lapidi alle vittime delle foibe. Ciampi Carlo Azeglio
La proposta così si precisa: Giorgio Albertazzi senatore a vita insieme a un partigiano. L’unico disponibile potrebbe essere Rosario Bentivegna, mentre non credo che la stessa disponibilità potrebbe essere data, per es., da Giovanni Pesce.
In tutta modestia, io non firmerei.
C.D.B., 15 maggio 2005

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[Caro Bachemaster, la rivista Cassandra, n. 12, marzo 2005 (redazione.cassandra@fastwebnet.it) ha voluto pubblicare questo mio intervento sul concetto di “piccola borghesia”. Se credi, sarei felice fosse affisso in bacheca. Grazie. C.D.B.]


“Piccola borghesia”, un concetto da non buttare
Se buttiamo via il concetto di “piccola borghesia”, elaborato da Marx nel 1847 in Miseria della filosofia, e prima ancora, vividamente, nella lettera ad Annenkov del 28 dicembre 1846, ci condanniamo a navigare a vista, a galleggiare sui movimenti, a riconoscere la liceità programmatica del “tutto e subito”, del “pane e pure le rose”; a fare gli storiografi di un’unica emergenza, sempre uguale, quella dello “stato nascente” in cui l’indistinto non è quello della notte, ma quello della cloaca. Scusa l’immagine “forte”, ma quando si ha a che fare con un’immane “raccolta di merci” non ci si può esimere dal tenere conto delle ricadute della riproduzione: sociali, culturali, ideologiche e politiche, eterogenee e rigurgitanti quanto vuoi, ma in fondo sempre le stesse. Siccome ho il testo digitalizzato, ti riporto un passo di Marx:
“In una società progredita, il piccolo borghese è necessariamente, per la sua stessa posizione, socialista da un lato ed economista dall'altro; cioè egli è abbagliato dalla magnificenza della grande borghesia e simpatizza con le miserie del popolo. Interiormente si lusinga di essere imparziale e di aver trovato il giusto equilibrio, che – egli pretende – è qualcosa di diverso dalla mediocrità. Un piccolo borghese di questo tipo divinizza la contraddizione, perché la contraddizione è la base della sua esistenza. Egli stesso non è altro che una contraddizione sociale in atto. Egli deve giustificare in teoria ciò che è in pratica, e il signor Proudhon ha il merito di essere l'interprete scientifico della piccola borghesia francese; un merito genuino, perché la piccola borghesia costituirà una parte integrante di tutte le imminenti rivoluzioni sociali.”
L’ho riportato perché nel finale Marx fa la previsione per cui di questa neoformazione non ci si libera, dal momento che è lo stesso alternarsi delle crisi a riprodurla. Ma anche per dire che non credo che si debba fare, di necessità, “virtù” teorica. In questo caso, credo si possa tranquillamente essere “dottrinari”. Cambiano le forme, ma la sostanza resta quella. A parte il fatto che non mi pare sostenibile che i “torti” del comunismo possano essere le “ragioni” dei libertari.
Ho passato undici anni - sicuramente non i migliori della mia vita - in un partito comunista; ne sono dovuto uscire per l’aria resa irrespirabile dal diffuso anarchismo concettuale (in senso proprio e figurato).
Ogni qual volta mi capitava di invitare a rivolgere l’attenzione su Stato (e ogni volta ero costretto a spiegare che la lettera maiuscola è una regola ortografica e non libidine di servilismo), moneta, banca centrale, esercito, costituzione, diritto - cioè su rapporti sociali istituzionalizzati grazie ai quali da qualche secolo il capitalismo si riproduce - ebbene ogni volta mi toccava sopportare sorrisetti di sufficienza da parte di giovani e vecchi imbecilli: “Ma non lo sai che lo stato (con la lettera minuscola) è “violenza organizzata”? Che i trattati sono “pezzi di carta”?” e via riducendo, liquidando, idealizzando, e soprattuto dandomi del feticista. Feticista chi? Ma feticisti loro, piuttosto.
Proprio come il “selvaggio di Cuba” del giovane Marx - sto parlando dell’ultimo articolo della serie sui furti di legna, apparso sulla “Gazzetta renana” -, il selvaggio cioè che, avendo compreso che i rapporti tra gli invasori spagnoli erano regolati da oro monetato, non appena questi risalirono a bordo delle loro navi e salparono le ancore, prese un pezzetto d’oro, il supposto loro feticcio, e lo gettò a mare, aspettandosi che anche le navi, con il loro carico di violenza e di morte, colassero a picco.
Ciò non avvenne, con grande sorpresa del “selvaggio di Cuba”. Non sappiamo quali conclusioni trasse dal mancato evento. La conclusione che suggerisce Marx è che i processi di feticizzazione sono lunghi e complessi, nonostante si manifestino in rapporti apparentemente semplici e che comunque ne occultano la complessa genesi. Feticista è allora chi ritiene di aver compreso tanto bene la natura del simbolo da poterlo abbattere simbolicamente, svelandolo. Un tragico paradosso.
E tale paradosso è fatto proprio, da un secolo e mezzo, da quella “contraddizione vivente”, vera e propria “contraddizione reale”, che è la piccola borghesia, che si riconosce in parole d’ordine sempre seducenti: “reddito garantito”, “motorino gratis”, tanto per ricordare le ultime. (Cerchiamo di non dimenticare la funzione esercitata dall’operaismo italiano, Tronti e Negri, i quali pur partendo dalla centralità della fabbrica e delle lotte, sottovalutarono gli elementi istituzionali della riproduzione sociale, invitando a considerarli feticci, appunto).
Non dico che, compresa questa peculiarità ricorrente, tutto diventi più semplice; ma almeno la finiremo di litigare tra noi.

 

 

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* Santo sùbito. Niente più che un foglio affisso in bacheca, questo, ma i due più “autorevoli” giornali della borghesia italiana, Corriere della sera e La stampa, così titolavano a tutta (prima) pagina sabato 9 aprile: «L’addio al Papa: “Santo, Santo”» e «L’ultimo abbraccio: “Subito Santo”».
Quale il messaggio? Il carisma avanti tutto, è il “popolo” che incorona: populismo terminale, santificazioni a furor di popolo, che altro? Lo conosciamo il vizietto della borghesia italiana: nessun patto tra le classi, sempre a cercare scorciatoie e uomini della provvidenza…
Ci vorrà tempo per riemergere dalla sbornia mediatica, e recuperare il senso delle proporzioni, e anche le stesse dimensioni dell’evento.
Intanto, non c’è alcun indizio che a Roma si siano riversati due milioni di fedeli, la cifra più attendibile essendo quella di coloro che hanno effettivamente sfilato, fotografantisi, davanti al catatafalco: un milione e trecentomila, comprensiva degli autoctoni (“200 treni straordinari, 70 solo dal Lazio” cinguetta Veltroni).
Poi, nella piazza la metà dei convenuti erano polacchi. Altro che universalismo, il morto era il papa dell’est che incarnava il nazionalismo cattolico anticomunista, e ben tre presidenti usa erano lì a testimoniarlo.
Allievo di Mac Luhan, ha dato al mondo l’immagine drammaticamente conclusiva di una istituzione che non gli sopravviverà. Se in principio era il Verbo, la fine è l’afasia.
L’esponenziale accelerazione dei processi, la loro mediatizzazione travolge, una a una, le istituzioni che hanno accompagnato e favorito il capitalismo occidentale, mentre altri popoli, altre ricchezze, altri modi di sentire e rappresentarsi premono potenti. Dixi et servavi animam meam.
C.D.B., 9 aprile 2005

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E' morto Ranieri di Monaco, e noi non avevamo più lacrime.

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Con le venticinque pagine di sabato, il "Corriere della sera" ha battuto il record raggiunto all’indomani della morte di Lady D. Nello stesso giorno Valentino Parlato diceva tutto quello che c’era da dire in un colonnino sul “manifesto”. Concinnitas. Anche questo sito vuole testimoniare a futura memoria, ma con misura. Scarto un “Vite parallele” del nostro islamista, incentrato sul confronto con Al Sistani, perché, francamente, di ardua lettura. Scarto un intervento certamente più breve, intitolato “Maramaldo II” incentrato sulla vittoria sull'Impero del Male, ma anche "Interni" sull’espianto del santo cuore che i polacchi vorrebbero detenere a Cracovia, onde avviare un redditizio reliquiario – e mi scuso per questo con gl’illustri collaboratori che li hanno inviati – preferendo la nota di MC. Alla quale premetto un titolo decisamente liberatorio.
Bachemaster

Un secolo durato cento anni
Con la morte di Karol Wojtyla si chiude un secolo, non un secolo breve, come
inteso da alcuni (1914-1989), ma un secolo esatto, cominciato in una piazza
di Pietroburgo nel 1905 e terminato ieri in piazza San Pietro.
Giovanni Paolo, il papa che ha sconfitto il comunismo, è morto in mezzo alla
sua folla, mediando anche questa estrema parte di pontificato,
sovraesponendo ulteriormente le sofferenze di un anziano, di un papa che,
infine, si è fatto uomo.
Ora non sarà facile sostituirlo. Ci dimenticheremo di lui, come se non fosse
mai esistito, come prevede la nostra epoca della notizia del giorno, o la
sua eredità sarà mantenuta (a quale prezzo?) dalla chiesa romana? Cosa potrà
fare di piú, senza soluzione di continuità, un nuovo papa, che già non abbia
avuto posto con Wojtila? E se no, chi si assumerà la responsabilità di
smentirlo? Forse si prepara un "XX Congresso" stile conciliare?
Totus tuus. Questo era la verità di Giovanni Paolo. Egli credeva fermamente
nella Madonna, alla quale si è donato completamente. È stata la sua forza.
Ma, per comprendere, basta a noi questa professione di fede? O, forse, non
ci dovremmo porre una semplice, piú terrena domanda: Il mondo, dal 1978, è
migliorato o peggiorato?
Non c´è piú la minaccia del comunismo. Ma era una minaccia? Non sembra che
la sua caduta abbia portato a un miglioramento generale delle relazioni
internazionali. Molti eserciti, anche ex comunisti, sono impegnati in
missioni all´estero. La guerra è diventata "infinita", il solo mezzo
efficace con cui affermare il "diritto", con cui preparare il futuro (tanto
che alla luce degli ultimi avvenimenti anche la reazione di Vienna
all´attentato di Sarajevo del 1914 meriterebbe altra lettura!). Le regioni
dell´Asia centrale, ex repubbliche sovietiche, vivono anni di instabilità,
dopo essere passate per guerre civili impensabili solo 15 anni fa. La
povertà, nel mondo, è aumentata, cosí come l´incidenza delle malattie e
della morte per la fame, nonché il numero dei profughi.
Non è, ovviamente, responsabilità di Giovanni Paolo, come non è solo suo il
merito di aver fatto cadere il comunismo. Anche a Cuba lo sanno. Sarà per
questo che hanno proclamato un giorno di lutto nazionale?
MC


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Il risveglio del vaiolo
Il vaiolo non e' solo di competenza degli scienziati: tutti i cittadini del mondo, potenziali vittime, hanno il diritto/dovere di fare il possibile per impedire che venga risvegliato.


Cari amici e colleghi,
vi annuncio che e' stata finalmente lanciata l'iniziativa sul vaiolo di cui ho gia' scritto su questa lista.
Invito quindi a scrivere e a diffondere quanto possibile. Siccome io sono la referente in Italia, se volete/potete organizzare iniziative pubbliche, vi invito a contattarmi.
Grazie, ciao
monica, 3 aprile 2005

Dr. Monica Zoppè
Lab. of Gene and Molecular Therapy, IFC-CNR
Via G. Moruzzi, 56124 Pisa. Italy
Tel. +39 050 3153095
Fax: +39 050 3153327
Cell. +39 347 9794579
e-mail mzoppe@ifc.cnr.it


Cari amici e colleghi,
Forse sapete (forse no) che l'Organizzazione Mondiale della Sanita' (OMS) sara' chiamata, nella prossima Assemblea generale di Maggio 2005, a decidere in merito ad alcune richieste per poter utilizzare il virus del vaiolo in esperimenti 'a scopo difensivo'.
Questi esperimenti comprendono la produzione di vaiolo ricombinante, la creazione di virus ibridi tra il vaiolo umano e quello di altri animali, e chiedono la distribuzione senza restrizioni di segmenti di DNA del virus.
Inutile sottolineare che questi esperimenti non possono che aumentare il pericolo di un rilascio, accidentale o intenzionale, quando al momento non esiste nessuna minaccia da parte di 'stati canaglia' ne' da gruppi terroristici. Tra l'altro, le risorse ingentissime necessarie per allestire questi esperimenti in condizioni di (relativa) sicurezza, potrebbero e dovrebbero essere investite in ricerche su malattie che davvero fanno milioni di vittime all'anno.
Il vaiolo e' una malattia spesso mortale (ma chi sopravvive puo' rimanere sfigurato, cieco ecc.), contro cui l'OMS stessa ha condotto una campagna di vaccinazione mondiale che ha portato alla sua estinzione in natura. Dal 1978 nessun essere umano e' piu' stato infettato, e la malattia e' stata dichiarata debellata, tanto che chi ha meno di 25 anni non e' nemmeno stato vaccinato (gli altri portano ancora un segno sul braccio, ma l'immunità e' ormai caduta).
Senonche' campioni di vaiolo sopravvivono ancora in due laboratori militari di Stati Uniti e Russia: non sarebbe ora che fossero distrutti anche questi?
Invece l'OMS, dopo aver rimandato piu' volte la data della distruzione definitiva, sta per compiere un enorme passo indietro. Una commissione apposita ha dato parere favorevole a che sia concesso il permesso per gli esperimenti richiesti. La decisione finale spetta comunque all'Assemblea, che si terra' appunto nel prossimo maggio a Ginevra.
Abbiamo ancora poco tempo per far sapere al Segretario Generale dell'OMS, ed ai
rappresentanti nazionali presso l'Assemblea, che il vaiolo va relegato nei libri di storia, non ai laboratori militari.
Invito dunque chiunque possa farlo, a mandare una lettera in cui si richiede sia il divieto di sperimentare liberamente con i geni del vaiolo, sia la distruzione dei campioni ancora presenti.
Potete farlo tramite il sito www.smallpoxbiosafety.org, che abbiamo allestito
a questo scopo con una collaborazione internazionale tra ONG.
L'operazione richiede solo qualche minuto e puo' avere un significato importante anche per le generazioni a venire. Vi invito anche a diffondere quest'iniziativa con la massima urgenza.
Grazie mille
Monica Zoppè

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Pulizie di Pasqua

La mattina del 21 marzo, in quell’esemplare città di Legge e di Scienza che si è dotata da qualche tempo di più moderna ed efficiente giunta clerical-riformista, è stato ordinato lo sgombero di una trentina di rumeni in attesa di risposta alla domanda di asilo politico. Gli allogeni erano già stati allontanati la settimana precedente da uno scalo migranti chiuso durante l’operazione. Dopo due notti in stazione hanno optato per i comfort di una baraccopoli lungo il fiume. È qui che li ha raggiunti il braccio democratico della legge: vigili del reparto sicurezza, coadiuvati da polizia, carabinieri e ruspe, hanno posto fine allo scempio edilizio e alla pratica dei condoni. Il dirigente dell’ufficio stranieri del Comune si è detto del tutto all’oscuro dell’operazione, ma la prudenza non è mai troppa: prima che altri si appropriassero del merito e raccogliessero il plauso cittadino, il sindaco è intervenuto in Consiglio comunale ed ha imperiosamente dichiarato: "Lo sgombero l’ho deciso io!". Nessuno ha osato più toccarglielo ed anzi, la rivendicazione varrà anche per i prossimi, annunciati interventi su "altri insediamenti abusivi, dove – come si legge sulla stampa locale – vivono in condizioni spaventose almeno 100 persone, minacciate dal freddo e dalle improvvise piene" del fiume.
Il sindaco ha aggiunto paterno che il Comune non tollererà più avventati artifici architettonici "rischiosi per l’incolumità di chi li realizza", ma è anche stato "molto duro" verso chi "fa un uso distorto del diritto d’asilo", che "riguarda chi è perseguitato politicamente nel suo Paese non chi è genericamente in condizioni di povertà".
La sostanza del messaggio, che correva il rischio di risultare un po’ criptico, è stata illuminata dal vicesindaco, il quale la sera stessa ha maternamente ricevuto alcuni dei senzatetto rumeni in municipio. Il colloquio non è durato a lungo: a nome di tutti, un distorsore particolarmente sfrontato gli ha rivolto una sola domanda – "Dove andremo a dormire stanotte?" – ricevendone parimenti una sola risposta – "Questo fa parte del suo progetto di vita quando ha deciso di venire in Italia".
Il vicesindaco ha voluto caritatevolmente spiegare che se putacaso vengono qui senza che nessuno li perseguiti per le loro idee – e magari poi si scopre che i fedifraghi non sono neanche intellettuali, o al limite, to’, giornalisti –, se son giunti spinti solo dalla miseria e dalla fame dico, se ne devono andare di corsa, per mai più non tornare, a meno di non seguire le apposite, razionali procedure.
Si potrebbe obiettare all’austera sovracittadina che difficilmente le sue sagge parole convinceranno gli ostinati turbatori del nostro civile convivere ad affrontare in patria, con serena fiducia, i rigori della Divina Provvidenza. È piuttosto da credere che furbi come sono apporteranno qualche sostanziale modifica al loro "progetto di vita", inclusiva della medesima bontà con la quale sono stati accolti all’arrivo. Ma tant’è, e del resto alla bisogna, come si è visto, la democrazia sa reagire da par suo.
Ora, io nell’occasione non discuto lo zelo degli amministratori – che svolgono con talento umanitario e ferma determinazione, come si addice ai buoni, il compito loro affidato di sorvegliare e punire –, perché sarebbe come dire che è colpa del banchiere se ruba. È che se cammino per le strade di questa compiaciuta e edificante città, o anche solo apro le finestre di casa, avverto sempre più insopportabile e nemico il fetore, prima morale poi politico, di coloro che li hanno votati, che li hanno preferiti per il miglior uso persuasivo del manganello, per scendere in piazza e picchiare con quello, e che quando hanno vinto, in quella piazza hanno pure festeggiato lo scampato pericolo.

Roberto De Caro, 22 marzo 2005

 

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Ancora su Jena.Già quel “nostri” la dice tutta, ma sentiamo cosa secerne Casimiro:


Su La Stampa del 5 marzo grande spazio per la liberazione di Giuliana Sgrena. Anche Jena dice la sua, con un aforisma intitolato "Servi".

«Adesso voglio proprio vedere chi ha il coraggio di sostenere che i nostri servizi segreti sono servi degli americani».


Ha ragione. D’ora in poi bisognerà definirli "schiavi". Quando fanno qualcosa che non piace al loro padrone, infatti, vengono falciati via con una raffica. Una Jena vera se ne sarebbe accorta subito, un cagnolino invece non ci vuole neanche pensare.
Casimiro

 

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La questione che da molti anni è dibattuta, dai politici più che dagli storici, dai giornalisti più che dagli accademici, riguarda la valenza dei morti della nostra storia recente. Per decenni l'Italia è vissuta all’nterno di una storia politica condivisa; i morti non erano tutti uguali; la morte era intesa come l'esito di una vita e una vita sbagliata era seguita da una morte consimile. I cambiamenti politici dell'ultimo quindicennio hanno sconvolto anche questa condivisione e le nuove forze politiche emerse dalla fine della prima repubblica ogni giorno chiedono nuove riabilitazioni post mortem per vittime, presunte vittime, e carnefici. Quello che appare come un compromesso tra i nuovi e i vecchi rappresentanti è racchiuso nella formula: i morti sono tutti uguali.
Sembra una formula ineccepibile, neutrale, pacificatrice. Ma lo è? A una più attenta riflessione, direi di no. La coincidenza di epoche, idealità, motivazioni ed esiti, infatti, anziché propiziare la pacificazione (qualora questo sia l'intento reale di tale richiesta, ma è lecito dubitarne), non fa altro che creare nuove, e più profonde fratture, preparando il terreno per una nuova violenza; se, infatti, i morti sono tutti uguali, ogni parte coinvolta nella lunga guerra civile italiana penserà solo ai propri, ignorando quelli dell'avversario. Sarà la fine della storia condivisa e l'inizio della storia militante. Bene che vada si allargheranno le fratture tra le parti politiche, male che vada ci si comincerà ad occupare anche dei morti dell'avversario, ma per disprezzarne il ricordo.
Jan Sudrab, 20 febbraio 2005

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Riportiamo questo aureo articolo di Giulietto Chiesa in quanto saggio di argomentazione.
NON si possono chiamare cose diverse, e addirittura opposte, con lo stesso nome.
Ben vengano, allora, le “virgolette”.

''TERRORISTI'' di Giulietto Chiesa


16 febbraio 2005, in uscita sul settimanale russo Kompania


Dopo 13 lunghissimi giorni di silenzio da quando hanno sequestrato Giuliana Sgrena (la seconda giornalista italiana dall‚inizio della Guerra in Irak) arrivano sue notizie. E' viva, si esulta. Non basta, aggiungo...
Non posso dire che sia una mia amica personale: ci siamo visti poco, ma lavora per uno dei giornali per cui anch‚io scrivo sovente e l’ho avuta per collega in una delle guerre cui ho assistito, e che ho raccontato. Fu in Afghanistan.
E’ una buona giornalista e ho sempre letto le cose che scriveva: precise, attente, informate. L’ho vista ieri nel video che i suoi sequestratori hanno mandato fuori dalla sua prigione. Certo l’hanno fatto per i loro scopi. Scopi che non conosciamo e sui quali possiamo soltanto congetturare. L’ho vista in lacrime, spezzata dalla paura della morte, implorare soccorso
dal governo italiano, da coloro che hanno lavorato con lei, dal marito che ben poco può fare.
Fanno ricadere su di lei, I suoi rapitori, - pare, questo e’ quanto dicono - la responsabilità dell’aggressione anglo-americano-italiana contro il popolo iracheno, contro l’Irak. L’Italia fa parte del gruppo dei paesi occupanti, occupa la terza posizione per numero di truppe. Tutto sembra molto logico. I mass media scrivono: sono terroristi. E intendono: sono quelli di Al Qaeda.
Ma a me questa disinvolta successione di passaggi “ logici ”, questi sillogismi, non convincono affatto. Qualche giorno fa il presidente francese, Jacques Chirac, commentando la situazione analoga della giornalista francese di Liberation, Florence Aubenas, rapita in Irak da oltre due mesi e sparita nel nulla, ha pronunciato una frase sibillina, ma molto significativa come “ segnale ”.
Voleva scoraggiare altri giornalisti francesi dall’andare in quel tritacarne che, da due anni, si chiama Irak. E ha detto, all’Incirca: “State attenti, voi che insistete per andare laggiù, che noi poi dobbiamo pagare dei prezzi molto gravi”.
Mi sono chiesto cosa significassero queste parole. Forse che Chirac ha dovuto pagare un alto, o altissimo riscatto per liberare i due giornalisti che hanno preceduto Florence Aubenas in qualche scantinato di Baghdad? Non credo che si riferisse ai soldi. Uno stato come la Francia, per salvare un suo cittadino, per salvarsi la faccia, può bene tirare fuori qualche
milione di euro, perfino qualche decina di milioni di euro, dai suoi forzieri. Non e’ certo questo il punto. Il punto e’ un altro. Chirac parla di un prezzo politico. E non rivela di quale prezzo si tratti. Ma quale prezzo politico potrebbero chiedere i terroristi a un governo che non ha preso parte all‚aggressione? Un governo che, anzi, al contrario, ha osteggiato la guerra voluta da Bush, definendola illegale ?
E’ chiaro che a Chirac hanno chiesto qualche seria ritirata politica, di fare ammenda per qualcosa, di cedere su altri scenari, su altri problemi. Per questo il presidente francese non rivela, ma e‚ evidente che non può trattarsi del ritiro di truppe che la Francia non ha mai schierato sul terreno iracheno. Eppure i “terroristi” (ora comincio a mettere tra virgolette questa parola) trattano la Francia come nemica. Ecco il punto: perché?
Forse perché non sono precisamente terroristi. O, per meglio dire, non sono soltanto terroristi islamici. Forse perché, insieme ai terroristi, che svolgono opera di manovalanza,ci sono altri “terroristi”, ben più potenti e meglio organizzati, che hanno buone ragioni per “vendicarsi” del fatto che la Francia non ha partecipato all‚aggressione. Naturalmente in termini politici e strategici, la vendetta e‚ una categoria insoddisfacente, troppo piena di sentimento. Ma quando si tratta di liquidare il nemico, ogni crite rio e‚ buono. E‚ la stessa logica che nei giorni scorsi spingeva Thomas Friedman a descrivere (sul New York Times) la politica di Bush in questi termini: “non deve restare un solo mullah sulla faccia della terra”.
Che ne dicono i miei 24 lettori di questa ipotesi? Prevedo l’obiezione di alcuni: ma all’Italia i terroristi hanno qualcosa da chiedere. E’ vero. Ma allora perché se la prendono con una giornalista di sinistra, che scrive per un giornale di sinistra, che e’ sempre stata contro la guerra in Irak, che “si può dire” simpatizza apertamente per la causa del popolo iracheno aggredito? A che serve attaccare un amico degli iracheni? Torturarlo, ucciderlo ?
C’e’ una sola spiegazione: non sono terroristi, sono “terroristi”.

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[Le cifre sulle quali M.D.C. costruisce il suo ottimo articolo sono tratte da Il nemico interno, di Cesare Bermani, da noi edito.]

il manifesto - 13 Febbraio 2005 pagina 08
Anni '70, le cifre della violenza “bipartisan”
Una “guerra civile” in piccolo, fatta di migliaia di scontri, risse e attentati, con la destra sempre protagonista
M.D.C.
C'è molta deformazione nel modo in cui la maggior parte dei media sta trattando la confessione tardiva di Achille Lollo sul rogo di Primavalle. La destra estrema, i fascisti o ex che dir si voglia, stanno sfruttando la grancassa per accreditarsi come “vittime della violenza comunista” negli anni '70. In mancanza di contraltare, qualche opinionista di memoria corta concede loro tale patente decisamente usurpata.
Quanti hanno più di 40 anni non faranno fatica a ricordare un numero impressionante di aggressioni fasciste che sono costate la vita o ferite più o meno gravi a tanti compagni. Ma i più giovani, a dar retta alle cronache di questi giorni, potrebbero legittimamente pensare che la sinistra - e solo lei - abbia molto da farsi perdonare. Com'è andata, insomma, la storia delle violenze dal '68 in poi?
Per rispondere siamo ricorsi al libro Il nemico interno, dello storico Cesare Bermani. Che ci ricorda intanto come, tra sinistra e fascisti, non sia mai corso buon sangue, dal 1919 alla caduta del muro di Berlino (poi la sinistra ha preferito dimenticare; gli ex fascisti, a quanto pare, no). Limitandoci al periodo più recente, però, va registrato che il primo caduto negli “anni della contestazione” fu certamente lo studente di sinistra Paolo Rossi, ucciso a Roma il 27 aprile del 1966, sulla scalinata della facoltà di Lettere, davanti agli occhi di una polizia abbastanza miope. Miopia inguaribile, almeno per tutti gli anni '70, e che convinse quasi tutti, a sinistra, che esistesse quantomeno una “benevola tolleranza” nei confronti dei neofascisti (sia quelli del partito di Almirante che gli altri più radicali, come Ordine Nuovo o Avanguardia Nazionale). Anche la magistratura dell'epoca (si pensi al processo per piazza Fontana) sembrava affetta da una malattia molto simile.
Da lì in poi, soprattutto dopo il '68, è possibile definire quantitativamente le aggressioni, più o meno reciproche. Dal 1969 al 1975 rimangono “uccise o ferite 442 persone a causa di episodi di violenza o attentati. Ben 413 sono stati determinati dalle `stragi di stato' e dall'eversione fascista, mentre solo 29 sono ascrivibili alle organizzazioni di sinistra”. Il sommare le vittime delle “stragi di stato” con quelle causate dai fascisti appare legittimato dal fatto - incontestabile - che in tutte le indagini sulle stragi sono stati imputati (qualche volta condannati, più spesso protetti dai servizi segreti e fatti espatriare) numerosi militanti dell'estrema destra. D'altra parte, le 29 vittime (uccisi o feriti) da gruppi di sinistra comprendono anche quelle colpite dalle organizzazioni della lotta armata e non riguardano perciò soltanto i fascisti.
Nello stesso periodo si ebbero “2.528 episodi di violenza, di cui 194 ascrivibili alla sinistra, ben 1.671 alla destra e 174 ad altri”. Gli “attentati non rivendicati” sono stati invece “1.708, di cui 175 ascrivibili alla sinistra, ben 1.339 alla dstra e 194 a ignoti”. Si può dunque dire senza tema di smentita che nella prima metà degli anni '70 - in cui cade anche il rogo di Primavalle - la violenza fascista è addirittura straripante, con qualche “risposta” da parte di alcuni militanti di sinistra.
Le cose cambiano negli anni successivi. Tra il 1976 e il 1982 “gli episodi di violenza sono stati 2.321, 977 attribuibili alla sinistra, 1,254 alla destra”. Gli “attentati non rivendicati sono invece stati 4.445; 1.617 ascrivibili alla sinistra, 1.206 alla destra, 1.622 a ignoti”. Altra cosa sono gli “attentati rivendicati” dalle organizzazioni della lotta armata, sia di sinistra che di destra, che entrano in un altro computo. Nel periodo indicato si verificano 2.055 attentati riconosciuti da gruppi di sinistra (394 dalle sole Brigate Rosse, 107 da Prima Linea), mentre 388 sono di destra. C'è però da aggiungere che a quel punto la maggior parte delle azioni “di sinistra” non vanno a colpire solo i fascisti, ma anche uomini e apparati dello stato; mentre le “azioni di destra” restano indirizzate quasi esclusivamente verso “i compagni”. Bermani calcola in 22 i militanti di sinistra uccisi dai fascisti in agguati o scontri di piazza, mentre sono 11 i neofascisti morti nello stesso modo.
Quasi metà della “violenza degli anni `70” è comunque concentrata in tre soli anni: dal '77 al '79. Qui gli episodi genericamente violenti “sono stati 1.098, di cui 831 ascrivili alla sinistra, 206 alla destra”. I veri e propri “attentati non rivendicati sono stati 3.084”, di cui “1.393 ascrivibili alla sinistra, 854 alla destra, 837 a ignoti”. Quelli “rivendicati” sono stati 1.808; “ai 1.541 rivendicati da sinistra si contrappongono i 267 rivendicati da organizzazioni di destra”. In un solo anno, infine, le aggressioni contro i fascisti superano quelle di questi ultimi contro i compagni: nel 1977.
Cifre degne di una piccola “guerra civile”. Cifre con cui è illusorio pensare di potersi misurare usando il metro deformante della giustizia dei tribunali (per quante “stragi di stato” sono stati arrestati e condannati i colpevoli?). In questa mole enorme di fatti violenti ognuno potrà agevolmente trovare qualche episodio mai completamente chiarito, con personaggi scampati alla condanna o all'arresto per un colpo di fortuna o un “interessamento di potenti”. Personaggi che poi si sono “rifatti una vita”, come i tre chiamati ora in causa dall'improvvisa e improvvida sortita di Lollo. E che magari, come qualche protagonista degli scontri di allora, siede su qualche poltrona importante. Persino ministeriale, si potrebbe dire.
Si può solo scegliere come chiudere quella pagina. O con la vendetta di parte, a seconda di chi va (temporaneamente) al governo. O con l'amnistia generale. Ma proprio per tutti, e senza “condizioni” che ne riducano o invalidino il significato politico.
Altrimenti si andrà avanti così, con un uso meschino della storia e di singole storie, che un giorno risolleva certi morti e un altro quelli sull'altro fronte.

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Il sequestro di Giuliana Sgrena è questione troppo seria per lasciarla gestire dall’informazione “embedded”, quella che riceve le notizie solo dal governo e non si chiede mai se siano vere oppure no.
I diretti interessati, il manifesto, sono giustamente cauti nell’ipotizzare uno scenario, stretti come sono tra la necessità di capire, quella di informare correttamente e quella – ancora più importante – di non compromettere la vita di Giuliana con qualche azzardo “dietrologico” di troppo, di quelli che fanno imbizzarrire chi dovrebbe “operare sul campo” per salvarla.
Non può e non vuole farlo, naturalmente, neppure “Velina della sera”, che non si trova in Iraq e lavora – è necessario dirlo chiaramente – “de relato”, su informazione dirette o indirette, oltre che sulle immancabili agenzie.
Per ora – martedì 8 febbraio, ore 16 – sembra necessario e anche utile mettere in fila alcuni dettagli incontrovertibili, ma molto poco evidenziati dalla stampa italiana.
1) La sigla posta in calce ai primi tre comunicati attribuiti ai rapitori è “Organizzazione della Jihad islamica” nel primo; “Organizzazione della Jihad nel paese di Rafidain” (Terra tra i due fiumi”, o Mesopotamia). Il nome somiglia a quello del gruppo che farebbe capo ad Al Zarqawi: “Organizzazione di al Qaida della Jihad nel paese di Rafidain”.
Questa somiglianza è servita a tutti i media per dire, a un certo punto, che Giuliana fosse stata “già passata” agli uomini di Zarqawi.
2) Il sito su cui questi comunicati sono fatti comparire si chiama Al Massada.net. Dall’orario di aggiornamento si capisce facilmente che il server si trova a Kabul, in Afghanistam. l’unico paese del mondo con un fuso orario spostato di 30 minuti rispetto alla norma. Inutile dire che in Afghanistan gli americani controllano solo qualche città, ma di certo hanno il pieno controllo della rete telematica e telefonica.
3) In Iraq, naturalmente, nessuno si preoccupa minimamente di ciò che si pensa in Italia. Ma tutti i giornali iracheni, domenica 6, attribuivano a Zarqawi il rapimento di Giuliana. Il gruppo di Zarqawi ha fatto a questo punto una mossa totalmente nuova: ha smentito di essere responsabile del sequestro. Non era mai avvenuto, e anche questo deve essere tenuto nel dovuto conto.
4) Sui perché della mossa di Zarqawi (o di chi per lui) è inutile lambiccarsi troppo. Il suo comunicato è arrivato con le modalità note da tempo, direttamente ad Al Jazeera, ed è stato ritenuto da tutti (soprattutto dagli arabi) attendibile al 100%.
5) Nel suo comunicato, Zarqawi dichiara che “questa notizia (l’aver sequestrato loro Giuliana, ndr) non è vera, e che questo pessimo canale (il sito Al Massada.net, ndr) come al solito diffonde notizie false allo scopo di diffamare i mujahidin davanti ai musulmani.
Non solo. Nel testo viene data una definizione inequivocabile del sito su cui sono apparse tutte le “rivendicazioni”, compresa quella sulla “assoluzione” e prossima liberazione di Giuliana: “Ammoniamo i musulmani dal seguire questo canale di spie perché noi di Al-Qaeda abbiamo sistemi speciali e conosciuti di inviare comunicati via internet”.
Sembra d’altronde abbastanza logico che un sito “filo al Qaida” dovunque potrebbe essere posizionato, tranne che in un territorio sotto controllo Usa. Il “canale di spie” Al Massada, insomma, non sarebbe altro che uno “specchietto per le allodole”, costruito per “agganciare” islamisti estremisti e un po’ coglioni, del genere che per sapere cosa fare per “arruolarsi” va a vedere su Internet.
6) Tutte le indagini sul sequestro vengono condotte, sul campo, dai servizi segreti Usa, in particolare da una unità dell’intelligence dedicata alla caccia dei sequestratori. Questi “specialisti” hanno fin da subito puntato a incastrare l’autista e l’interprete che erano con Giuliana. I quali sono anche gli unici di cui lei si fidasse in tutta Baghdad, perché li conosceva da diversi anni.
Nessuna indagine, al momento, risulta essere stata condotta fin qui nei confronti delle guardie private – quattro, di cui tre armate con Kalashnikov – che stazionavano all’ingresso del compound da cui Giuliana stava uscendo al momento dell’agguato. E sì che i quattro non si sarebbero insospettiti per la presenza di due auto con otto persone a bordo, parcheggiate proprio davanti all’ingresso, al termine di una strada che si interrompe proprio lì.
Ulteriore elemento: le quattro guardie hanno raccontato di aver sostenuto una sparatoria con gli otto rapitori. Ne consegue che ci sarebbe stato un conflitto a fuoco tra dodici uomini pesantemente armati e distanti una decina di metri. Ma che si sarebbe miracolosamente concluso senza neppure un ferito leggero.
A risentirci nei prossimi giorni.
Velina della Sera

JENEIDE

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[Siamo alle solite, adesso sono tutti antibarenghiani della prima ora. Telefonano e scrivono per offrire la loro pietra. Poi rispondo a Casimiro, che aveva evocato il logo de La Voce del Padrone - quello con il cane compunto davanti alla tromba del grammofono - per commentare il passaggio di Jena alla Stampa]

Cari di Odradek, ho letto come voi, sul Corriere della sera, che l’ex direttore de il manifesto, Riccardo Barenghi sta per passare a La Stampa. Con «compiti di scrittura», aggiunge l’articolista, senza omettere che nel passaggio porterà con sé la firma e la rubrica di Jena. Anche quelli de il manifesto sembra che lo abbiano appreso dalla stessa fonte. Questioni di stile.
Un amico mi ha fatto notare che Jena, quello stesso giorno, ha morso con determinazione il filosofo Gianni Vattimo, il quale avrebbe qualificato come «partigiana» la lotta degli iracheni, comprendendovi persino la primula verde Al Zarqawi. Un «partigiano che sbaglia», chiosava la Jena, evocando così antiche scomuniche a sinistra sui «compagni che sbagliavano» impugnando le armi.
Lo stesso amico, uomo di alte letture, aggiungeva che non gli sembra comunque un esempio di buon gusto un ex direttore de il manifesto che usa il suo ormai ex giornale per svillaneggiare un intellettuale che un tempo argomentava su La Stampa e da qualche tempo lo fa su il manifesto. Specie se si sta lasciando questo giornale per andare a scrivere, per l’appunto, su La Stampa. Complicato? Appena un poco. Ma i conflitti di interesse sono sempre un po’ contorti.
Peraltro, Jena è una penna acuminata, che ha insolentito quasi sempre i «compagni di strada» de il manifesto. Un battitore libero, insomma, che trova(va) la sua ragione d’essere nel fustigare le innumerevoli manchevolezze (o peggio) dei diversi protagonisti del centrosinistra, Bertinotti compreso. Allo scopo, si poteva pensare, di costringere quegli stessi protagonisti a migliorarsi, a fare – come diceva un regista girotondista diventato poi un «moderato intransigente» – «qualcosa di sinistra».
Che dire? Ho provato a immaginare che effetto faranno le battute della Jena – che tutti noi ci siamo abituati a leggere insieme alla vignetta di Vauro – sul giornale di famiglia degli Agnelli. Magari a fianco della vignetta di Forattini.
Spaesato e straniato ho cercato inutilmente un’immagine che potesse rendere plasticamente questo effetto. Niente da fare.
Solo dopo aver preso sonno mi si è catapultato davanti agli occhi il disegnino – un grammofono con davanti un cane – che faceva da logo, quand’ero piccolo, a un’allora famosa etichetta discografica: La Voce del Padrone.
Casimiro
31 gennaio

Caro Casimiro,
a me invece è venuto in mente un film di genere, Telephon, che aveva per protagonista quel fantasista della monoespressione che era Charles Bronson. Raccontava di una rete di spie sovietiche (orsi?), opportunamente addestrate e condizionate, completamente inserite nell’idillio del suburbio amerikano (casette unifamiliari col prato e col cane, ops). Bastava una telefonata, una voce che dicesse con un certo tono una certa frase, e loro tornavano ad essere le belve assetate di sangue quali erano state addestrate a essere.
Squilla il telefono in una stanza de il manifesto. Jena alza la cornetta. Trasale, mentre una voce suadente scandisce: “Cavo, missione compiuta. È ova che tovni a covso Mavconi”.
Se poi si volesse intersecare le due metafore, la voce che esce dalla tromba potrebbe ingiungere:
“Tovna a casa Lassie”.

il Bachemaster

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[ Domanda: Che cosa brandiva l'omino di Vauro nella mano sinistra, poi sbianchettata?]

 

 

>>Bacheca (pagina 3)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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La Jena in casa Agnelli
poteva far sfracelli.
Ma giunta che è a Torino
si scopre un cagnolino.
Azzannerà in quella contrada
gli ex compagni di strada,
anche se è cambiata
la parte della barricata?
Così, pensiero mesto,
ne ridevo su il manifesto,
mentre il coglion m’avvampa
leggendola su La Stampa.
Tarantola

2 febbraio

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[Felice Accame, ispirato dal nostro comunicato (vedi appresso) relativo all'articolo di Aldo Cazzullo, ha fatto a Radiopopolare, domenica il 23 gennaio, nella trasmissione "Caccia all'ideologico quotidiano", l'intervento che qui si riproduce, anche se il Bachemaster non è completamente d'accordo su alcuni passaggi filobogdanoviani e misoleniniani]

Con la pila e senza pile
Dice Laurence Sterne nella Vita e opinioni di Tristram Shandy gentiluomo (pubblicato fra il 1760 e il 1767) che i nostri preconcetti hanno un enorme potere sulla “forma delle cose” e che, per sua natura, l’ipotesi assimila ogni cosa in se stessa come suo nutrimento naturale e che, dal primo istante in cui è nata, generalmente diventa sempre più forte a causa di tutto ciò che uno vede, sente, legge o capisce.
Capita a tutti, figuriamoci al giornalista.
Nel 1903, negli archivi del Dipartimento russo di polizia, figuravano due nomi come quelli delle due persone più pericolose per il regime zarista. Il primo era quello di Lenin, il secondo quello di Bogdanov. Nella prefazione di Lenin alla prima edizione di Materialismo e empiriocriticismo, nel 1908, tuttavia, il nome di Bogdanov compare insieme ad altri che, pur continuando a pretendersi marxisti, attaccano sia “la filosofia marxistica” che il “materialismo dialettico”. Più che lo zar, dunque, già parecchi anni prima della rivoluzione d’ottobre, Bogdanov era diventato il nemico da battere.
In gioco, forse, c’era la filosofia in quanto tale – più amata da Lenin e meno amata da Bogdanov – e, di certo, in gioco c’era la possibilità o meno di parlare della verità oggettiva: obiettivo necessariamente raggiungibile da parte del materialismo dialettico, secondo Lenin, e risultato truffaldino dell’asservimento della filosofia agli interessi della borghesia, secondo Bogdanov. Perse quest’ultimo, ovviamente – come perse la rivoluzione, minata alla base dall’arroganza degli intellettuali che ne presero il comando. E, tuttavia, la sinistra bolscevica – come vennero chiamati Bogdanov e i suoi amici –, ingoiando il rospo di un patto in virtù del quale la disputa filosofica sarebbe stata affrontata e risolta a tempo debito, e fidando delle proprie ragioni tanto quanto della contraddittorietà delle tesi altrui, partecipò attivamente ed entusiasticamente all’insurrezione. A Bogdanov, privato di ogni carica in seno al Partito Comunista Sovietico, rimase la magra consolazione di essere sopravvissuto – di poco – al proprio avversario. Lenin morì nel 1924 e Bogdanov – che da medico qual era, rischiò, a quanto pare, un’inopinata trasfusione del sangue – nel 1928. Nonostante i suoi sforzi, invece, il materialismo dialettico ha resistito ancora un po’.
Nel 2005, capita, allora, che “Il Manifesto”, quotidiano comunista, organizzi una grande assemblea con lo scopo di ragionare di politica e di raccogliere, così ragionando “tutti i leader dei partiti che stanno alla sinistra dei Ds” e capita che il “Corriere” mandi una sua penna salace per descriverne, più che l’andamento, il colore. O di coglierne quei minuti particolari che potrebbero valere più del generale.
E’ così che già con l’incipit si conferisce senso – a chi scrive prima ancora che a ciò di cui scrive -, perché “erano dieci anni” – recita così l’articolo – “che non si vedevano congressi politici senza hostess e con il materialismo dialettico”.
Sull’astuzia di correlare elementi disomogenei fra loro – “senza” hostess e “con” il materialismo dialettico – ci si potrebbe scrivere un intero volume, ma, facendola più breve, diciamo che risponde soddisfacentemente all’esigenza di svalorizzare un termine tramite l’altro. Chi pensasse, allora, che nell’Europa di oggi si aggiri minacciosissimo il fantasma del materialismo dialettico, correlandolo alle hostess gli rifila una legnata storica. Ben più efficace di quelle di Bogdanov.
La categoria dell’hostess, d’altronde, è di quelle solidissime. Prima di espandersi come “air hostess”, e prima di perdere l’air, il termine derivava dall’antico francese “hostesse”, da cui l’oste di coloro che lo dimenticano sistematicamente quando fanno i loro conti e l’ostessa sua signora. E’ tramite l’hostess da aereo che si arriva alla hostess da congresso, e così come la prima presiede simbolicamente alle ritualità estirpanti la paura o la certezza di morirne, così – per rimanere al tema – l’hostess da congresso, sorriso a qualsiasi costo e scollatura ripida, gambe fuori, coscia da 122 centimetri (qualcosa in più rispetto alla hostess da aereo), presiede simbolicamente alle ritualità estirpanti la paura o la certezza di quelle idee, materialismo dialettico incluso, che in congresso potrebbero anche venir dibattute. Voglio dire, più semplicemente, che è vero: con le hostess, niente rivoluzione. Senza con questo pretendere vero il contrario – che senza hostess la rivoluzione è garantita.
L’articolo avrebbe anche potuto fermarsi all’incipit. E avrebbe avuto tutto da guadagnarci, perché – le pagine van pur riempite e chi paga giornali e giornalisti ama la ridondanza -, fra i punti fermi che caratterizzerebbero l’evento – fra Ingrao, punto, treccine rasta, punto, Asor Rosa è in loden verde e sciarpa rossa, punto -, c’è anche “Pile dei dialoghi su scienza e filosofia di Bogdanov, punto”.
Il giornalista ha commesso due gravi errori. Il primo. Non tutto ciò che finisce in “ov” depone a favore del materialismo dialettico. E nel caso di Bogdanov siamo agli antipodi. Non solo. Il libro in questione – Quattro dialoghi su scienza e filosofia –, lo so perché l’ho curato io, discute proprio il senso dell’alternativa al materialismo dialettico proposta da Bogdanov e, in una sua parte piuttosto cospicua, ne propone un’interpretazione costruttivista. Conferma, in altre parole, l’opposizione ideologica fra Lenin e Bogdanov. E’ un caso in cui, insomma, il giornalista che cercava il colore, sentendosi in dovere di screditare invecchiando tutto ciò che gli capitava sott’occhio, si è rivelato daltonico.
Il secondo. Il preconcetto con cui si è aggirato negli ambiti congressuali della sinistra radicale era talmente grosso, grasso e pasciuto, che, anche nella più semplice arte del percepire e del categorizzare, il giornalista è caduto in fallo. Ha visto, infatti, “pile” del libro in questione dove – come mi testimonia chi ce le ha portate e chi se ne è riportate a casa le rimanenti – di “pila” ce n’era una sola. Formata da ben cinque copie e affiancata da una sesta copia, ieraticamente in piedi a sancire il culto di una rivoluzione non sua.


Note
Bogdanov era uno pseudonimo. In realtà si chiamava Aleksandr Malinovsky (1873-1928). Le sue opere principali sono L’empiriomonismo (1904-1907) e la Scienza universale dell’organizzazione: Tectologia (che venne pubblicata interamente fra il 1913 e il 1922).
I Quattro dialoghi su scienza e filosofia sono pubblicati da Odradek, Roma 2004. Contengono una laconica presentazione del sottoscritto, tre saggi di Ernst von Glasersfeld e uno a testa di Massimo Stanzione e Silvano Tagliagambe.
L’episodio è narrato nella bacheca del sito www.odradek.it
Informatori personali mi riferiscono che, a sera, di copie ne sono rimaste due.

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* IL PEZZULLO DI CAZZULLO. Chi mandare per il pezzo di colore all’assemblea della “sinistra radicale” a Roma, promossa dal “manifesto” sabato 15? Al Corriere della sera non hanno scelta. Perso Francesco Merlo, di letture più vaste e meditate, schierato Gian Antonio Stella sul fronte del nord-est a rilasciare umori antimeridionali, non rimane che Aldo Cazzullo. Il quale, il giorno dopo, pubblica (p.8) un inconcludente e sciatto articolo impressionistico – un pezzullo, insomma – alla ricerca di qualche inesistente nota di colore. Poveretto, gli unici colori che racconta sono quelli delle sciarpe e delle camicie. Non trova alcuno che gli regali un pettegolezzo che è uno. Nei gabinetti, nessuno fabbrica febbrilmente molotov. E per di più, manca l’ispirazione.
Si leggiucchia stancamente l’articolessa finché non si incappa in «Pile dei dialoghi su scienza e filosofia di Bogdanov. Ingrao. Treccine rasta. Asor Rosa è in loden verde e sciarpa rossa». Orpo, qui c’è il fumus cospirationis, avrà pensato il lettore benpensante. Non v’è chi non veda. Bogdanov finisce per “ov”.
Ora, prima che su Libero si cominci a parlare del micidiale cocktail Bogdanov, e che una qualche Procura apra un fascicolo, è il caso di chiarificare per quanto è possibile. Effettivamente, all’Auditorium della Fiera di Roma, in un banchetto di libri c’era “una” pila di “sei” volumi di Quattro dialoghi su scienza e filosofia di A.A. Bogdanov, edito da Odradek; e, a sera, ne erano stati venduti ben quattro. Ma il libro, purtroppo per Cazzullo, ha tutta l’aria di essere una macchinosa manovra della reazione in agguato. Ernst von Glasersfeld, epistemologo austro-statunitense, scopre i dialoghi di Bogdanov, e li pubblica presentandoli come un’anticipazione del proprio costruttivismo radicale. Due filosofi della scienza di chiara fama, Silvano Tagliagambe e Massimo Stanzione, avallano l’interpretazione ricostruendo il pensiero di Bogdanov, il primo in rapporto alla polemica che lo vide contrapposto a Lenin, il secondo relativamente all’operazionismo e al costruttivismo. Nel libro si parla soltanto di scienza e natura, di empiriomonismo ed empriocriticismo, e nemmeno tanto bene di Lenin. Del Lenin epistemologo, beninteso. Neppure il dottor Giovagnoli della Procura di Bologna sarebbe in grado di imbastirci sopra alcunché. Quali associazioni mai saranno balenate nella testa di Cazzullo? Che sia un avvertimento?
Odradek, Ufficio stampa, 16 gennaio 2005

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L’on. Severino Galante, che siede giustamente tra i parlamentari italo-cossuttiani, si è schierato brillantemente tra quanti hanno preso le difese del giudice milanese Clementina Forleo, “rea” di aver assolto dall’accusa di terrorismo internazionale” tre nordafricani. Si tratta di “guerriglieri”, avrebbe detto il giudice secondo alcuni. “Non ci sono le prove”, avrebbe affermato secondo altri.
Comunque sia, ha dichiarato il Galante, “nella sentenza di Milano i giudici si sono attenuti alle norme del diritto internazionale”. Forte di tanta copertura giuridica, si è lanciato – sembra – persino in una disamina della differenza tra violenza legittima (la resistenza all’occupante, in questo caso) e il terrorismo, fino a battezzare quella irachena come guerriglia.
Bene. Lo dico senza sorridere, perché mi sembrano parole di buon senso.
Il problema che mi arrovella è un altro. Perché, a questo punto, Severino Galante non si pente di essere stato il testimone d’accusa nel “teorema Calogero” e nell’inchiesta “sette aprile”? In fondo era un processo davvero osceno, dove ai fatti (ai “reati”, se si vuole) venivano anteposte le semplici “possibilità teoriche”; dove alle “prove” si preferiva l’analisi semantica dell’ideologia dei perseguiti: “Sei autonomo e rivoluzionario? E allora sei sicuramente un potenziale “terrorista”. Se non l’hai già fatto, stai per farlo”. Perfetto, meglio quasi dei gesuiti di Torquemada. E quasi come ora, cambiati i protagonisti, con gli “integralisti islamici” contro cui pretendono condanne extragiudiziali i nostrani “integralisti cattolici”.
Perché non chiedere perdono alle decine di persone – compagni, più precisamente, anche se di una parrocchia diversa dalla sua e dalla mia – che ha fatto finire in galera per anni, prima di essere (in buona parte) assolti? Perché non dissociarsi da quel periodo della sua vita in cui ha vissuto “sotto protezione” dei servizi segreti italiani come un Giovanni Brusca qualsiasi?
Lo faccia. Forse ci sarà più facile evitare di ridere leggendo quel che dichiara.
fujik

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* Riproduciamo l’intervento di Felice Accame (F.A., nello Zibaldone) a Radio Popolare, del 9 gennaio 2005.
Per un motivo. Contiene spunti decisivi per un dibattito sul relativismo storico, sul postmodernismo storiografico. Un dibattito sicuramente collegato a quanto Marco Clementi eccepisce nei confronti delle tesi di Benedetto Vecchi (vedi qui appresso), il quale risolve il problema facendo a meno, tout court, di storia e memoria.
Odradek aveva già cominciato a dire la sua in Guerra civile e Stato, allorché aveva rivendicato il diritto-dovere di riscrivere la storia, essendo il revisionismo una sorta di abito da lavoro dello storico. Ma sotto condizioni.

 

Notte e nebbia, ancora notte, ancora nebbia
Ho temuto di doverlo fare fin dall’inizio e man mano che i giorni passavano – e man mano che cresceva l’imperativo morale di doverlo fare – cresceva in me un forte senso di depressione, la noia mortale del già detto, il fastidio fisico del già detto e ripetuto, il dolore angoscioso della consapevolezza di averlo detto invano e la rabbia furiosa di doverlo ridire ancora una volta, invano. Momentaneamente sepolti dal ridicolo gli assertori di una storia oggettiva – il partito di coloro che ci dicono “come sono andate realmente le cose” -, oggi spadroneggiano gli assertori di una storia relativistica – stando ben attenti a non dichiararsi come il partito di coloro per i quali “alla storia può esser fatto dire qualsiasi cosa”, ma, pronti, prontissimi, per l’appunto, a giustificare qualsiasi cosa purché a loro torni qualcosa in tasca.


Il 20 ottobre del 1946, il Sant’Uffizio trasmette ad Angelo Roncalli, all’epoca nunzio apostolico a Parigi, un documento in cui lo si informa di alcune decisioni, approvate dal Papa Pio XII – decisioni alle quali il nunzio, ovviamente, dovrà attenersi. Sono cinque vere e proprie istruzioni su come comportarsi nei confronti di quei bambini ebrei – il documento dice “giudei” – che, durante l’occupazione tedesca, sono stati salvati presso famiglie e istituzioni cattoliche. La prima raccomanda di non rispondere “per iscritto alle autorità giudaiche” che ne reclamano la restituzione. La seconda raccomanda di prender tempo in ogni caso, adducendo la necessità di svolgere indagini prima di decidere. La terza vanta una sorta di diritto di proprietà acquisita – escludendo che, comunque, possano essere restituiti quei bambini che avessero già ricevuto il battesimo. La quarta accetta l’idea che i bambini eventualmente non ancora battezzati possano, a determinate condizioni, essere anche restituiti. La quinta specifica che se i bambini fossero stati affidati alla Chiesa Cattolica dai propri genitori, e se questi ora li reclamano, i bambini – sempre a condizione che non siano stati ancora battezzati – possono essere restituiti.
Che da questa lettera tutte le nostre convinzioni in materia possano venirne rivoluzionate tenderei ad escluderlo. Che la Chiesa cattolica sia sempre stata antisemita è un’ovvietà, perché, innanzititutto, ogni Chiesa è Chiesa perché è contro un’altra Chiesa e, poi, perché importanti suoi personaggi – si pensi a padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica – hanno ripetutamente scritto e detto, contro ebrei e contro gli ebrei in quanto tali, cose gravissime e vergognosissime. Che, oggi, la medesima Chiesa non ci tenga un granché a questo suo irredimibile ed irrimediabile passato è altrettanto ovvio: la corsa al lavaggio della fedina penale è uno sport molto diffuso fra i potenti.


Allorché il “Corriere della Sera” – il 28 dicembre scorso – pubblica questa lettera, infatti, la notizia è un’altra. Pio XII ordinava sì, ma, a quanto pare, Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII, il Papa Buono, oggi già beatificato, non ubbidiva.
Senonché, senonché. C’è anche un partito di gente che non ha di meglio da fare che non promuovere la beatificazione di Pio XII e, dunque, dal giorno dopo, divampa la polemica. C’è chi scopre ora l’insensibilità del Papa per l’Olocausto e c’è chi, invece, ne loda la coerenza, perché ogni battezzato è “figlio della Chiesa”, il che, visto e ben considerato che le proprie regole se le stabilisce la Chiesa stessa, è rigorosamente incontrovertibile. C’è chi scopre che casi di non restituiti hanno continuato ad accadere anche successivamente, chi sostiene che la lettera non è proprio un falso ma almeno un falsoide sì, perché si tratterebbe di una copia, forse di una sintesi di istruzioni ricevute o forse, addirittura, di una lettera che il nunzio apostolico – in un delirio letterario da personalità multipla - avrebbe scritto a se stesso, e c’è chi propone di bloccare il processo di canonizzazione di Pio XII, e c’è chi dice che Pio XII non era affatto antisemita. E qui, ahimé, ahinoi e ahitutti, bisogna fermarsi un attimo.
Lucetta Scaraffia, che purtroppo insegna storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, fra l’altro, sostiene quanto segue: a) che la Chiesa cattolica non è mai stata antisemita e che, se mai, bontà sua, è stata antigiudaica; b) che non esistono prove che questo antigiudaismo sia “sfociato in un consenso e in un appoggio all’antisemitismo dei nazisti”; e c) che la Chiesa di allora non poteva certo avere la nostra attuale sensibilità verso gli ebrei, perché “ci siamo infatti resi conto solo lentamente, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, della mostruosità e dell’entità del crimine perpetrato dai nazisti contro gli ebrei” – prima, par di capire, ritenevamo, noi tutti con Pio XII uniti, che questi ultimi se la fossero cavata con una bella ramanzina e qualche scappellotto.
Ad approfondire questo taglio epistemologico alla moda, pochi giorni dopo, provvede Ernesto Galli della Loggia (non chiedetemi quale) che, prontamente, prende l’ultima palla al balzo ed ha l’impudicizia di affermare che “l’Olocausto (…) ha cominciato a esistere solo dagli anni 60 in avanti” e che, dunque, “scandalizzarsi per la mancata ripulsa settanta o ottanta anni fa da parte di uomini e organizzazioni di ciò che oggi definiamo antisemitismo” costituirebbe “una grave, indebita forzatura”. All’origine ci sarebbe un errore metodologico: quello di “giudicare moralmente e storicamente il passato, anche il più prossimo, con il metro che adottiamo per giudicare il presente”. “Il passato stesso e la sua immagine”, filosofeggia idealisticamente, “sono a loro volta una costruzione storica, qualcosa che non si costituisce immediatamente una volta per tutte ma si forma e si trasforma con il tempo” – e, dunque, amplio io il discorso, chi sa cosa diventeranno i campi di sterminio tedeschi fra qualche anno: basta saper attendere e se son svastiche rifioriranno.
Non la farò lunga, anche perché sulle miserie del relativismo storico e sulle miserie nefande del relativismo storico applicato al nazionalsocialismo o al comportamento della Chiesa cattolica ho già più volte detto la mia, ma qualcosa devo dire.
Che la Scaraffia faccia il pesce in barile o no, l’antigiudaismo (si sarà notato che il documento del Sant’Uffizio parla di “giudei” e non di “ebrei”) è semplicemente un nome precedente dell’antisemitismo – esattamente come “Presidente del Consiglio” era il nome che, prima del fascismo, si usava invece di “Premier”. Che questo antisemitismo “tradizionale” non abbia costituito né “consenso” né “appoggio” all’antisemitismo nazista è letteralmente impensabile – sarebbe come dire che la Chiesa cattolica non abbia mai costituito né consenso né appoggio alla Democrazia Cristiana, o forse qualcosa di più improponibile ancora. Che l’Olocausto sia una “costruzione storica” degli anni Sessanta è un falsificazione oscena. Ho già avuto modo di ricordare, per esempio, che la Kressman-Taylor, nella lontana America, ha scritto Destinatario sconosciuto nel 1938, o che Rauschning ha pubblicato Hitler mi ha detto – il cui sottotitolo era un inequivocabile “Confidenze del Führer sul suo piano di conquista del mondo” – a Parigi nel 1939, un testo, che appare nella versione italiana già nel 1945, da cui si evince che la pianificazione dei campi di sterminio – nell’ambito di quella che allora veniva definita “politica biologica” - è già pronta e nota a tante persone fin dal 1933. E gli esempi – includendo magari i testi di Hitler medesimo stampati in Italia dal democraticissimo e progressistissimo conte Valentino Bompiani – potrebbero moltiplicarsi.
Chi voleva capire, chi voleva vedere – non dico fare qualcosa -, senza il metro di oggi e con il metro di ieri, senza aspettare i “magici” anni Sessanta, quando i morti erano morti nonostante la “costruzione storica” in fieri, quella della Scaraffia e del Galli della Loggia (non chiedetemi quale), li desse ancora sul chi vive, chi voleva capire e chi voleva vedere poteva – sì, poteva – sia capire che vedere – non dico fare qualcosa, o lo dico? Sì, comprendendo vedendo volendo, poteva anche fare qualcosa.
Allo storico spetta la consapevolezza delle categorie che usa. Nessuno può pretendere da lui la “Verità”, se non infilandosi nel vicolo cieco di un realismo filosofico autocontraddittorio. Da questo esercizio consapevole delle categorie, poi, lo storico deve ottenere descrizioni coerenti dell’oggetto in studio. Tutto qui e almeno questo. Faccio un esempio: se beato ha da essere chi ha dato l’ordine, è difficile che possa esserlo anche chi, quest’ordine, non l’ha eseguito. Eppure la Chiesa cattolica ci riesce.
Sono nato nel 1945. Per forza di cose – e non per ideologia storiografica –-, per me, il nazismo e i campi di sterminio sono diventati un fatto storico con un certo ritardo. Ma sempre prima di quel che i “professori” del relativismo odierno vorrebbero. Con Notte e nebbia di Alain Resnais, un documento visivo che rimane come un chiodo conficcatomi nel cervello dal 1960, allorché lo vidi al cinema Ritz di via Torino a Milano – un documento visivo che, peraltro, era stato girato già nel 1955 e completava i documenti visivi precedenti, gli originali filmati di chi aveva varcato fra i primi quelle soglie indimenticabili.


Note

Il documento in questione sarà pubblicato nel secondo tomo del quinto volume di A. G. Roncalli (Giovanni XXIII), Anni di Francia. Agende del nunzio Roncalli, a cura di E. Fouilloux, pubblicato dall’Istituto per le scienze religiose di Bologna.
Gli articoli cui ci si riferisce – tutti pubblicati sul “Corriere della Sera” – sono i seguenti: A. Melloni, Pio XII al nunzio Roncalli: non restituite i bimbi ebrei (28.12.2004); V. Messori, Pacelli fu coerente: ogni battezzato è figlio della Chiesa (29.12.2004 – nella stessa pagina: “Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche: ‘orrendo’ il documento sui bimbi accolti nei conventi); G. Miccoli, La Chiesa e i piccoli ebrei: il caso del 1953 (30.12.2004); D. J. Goldhagen, Goldhagen: papa Pacelli, perché non è santo (4.1.2005 – nella stessa pagina: L. Scaraffia, Ma PioXII non è mai stato antisemita); D. Fertilio, Il papa buono. Il vero volto di Roncalli al tempo della Shoah (5.1.2005 – nella stessa pagina: L. Accattoli, Padre Gumpel. “La lettera discussa? Fu proprio lui a scriverla”); E. Galli della Loggia, Antisemitismo. Non giudichiamo il passato con il metro del presente (7.1.2005 – nella stessa pagina: L. Accattoli, Gli sviluppi. Tra Roma e Parigi, le ultime indiscrezioni su quel testo che scotta). Stendo un velo pietoso su un intermezzo in cui il vescovo di turno denunciava una sorta di “Inquisizione anticattolica” in atto: alla sfacciataggine ed alla malafede non c’è mai fine.

 

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Marco Clementi
ha così commentato l'articolo di Benedetto Vecchi, "Il taglio del Settantasette" apparso su il manifesto del 24 dicembre 2004.

La recensione di Benedetto Vecchi della ristampa del volume “Settantasette” (DeriveApprodi) pubblicata il 24 dicembre sul “Manifesto” (p. 15) pone alcune questioni che richiedono più di una riflessione. La tesi di fondo della recensione, se non ho compreso male, è che, come viene detto nell’incipit , “[…] il culto della memoria – poco importa se apologetico o denigratorio – impedisce sempre di comprendere il presente […]”; secondo Vecchi, infatti, sia i critici di quel movimento, sia i nostalgici, fanno del male ai “movimenti sociali attuali”, i primi perché equiparano i due fenomeni, i secondi in quanto ricordano con malinconia. Solo un “sipario” definitivo su quella stagione, come sembra voler fare il libro recensito, può liberare il pensiero che, finalmente, può leggere il presente “senza l’ipoteca di una sconfitta”, anche perché, ci ricorda il recensore, “la storia è andata avanti”.
Secondo Vecchi, insomma, la storia di qualsiasi movimento (o fenomeno?) dovrebbe essere accompagnata da macchie bianche, corrispondenti alle sconfitte subite; da un oblìo opportunista, mi viene da leggere, perché altrimenti diventa pesante comprendere il presente.
Ma la vera “pesantezza”, invece, sta proprio nel modo in cui Vecchi ha affrontato il tema, confondendo due piani tra loro distinti, quello politico e quello storico, fatto dal quale deriva la difficoltà di razionalizzare il suo pensiero, tanto che costringe l’interlocutore a una sintesi in negativo: Vecchi ignora una delle massime del movimento democratico europeo del Novecento, e cioè che la lotta dell’uomo contro il potere sta proprio nella lotta della memoria contro l’oblìo; ma non volendomi addentrare nel discorso politico (se fossi chiamato a farlo non declinerei), mi limito a poche riflessioni sulla storia.
Nessuno storico ha mai sostenuto che la storia sia maestra di vita, dunque Vecchi da questo punto di vista può stare tranquillo; tutti, però, concordano sul fatto che le macchie bianche, inevitabili nella nostra disciplina, devono essere riempite di contenuto, senza atti volontaristici ma attraverso la ricerca; quando, poi, il tempo che ci separa da un avvenimento è breve (come nel caso del “Settantasette”), le macchie bianche sono necessariamente molte (e non per volontaria omissione) e la necessità di ricercare e continuare a riempire è ineluttabile. Non vorrei sembrare didascalico, ma credo valga la pena riaffermare che una nazione che non conosca la propria storia perde una delle qualità intrinseche al suo essere un elemento unitario. La storia d’Italia, specialmente quella recente, è piena di queste macchie bianche. Ne vogliamo aggiungere una nuova proprio quando non solo “i vincitori”, come afferma Vecchi, hanno facoltà di parola?
Marco Clementi

 

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Il primo dicembre 2003 è morto, a Roma, all’età di 85 anni, Vittorio Somenzi, già docente di Filosofia della scienza alla Sapienza. Era nato il 2 aprile 1918 a Redondesco, in provincia di Mantova. Era stato un partigiano antifascista.
Nel primo anniversario della morte, pubblichiamo il ricordo di Claudio Del Bello, nostro collaboratore e suo allievo.
Di seguito, un contributo di Felice Accame, dal quale si evince che “non parlare mai male di nessuno” non è propriamente una virtù.

Vittorio Somenzi, un maestro del domandare
Claudio Del Bello
da Giano, n. 45

Aveva avuto la prima cattedra di Filosofia della scienza in una università italiana, non senza clamorosi contrasti nella commissione. Lui, laico, fisico di formazione, fu l’occasione di una tardiva quanto simbolica riparazione per colmare un buco più che ventennale. Il fascismo c’entra poco (anche se ha fatto la sua parte). Il maggiore responsabile della sottoordinazione della scienza, della sua derubricazione ad ancella della filosofia, della sua assimilazione a tecnica, ovvero a una delle tante ideologie, è stato l’asfissiante neoidealismo italiano, e cioè Croce e Gentile; più Croce (con la sua teoria degli pseudoconcetti, quelli della scienza, appunto) che Gentile, a dire il vero.
Dopo anni di incontrastato dominio di “idealismo riformato” riemergeva, comunque, un naturale interesse per l’analisi, la critica e la storia della scienza. E Somenzi seppe corrispondere a questo interesse riannodando i fili interrotti di una tradizione; non solo di quella da Leonardo a Galileo, a Volta, Galvani, Schiaparelli, ecc. ma anche di quelli più recenti di Peano, Vailati, Calderoni, Enriques, Colorni, che idealismo e fascismo avevano oscurato, aprendo inoltre agli aspetti più fecondi del pragmatismo americano, facendo conoscere in Italia il pensiero e l’opera di un’altra straordinaria figura di scienziato-filosofo (premio Nobel per la fisica nel 1946) e cioè Percy Williams Bridgman, con il quale aveva lavorato durante un suo soggiorno negli Stati uniti subito dopo la guerra, e dal quale aveva mutuato il punto di vista “operazionistico”. Poté così sviluppare e offrire la filosofia della scienza come la riflessione filosofica di uno scienziato. La disciplina, in seguito, diventerà la riflessione di filosofi sulla scienza. Il che non è la stessa cosa. E a Somenzi non sfuggiva, infatti, l’assurdità di un insegnamento, come Filosofia della scienza, affidato a filosofi che possono parlare solo di filosofia della scienza, e non della scienza. Tuttavia, se la filosofia è l’arte di porre domande e la scienza la disposizione a fornire risposte, Somenzi era certamente più filosofo che scienziato.
Era sua profonda convinzione che la laurea in filosofia dovesse essere la seconda laurea. Non solo perché così si sarebbe conseguita in un’età più matura, ma soprattutto perché sarebbe risultata l’approfondimento dello studio di conoscenze particolari, della riflessione sull’applicazione di procedure e regole proprie di una disciplina specifica. Potendo così dare ragione (a seconda che si voglia privilegiare il termine filosofia oppure il termine scienza) del modo di formulare le domande, oppure quello di dare risposte.
Ai suoi allievi rimane l’insegnamento per il quale “filosofia della scienza” è espressione problematica, bifronte, palindroma; piena di tensioni e torsioni. Soprattutto oggi, allorché si è costretti a dare conto di due circostanze. Da parte della scienza, in cui un processo di specializzazione progressiva ha condotto a parcellizzazioni disciplinari sempre più spinte, mentre la tradizionale gerarchia che vedeva l’egemonia delle scienze fisiche è stata completamente azzerata; e non dimenticando che l’importanza economica (misurata dagli investimenti) delle scienze è mutata sicché, mentre si è fortemente ridotta l’importanza della fisica, è di molto aumentato il peso della biologia (biotecnologie) e dell’informatica. Da parte della filosofia, nel suo rapporto con la scienza, assistiamo a un aumento delle aspettative che la filosofia non riesce a soddisfare. È stato notato che i filosofi sembrano consumati dai dubbi proprio mentre le persone comuni si volgono ad essi in attesa di certezze; che oggi non c’è più una filosofia che si impone come guida universale; che non c’è più un unico sapere, mentre le “fonti di conoscenza” si sono moltiplicate. E un libro recente s’intitola “Filosofie delle scienze”, proponendo cioè una filosofia per ogni scienza, visto che una scienza unitaria non esiste.
Avevo cominciato a raccogliere i suoi scritti più antichi e meno noti, e lui aveva suggerito il titolo del libro: “Come non detto”, che bene illustra un suo tratto caratteristico; infatti in questi scritti straordinari emerge una sua capacità di anticipare tematiche e problemi, senza che nessuno gliene abbia dato il riconoscimento. Tra l’altro, noi allievi scoprimmo che in un suo articolo su Synthèse aveva anticipato proprio il concetto di “paradigma” scientifico (circostanza che, ovviamente, nulla toglie a Kuhn, che vi perviene sulla base di studi di storia della scienza).
Insieme a Silvio Ceccato e Giuseppe Vaccarino costituisce la “Scuola operativa italiana”, che non ebbe esiti istituzionali (se non importanti riviste come Sigma, Methodos e Methodologia) e rimase fortemente marginalizzata; una scuola, tuttavia, non provinciale, dal momento che può esibire legami non occasionali con Hugo Dingler e Percy W. Bridgman e addirittura prestiti rilevanti al costruttivismo, peraltro riconosciuti e vantati da Ernst von Glasersfeld, Heinz von Foerster e Paul Watzlawick.
Pioniere degli studi sul rapporto uomo-macchina e mente-cervello, dell’intelligenza artificiale e anticipatore della moderna filosofia cognitiva, guardava con distacco e con un certo sospetto alla loro disciplinarizzazione e istituzionalizzazione. Tra i fondatori del CICAP, con Margherita Hack e Piero Angela, sulla parapsicologia Somenzi aveva scritto molto; ovviamente in termini liquidatorii, anticipando molte critiche al New age e al Postmodernismo, prima ancora che la tendenza si manifestasse con le caratteristiche che conosciamo. Agli occhi dei Postmodernisti, Somenzi sarebbe apparso un riduzionista classico. E in qualche misura lo era, dal momento che negava il bisogno di scomodare concetti e teorie irrazionali e non verificabili finché si può procedere con la scienza sperimentale.
Un’ultima notazione, ma decisiva, va fatta a proposito della sua passione civile e politica. Alieno da esibizionismi e ideologie conclamate era stato sempre molto riservato sulla sua attività durante la Resistenza. Aveva fatto il partigiano con l’Ori, ed era stato paracadutato due volte oltre le linee nemiche. La seconda volta aveva continuato la resistenza nelle bande del Friuli come ufficiale di collegamento. Il 1° maggio del 1945, a Bolzano, era stato lui, giovane tenente dell’Aeronautica, a controfirmare la resa dell’ultimo contingente tedesco.
Con ogni evidenza, spinto dalla delusione e dalla preoccupazione per la situazione politica, in quest’ultimo decennio leggeva per lo più libri di storia contemporanea italiana, e su questi temi amava intrattenersi. Scuotendo mestamente il capo, insofferente della storiografia ufficiale e delle ricostruzioni di comodo, era bibliograficamente agguerritissimo sulle vicende italiane del fascismo e della Resistenza.
A mettere insieme le testimonianze dei suoi tanti allievi, con ciascuno dei quali continuava a coltivare qualcuno dei suoi molteplici interessi (dalle neuroscienze, alla storia della scienza, dalla pittura contemporanea alla storia, e pure alla critica dell’ideologia) potrebbe risultare una figura caleidoscopica, insulsamente enciclopedica e compulsivamente curiosa, e che la sua passione civile e politica fosse separata dal suo impegno filosofico e scientifico.
Al contrario, passione e impegno erano espressione di un medesimo atteggiamento, di una visione unitaria che collegava, per esempio, sia l’insofferenza per il revisionismo storico che quella nei confronti delle riletture mistiche e assolutorie di Heisenberg. Non a caso, quindi, la borghesia italiana lo ha scansato, e i necrologi che hanno accompagnato la sua morte sono stati tanto compunti quanto tiepidi e distratti.

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Riportiamo anche la “Caccia” di Felice Accame, letta a Radiopopolare nella trasmissione di domenica 19 dicembre u.s.
Accame, reduce dalla Giornata in ricordo di Vittorio Somenzi, organizzata a Roma, alla Facoltà di Filosofia dell’Università degli studi “La Sapienza” il 17 dicembre 2004, ha voluto dissentire da Ruggero Pierantoni riguardo a una pretesa irenica equidistanza di Vittorio Somenzi che non avrebbe “mai parlato male di nessuno”.

da Radio Popolare, 19 dicembre 2004
Commemorazione e unanimità
Dopo aver ricordato il collega e l’amico con tanta sagacia, con tanta abilità retorica, tanta brillantezza e altrettanta lucidità, con tanta raffinatezza letteraria e fin senza negarsi un tanto di snobistico birignao – tutto tanto, tutto forse troppo, per un discorso che, alla finfine, a virtù altrui e non alle proprie avrebbe dovuto esser dedicato –, dopo aver dato di sé, dunque, quest’ottimo attestato – e prima di accogliere i calorosi plausi che è ormai convinto di meritarsi –, corona il suo intervento pubblico confidando che il morto – in vita, è il caso di specificarlo – non gli aveva mai parlato male di nessuno.
Non parlar male del prossimo – e prima che parlare, ovviamente, non pensare male del prossimo - è indice di grande consapevolezza e di umana pietà. La carne è debole, lo spirito non ne parliamo nemmeno, la tentazione di prendere la scorciatoia piuttosto della via più lunga e faticosa, di solito, l’ha vinta su chiunque in quattro e quattr’otto. Chi sa di sé – della propria viltà in certi frangenti, dell’immediatezza di un silenzio o di un’omissione – sa che non c’è affatto bisogno che il gallo canti tre volte e, dunque – commisurando gli altri alla propria statura, è ben disposto a stendere un velo pietoso su chiunque classificando ciascuna azione altrui con un sereno beneficio d’inventario.
In una mano il Vangelo e nell’altra Il libro della norma di Lao-Tse: a chi non denuncia la pagliuzza nell’occhio altrui non dovrebbe venir rimproverata la trave che è conficcata nel suo e a chi, non esprimendo giudizi negativi, dimostra di non aver conteso con gli altri, tocca poi tutto l’utile di non incorrere in alcun danno.
Accreditare un morto di questa capacità – di un’assunzione di responsabilità dei propri errori tale da non poterne più addebitare a nessuno – parrebbe l’espressione della massima stima e del relativo senso di devozione che ancora sentiamo di dovergli. Parrebbe.
Parlar male – e prima di parlar male, ovviamente, pensar male – di qualcuno è, invece, doverosamente necessario. Casa nostra, le strade, la gente oppressa e la gente che l’oppressa, la cultura che produciamo, la nostra storia – questo nostro mondo, insomma – proprio tutto giusto, tutto accogliente, tutto sensato, tutto umano per tutti gli umani proprio non è. Porzioni sempre più abbondanti della nostra vita ci fanno orrore – la difficoltà di parlarci, la mancanza di lealtà alla quale veniamo educati da subito, i gas delle automobili, il cibo che fa schifo, le frottole sulla nostra storia e sulla nostra scienza, i fondamentalismi religiosi e la loro insulsa autorità, la voracità dei potentati e delle loro controfigure al governo, la benedizione ecumenica dei mezzi di sterminio della nostra specie sul pianeta -, tutto questo e parecchio altro ancora ci fa orrore e qualcuno di questo orrore sarà pur responsabile. Dirmi che ne siamo responsabili tutti, indistintamente, non mi sta bene, perché nella mia vita – e non credo sia capitato solo a me – ho più volte dovuto constatare che, di fronte a certe scelte, chi poteva scegliere ha scelto la migliore per sé facendo finta di non sapere che, al contempo, quella scelta era la peggiore per gli altri.
Col tempo e con l’esperienza i criteri per scegliere il sano dal porcume me li sono costruiti. E’ in grazia di ciò che posso dire che, sul mercato odierno, il porcume è molto più del sano ed è in grazia di ciò che un minimo di genealogia di questo porcume sono ancora in grado di farla. Con nomi e cognomi: so con discreta certezza che quel libro sostiene tesi vergognosamente false nell’interesse minimo del suo autore e nell’interesse massimo di chi lo sostiene nel mercato ideologico, so che il tale nel dibattito televisivo sta mentendo, so che il tal’altro nel processo in corso sta dicendo un mucchio di balle cui non crederebbe un bambino ma qualche magistrato invece sì, so che quel titolo sul giornale dice esattamente il contrario di quel che c’è scritto nell’articolo e so che quell’altro articolo è stato scritto soltanto nell’interesse di uno che non ne è affatto l’autore. So perfino che in quel tal libro è stata cancellata una frase per ordine di qualcuno, so che in un altro il nome di un tizio è stato sostituito dal nome di un altro – so anche di casi in cui si è trattato del nome dell’autore –, so che in un altro due fatti del tutto estranei l’uno all’altro sono stati giustapposti in modo che il lettore, inavvertitamente, ponga fra loro un rapporto di causa e di effetto. Di questi scempi, che non contribuiscono certo a migliorare la qualità della nostra vita associata, so nome e cognome degli autori. Per essere onorato da morto, dovrei tacerli? Non mi è mai passato per l’anticamera del cervello.
Chi ha criteri per dirimere, lo faccia. Assumendosene coraggiosamente la responsabilità. L’unanimità è un segnale inequivocabile di agghiacciante rassegnazione. Accreditare un morto della virtù di non aver mai parlato male di nessuno equivale ad addebitargli o un’intrinseca inettitudine o un’irrimediabile viltà.
L’amico e collega così commemorante ha dunque ritenuto di essersela cavata brillantemente con questa confidenza finale al pubblico partecipe e prontissimo a battergli le mani. Non ha capito di essersi messo, da solo, in un piccolo guaio. Perché – dimentico della strenua passione politica che, invece, aveva da sempre caratterizzato la vita di chi commemorava, dimentico del fatto che costui era ben dotato di strumenti critici affilatissimi nonché della volontà di applicarli – non ha pensato che, forse, non parlandogli male di nessuno, manifestava implicitamente il proprio giudizio sulla sua persona. E, infatti, con il morto – quando era in vita, è ancora il caso di specificarlo – ne abbiamo parlato più volte. Di lui. Maluccio.

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