Nota editoriale
di Odradek
alla
II edizione
Il
nemico interno cresce. Le analisi che siamo venuti facendo*,
a partire dalla prima edizione di questo libro pubblicato
nel 1997, corroborano un quadro in cui la guerra civile, lungi
dal costituire unanomalia da riassorbire, diventa una
consapevole politica di squilibrio creato ad arte, dovunque.
Uno stato deccezione normale perseguito
attaccando tutte le forme di convivenza, azzerando la tolleranza,
impedendo la ritualizzazione dei conflitti e, quindi, rendendo
impossibile ogni loro futura soluzione. Una via che promette
di estendere a tutto il pianeta il modello di relazioni
tra israeliani e palestinesi, o tra turchi e curdi; ovvero,
nel migliore dei casi, il tasso di convivenza civile in vigore
in buona parte dellAfrica.
Tra le democrazie, solo in Italia si è
però data una guerra civile perenne, sempre irrisolta.
Qui gli eserciti vi scorrono suscitando complicità
durature e trovano più comodo sussumere la macchina
statale, le sue strutture, i suoi funzionari, asservendoli.
Una macchina statale autonomizzata che complice una
borghesia miserevole sotto ogni punto di vista ha impedito
attivamente nel tempo che lo Stato si configurasse secondo
almeno uno dei due modelli a disposizione: 1. il modello europeo
(franco-tedesco-scandinavo), in cui la classe operaia è
assorbita e riconosciuta nella forma costituente del patto
tra i produttori e, 2. il modello anglosassone, in cui
il patto costituente vincola solo le classi proprietarie.
Nella variante britannica (ante-Thatcher e Blair) il sindacato
dà vita al suo partito, la classe ha diritto a una
sua quota alta di riconoscimento e di welfare. Il partito
laburista una volta riconosciuto il patto costituente
che esclude la classe, che pure rappresenta e da cui è
finanziato è legittimato a governare il paese.
Nella variante yankee, invece, le rappresentanze della classe
sono state stroncate militarmente, e il sindacato è
ridotto a co-gestore subordinato nelle singole aziende, non
è soggetto politico.
La storia delloccidente nel secondo dopoguerra aveva
messo la sordina a questo tipo di differenze. I nemici
interni erano ovunque solo i comunisti (il soggetto
politico), non sempre la classe operaia (il soggetto sociale),
a meno che non si identificasse in loro. La razionalizzazione
degli interessi di classe in unideologia contrapposta
al capitale (che è poi stata la forza vera dellUrss
come catalizzatore delle opposizioni mondiali) e in un progetto
politico di trasformazione sociale, dava insomma forma compiuta
anche al conflitto sociale.
LItalia è lunico paese (tra le democrazie,
con interessanti similitudini nella Grecia e la Spagna delle
dittature) in cui la classe operaia è vista, in quanto
tale, come nemico interno, operando unidentificazione
pressoché piena tra soggetto politico e soggetto sociale.
Il tutto propiziato e agevolato dalla continuità dellapparato
statale fascista e del suo codice penale, trionfalmente transitati,
come ben documenta Bermani, nellItalia repubblicana.
Continuità di apparato, archivi, strutture e competenze
tecniche (la tortura, linfiltrazione, la provocazione,
ecc.); ma con il dissolvimento dellesercito, del monopolio
della forza, la cui gestione, dall8 settembre
in poi, viene consensualmente delegata allinvasore vincente.
In questa torsione (continuità dello Stato e nuove
fetazioni nate a partire dal riconoscimento pratico dei limiti
esterni posti alla sovranità di questo Stato) le responsabilità
della DC rimangono insuperate. In un paese dalla borghesia
anemica, sempre ridotta allorizzonte imprenditoriale
e politico dellazienda di famiglia (per
quanto grande potesse diventare), è stato il partito
dei cattolici a traghettare lo Stato fascista nello Stato
repubblicano, impedendo non solo e non tanto lepurazione
dei dirigenti complici del fascismo, ma financo lelaborazione
di una cultura politica e giuridica da Stato
liberale, o Stato di diritto che dir si voglia. E lo
hanno fatto con la complicità neghittosa dei liberali
che si turavano il naso diffondendo la cultura
consolatoria e suicida del meno peggio; e con
la complicità, suicida e basta, di un Pci che a furia
di credere nella necessità di farsi Stato
non avendo però una teoria dello Stato che non
fosse quella che lo identifica nel monopolio della forza
si accontentava alla fine di farsi poliziotto
contro i movimenti prima, contro la sua stessa base sociale
ora.
Il crollo del socialismo reale ha infine svincolato
globalmente la classe operaia dalla responsabilità
di sentirsi emancipatrice degli oppressi; e la salvezza
del mondo non coincide più con lidea comunista.
Ma non per questo la classe operaia ne ha guadagnato uno statuto
e un ruolo costituente. Anzi: le conquiste acquisite
(salario, diritti, welfare) diventano un handicap competitivo
da rimuovere da parte dei capitali nazionali più arretrati
per tecnologie produttive e contenuto di prodotto. Caduto
il muro, ununica politica neoliberista ha polverizzato
e destrutturato le figure proletarie e piccolissimo-borghesi
(facendo avanzare infime ideologie di risulta, come le sbornie
per limmateriale, la partita Iva, la precarietà
come valore, la struttura a rete presuntamente
contrapposta ai vincoli gerarchici di potere, ecc.), costringendo
le istanze e gli interessi locali non-imperialisti (sul piano
planetario) a prendere forme ideologiche pre-capitalistiche
(religiose, per lo più, nei paesi arretrati; oppure
etico-alternative, in quelli del centro).
La globalizzazione a centralità Usa ha infine prodotto
il suo opposto: il movimento no global. Tempi
e modi della sua formazione culturale e ideologica
sono tuttora materia di discussioni serrate. Ma a Genova gli
si è brutalmente parato dinnanzi lo Stato deccezione
che sospende legalmente il diritto. Come a dire: scegliete
cosa essere, perché vi consideriamo come sempre
nemico interno.
In questo contesto ormai familiare, in questo mondo unipolare,
ogni opposizione o interesse divergente (locale) risulta avere
immediatamente conseguenze di carattere globale, mette in
dicussione la struttura dellordine costituito e viene
affrontata stante la formale divisione del pianeta
in Stati-nazione come guerra.
Si è visto che lo scadere della guerra a operazione
di polizia (e viceversa) ha implicato il venir meno
generale dei fondamenti dello Stato di diritto (se la guerra
è permanente e infinita, lo Stato che la conduce deve
assumere i connotati di uno Stato di guerra permanente);
ma viene contemporaneamente meno la legittimità (e
la legalità) dellopposizione interna a ogni paese
(è immediatamente intelligenza con il nemico
esterno).
Se lo stato di eccezione diventa giorno dopo giorno
la normalità del mondo, il laboratorio
Italia scopre di avere un ruolo rilevante sul piano
teoretico. Venti anni di legislazione demergenza
hanno reso senso comune la possibilità di manipolare
i codici senza alcun riguardo alla coerenza delle norme stesse
con lo Stato di diritto. La prassi repressiva
vista in azione a Genova è stata presentata come il
paradigma di gestione del conflitto sociale-politico del futuro,
ma in continuità diretta col dopoguerra. Le modificazioni
istituzionali, e la formazione di una classe dirigente
da Fini a DAlema, passando per Berlusconi programmaticamente
estranea alla pressione dei ceti sociali nazionali (con eccezioni
privatistiche, naturalmente), si inseguono qui
con unatroce leggerezza che altrove provocherebbe scontri
sociali sanguinosi e ultimativi.
Solo da questo laboratorio politico e ideologico poteva insomma
uscire la proposta Bonino di riforma dellOnu
da trasformare in un organismo a cui possono avere
accesso solo le democrazie. Solo qui, senza arrossire,
è infatti possibile presentare questa specie di piattaforma
istituzionale per lo scontro di civiltà come
un progresso.
Perché il mondo è ormai uno. E va verso la guerra
civile globale. Tanto per dirne una: Blair si trova davanti
il cadavere di un professore di Oxford, fedele e storico servitore
dello Stato britannico, e lo tratta come lultimo dei
cattolici repubblicani irlandesi. I Ds ingaggiano una nobile
gara di infamia con Alleanza Nazionale a chi mette per primo
le basi propagandistiche dellinserimento
di Cuba nella lista Usa dei prossimi attacchi per la
difesa dei diritti umani. Il tempo di andare in stampa
e, siamo certi, un numero impressionante di episodi come questi
si sarà aggiunto alla lista.
Il mondo è uno; la guerra è infinita; il nemico
interno siamo tutti noi, che non siamo lestablishment.
Rossanda
dal manifesto del 4 Luglio 1997
Conflitto di memoria
Nel libro di Bermani ritorna la polemica sulla Resistenza.
Quell'indubbio conflitto di classe ha potuto materializzarsi
dentro la seconda guerra mondiale. Ma la ricostruzione dell'autore
aiuta chi si batte contro ogni revisionismo
ROSSANA ROSSANDA
ALCUNE recenti vicende, dal tentativo del primo processo di
Priebke di mandarlo libero alla messa sotto accusa dei partigiani
di via Rasella da parte della procura romana, sembrano dar
ragione alla tesi dell'ultimo lavoro di Cesare Bermani: Il
nemico interno, guerra civile e lotte di classe in Italia
(1943 1976), uscito nelle edizioni Odradek (pp. 325, L. 30.000).
L'Italia, ci dicono quelle pagine appassionate, continua ben
oltre il 1945 a essere teatro di uno scontro tra fascismo
e antifascismo; anzi, questo è il suo connotato politico
essenziale e invano si tenta di oscurarlo. E non solo da destra.
Il filo di continuità che Bermani traccia, disegna
da una parte la vocazione fascista delle classe dirigenti,
rientrata ma non mutata dopo la seconda guerra mondiale, dall'altra
un blocco sociale di ispirazione proletaria e giovanile che
vi risponde sollevandosi, non appena esso tenta di passare
all'atto. E' una guerra civile appena mascherata: in mezzo
stanno le formazioni politiche, partito comunista e sindacato
inclusi che, senza essere assimilabili alla destra fascistizzante,
finiscono tuttavia sempre per reprimere le potenzialità
del movimento antifascista, temendo di essere sorpassate e
sopraffatte. Questa è la posta politica del dibattito
sulla Resistenza che si apre negli anni '60, e vede opporsi
il partito comunista alla storiografia resistenziale. La Resistenza
fu un atto di guerra degli italiani contro lo straniero invasore,
invece che un atto di guerra interna fra democratici e fascisti.
Inizio di un lungo scontro che esplode periodicamente in guerra
civile.Una guerra civile che viene da lontano. Non lo diceva
già Piero Calamadrei nel 1952: "Dicono gli immemori
che questa guerra civile di cui il 25 aprile 1945 segnò
la fine sia cominciata l'8 settembre del 1943. Non è
vero.... era cominciata assai prima nel 1920, quando lo squadrismo
fascista scatenò il terrore contro i lavoratori inermi,
quando gli agrari e gli industriali armarono le bande di incendiari
e assassini che misero a ferro e fuoco l'Italia"? E non
sottolineava due anni dopo: "Quella del 25 aprile non
fu soltanto vittoria contro gli invasori di fuori, fu vittoria
contro gli oppressori, gli invasori di dentro"?
Ma Calamandrei pensava che il 1945 vi avesse messo fine. Invece
no, e ben lo sapeva il Pci di allora. Non scriveva nel 1951
il settimanale comunista Emilia: "Ogni tentativo di fissare
per la Resistenza i limiti 1943-1945 non può essere
stato che formulato dai nemici della Liberazione"? E
ne spostava l'inizio al Risorgimento - '48, '60, Fasci siciliani,
fino alla prima guerra mondiale - vedeva la continuazione
dell'opposizione al fascismo e nel corso della seconda guerra,
e la prolungava fino alle contemporanee lotte alle Reggiane
e alla Breda. Storia nazionale, formazione dell'Italia, vicenda
di classe, antifascismo sono la stessa cosa e uguale il nemico
che periodicamente cerca di prendere il sopravvento. Ne testimonia
Fortini per il luglio del 1960: "Ora è venuto
il momento di scendere a qualunque costo in piazza e di affrontare
con ogni mezzo (anche con le armi se le avessimo avute) quello
che si configurava senza ombra di dubbio come un colpo fascista".
E ancora, non si tratta di questo nel 1962 a Milano, quando
una manifestazione in difesa di Cuba incontra le camionette
della polizia scatenate sui marciapiedi che spappolano contro
una saracinesca un ragazzo, Giovanni Ardizzone, alla cui memoria
Bermani dedica appunto il suo libro? Non sono questi i fatti
di piazza Statuto, non è questa la resistenza rossa
dal 1967/68 in avanti, che non a caso si muove aspramente
contro una resistenza "beatificata" anche dai conservatori?
Per tutti gli anni '70, le stesse figure ricompariranno negli
scontri sanguinosi tra lo stato con il volto della Legge reale
e l'antifascismo militante con i suoi morti.
Questo è il filo, tenacemente negato dai comunisti
del partito e del sindacato, soprattutto dal momento in cui
essi puntano al compromesso storico che avviene appunto sul
terreno della comune difesa dello stato e della santificazione
delle comuni istituzioni. In nome dell'unità nazionale
si compie allora il tentativo di influire sugli studi storici
della Resistenza, per ridurla a una guerra di liberazione
nazionale contro l'invasore tedesco, nella quale lo scontro
interno e di classe non hanno peso, quando pure non avrebbero
costituito un diversivo. La controversia si esplicita proprio
sulla domanda: fu una guerra civile o no? Il Pci, Pajetta
per primo, si schiera per il no. Soltanto Pietro Secchia continua,
sia pure in un linguaggio attento a non farsi smentire dalla
direzione, a far cenno al nuovo antifascismo giovanile, come
aveva fatto cenno a quello partigiano dei Moscatelli e dei
Frassati. Casus belli diventa più tardi il volume di
Claudio Pavone, che investe la dilemmatica morale di una guerra
che fu anche fratricida.Ma la linea del Pci, che per rilegittimarsi
come forza nazionale fa della resistenza un fatto esclusivamente
nazionale, quindi unitario, quindi dal punto di vista di classe
indeterminato, non è, a sua volta, alle spalle del
tentativo di riconciliazione che approderà all'indulgenza,
per l'operazione dal Msi a Fiuggi e le conseguenti ricerche
di "valori comuni" fra tutti i giovani di allora
e di adesso? Fra il riduzionismo di destra di De Felice e
la asepsi politica del Pds, la Resistenza viene mummificata.
Il libro di Bermani è appassionato e denso di testimonianza
dirette. Per lui, come già per Gianni Bosio, il popolo
si caratterizza socialmente - proletari, contadini, studenti
- ma non è fatto di gregari, bensì di individui
che convengono in una lotta, delineando storie personali,
di rifiuto all'integrazione, di sacrificio, di vendetta, rivolte
di ordine morale, per lo più destinate a fungere da
concime per la storia che, certo, dopo di loro cambia ma li
affoga in una riscrittura impoverita. La Resistenza è
tradita, come sarà abbandonata e tradita la generazione
degli anni '60 che ne riscopre l'integrità. E della
quale Bermani fa parte, anche lui fra i figli cui non è
stata tramandata una vera memoria, ma sono costretti a ritrovarla
sotto una lunga banalizzazione.E come tale il suo lavoro è
di grande interesse, ma forse più per quello che potremmo
chiamare l'uso simbolico della Resistenza al fascismo che
per darci una persuasiva interpretazione storica. Due mi sembra
siano i limiti della sua impostazione. Il primo sta nella
identificazione fra conflitto di classe e scontro fra apparati
repressivi dello stato e avanguardie di popolo, spontanea,
che si erge a fargli da diga. E' una scena semplificata fra
soggetti tendenzialmente invariati, costruita su immagine
dello scontro fisico di piazza, mentre il conflitto sociale
produce un potente rimodellarsi dei suoi soggetti, riformulando
di continuo sia i modi del capitale sia le figure del lavoro,
sia le forme delle loro intermediazioni istituzionali. E infatti
le moderne classi dominanti, tentate dal fascismo, non riescono
a trovare in esso che uno stato di precarietà, e il
blocco anticapitalistico sta sempre assieme, più in
qua e in più in là dell'antifascismo.
Non si intenderebbe sennò, perché delle grandi
potenze capitalistiche, e non solo l'Unione sovietica, si
batterono a un certo punto contro la Germania in una lotta
mortale - a meno di credere con Bordiga che si sia trattato
di un mero scontro per la supremazia all'interno dello stesso
sistema. Ne si intende perché il capitale italiano,
sviluppatosi con il fascismo negli anni '30, prenda nel dopoguerra
una strada diversa, anticomunista sì, fascista no;
e su questa base avviene la grande crescita del paese. Perché
fascista no? E' una domanda che occorre farsi, specie quando
si cita Gramsci, così come i moderati anticomunisti
dovrebbero chiedersi il perché della deriva non fascista
ma autoritaria che la mondializzazione porta con sé.Ugualmente,
bisogna chiedersi perché, se negli anni '50 e '60 e
'70 la lotta di classe è assai più evidente
del binomio fascismo e antifascismo, e coinvolge soggetti
amplissimi e acculturati, questi non sono in grado di esercitare
un'egemonia durevole? Leonardo Paggi risponderebbe che le
ragioni stanno nella nuova funzione del consumo. Certo, è
una vicenda ricorrente del proletariato occidentale, incapace
di essere davvero "classe generale", ma quindi anche
impensabile come un corpo integro e dormiente che ogni tanto
si ridesta per poi perdere. Negli anni '60 e '70 abbiamo un
po' tutti sacrificato questa idea, che lascia senza risposta
il perché della così scarsa durata, e poi del
così precipitoso ribaltamento della più grande
rivolta giovanile antisistema, come quella che nel 1968 abbiamo
conosciuto.
Seconda obiezione: Bermani insiste sulla natura della Resistenza
come movimento spontaneo di popolo, operai e studenti che
salgono da soli in montagna. Ma non è stato così.
Chi ricorda l'estate del 1943 e l'8 settembre sa bene come
il crollo del regime e il disorientamento, il bisogno di fare,
incontra delle strutture politiche e deboli ma tenaci come
Giustizia e libertà, una presenza socialista, un'ala
cattolica, perfino un frammento monarchico combattente e soprattutto
i comunisti. I quali vengono dal passato ma si formano nel
presente, e quelli che si formano non sono spediti da Mosca,
sono la radice del "partito nuovo", nel quale affogherà
ogni tentativo di perdurare anche come setta cospirativa.
Non per la sola opposizione tatticistica di Togliatti; il
recente libro di Maurizio Caprara sui rivoluzionari in servizio
permanente effettivo ("Lavoro riservato", Feltrinelli,
1997) indica il limite addirittura catastrofico dei seguaci
o degli amici di Secchia o Seniga. Neanche la crisi dell'unità
antifascista cancella l'esperienza effettiva del 1943/45 che
costituirà la differenza fra Pci e Pcf e sarà
la base dell'egemonia del primo, almeno finché durerà
la transizione postbellica e il fordismo ordinerà la
produzione.
Infine, la tenacia con la quale Bermani tiene fermo che si
è trattato anche di una guerra civile, e ha ragione,
lo induce spesso a sottovalutare il quadro della seconda guerra
mondiale, in cui soltanto essa riesce ad esplodere. Nell'estate
del 1943, all'8 settembre e nella formazione della repubblica
di Salò, per nessuno che avesse allora vent'anni si
pose la questione se il nemico principale fossero i fascisti
o i tedeschi, e se stessimo facendo una guerra civile o contro
lo straniero. I tedeschi non erano soldati di un altro paese,
erano nazisti, il Terzo reicht non era uno stato che tentasse
solo di annettersi delle terre, proponeva il suo come ordine
mondiale. I repubblichini non erano l'esercito italiano, erano
una coda dei tedeschi. Se fu un dilemma battersi per la sconfitta
del proprio paese, non lo fu certo il battersi contro le milizie
di Salò. La Rsi, non fu e non ci apparve come pensano
De Felice, Violante e paradossalmente sembra pensare anche
Bermani, un governo e un esercito temuti come tali; fu una
velleità funesta e risibile, in sott'ordine e crudele.
Per le strade, alle stazioni, nei giornali, vedevamo Kesserling,
la Wermacht, le Ss e le loro ronde, i loro profili, che comandavano,
arrestavano, deportavano. Loro erano il nemico, gli altri
erano i servi. E ancora del nazismo non sapevamo tutto. Sorprende
la mia memoria la battuta, che Bermani apprezza, dell'ufficiale
italiano che racconta come non esitasse a fucilare un fascista
ma avrebbe rispettato come prigioniero un tedesco, perché
soltanto una guerra civile merita di essere fatta. Rispettare
il nazista, quello che faceva la guardia ai mucchi dei nostri
compagni fucilati per terra. Mi domando che cosa abbiamo trasmesso
come memoria. Nuto Revelli, nel suo "Il disperso di Marburgh",
dice quello che i tedeschi furono per noi, quel che fu quella
guerra. Credo che raramente un conflitto si sia presentato
con caratteri politico-ideologici così evidenti.Per
timore di cadere in un resistenzialismo patriottardo, Bermani
ingigantisce infine Salò e diminuisce la vendetta:
fu, scrive, meno pesante che in Francia. Mi domando se in
questi casi le cifre contano. Certo, in Francia la vendetta
servì a un operazione che da noi, per decenza, allora
non fu nemmeno tentata, quella di considerare il petainismo
come un'esperienza secondaria, una parentesi estranea alla
storia del paese, come sostenne fino in fondo Mitterrand.
Solo in questi anni la Francia fa i conti con con se stessa,
e quasi soltanto per la persecuzione antisemita. Da noi quei
conti non si ch
iudono, pesano come una debolezza identitaria. In 20 anni
un regime totalitario crea, più che un consenso, una
massa sterminata di quelli che Primo Levi chiama i "grigi",
i trascinati dalle cose; per cui la Resistenza fu minoritaria
ma non in un paese maggioritariamente fascista, come pensa
De Felice. Una gran parte della nostra società è
stata e resta in bilico, opportunista anche perché
espropriata. Questo bisogna capire per capire l'oggi.
Resta valida del discorso di Bermani la polemica contro il
riduzionismo comunista. Fu un disegno negli anni '70? Lo è
adesso? Sicuramente lo fu allora, anche se i comunisti occidentali
cercavano, oltre che una legittimazione politica, una meno
rimproverabile specificità rispetto all'Internazionale
prima e all'Urss poi, e non a torto. Non so se sia un disegno
adesso. Penso all'ostinazione con la quale un uomo come Violante
che non visse quella stagione, cerca di mettere di fronte,
i soggeti che si affrontarono fra il 1943 e il 1945 come due
sia pure opposti ideali, e al fatto che un uomo di Almirante
sia diventato in pochi anni uno dei principali costituenti.
Ma qui conta soprattutto l'89, l'introiezione da parte dei
comunisti della tesi di Fukuyama sulla fine della storia,
che fa del loro passato un mero errore. Dopo la crisi dell'Urss
essi vivono come finite le loro ragioni e, con esse, il loro
nemico storico, il fascismo. Ma come dimenticare che in questo
sono stati preceduti da insospettabili antifascisti che Bermani
chiama a testimoni, come Norberto Bobbio e Vittorio Foa?
|