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Cesare Bermani
IL NEMICO INTERNO
Guerra civile e lotta di classe in italia (1943 - 1976)

1997-2003

pp. XXVI-349 € 17,00

II EDIZIONE Riveduta e ampliata

 

ESAURITO

 

 

Un libro di consultazione, un breviario, un lungo racconto che intercetta il nesso più profondo e occultato della nostra storia: la guerra civile. Con una sua multimedialità, che integra riferimenti bibliografici e documenti d’archivio, con statistiche, discorsi, articoli, slogan, testimonianze orali trascritte da nastro. Cesare Bermani, grande storico contemporaneo, ripercorre gli ultimi cinquant’anni armato di un suo ideale microfono per intervistare la storia, per individuare il momento in cui cronache e vicende personali diventano storia. Questo libro, allora, è uno strumento unico per raccontare ai giovani quei fatti che i padri hanno appena cercato di dimenticare. Non esiste una ricostruzione storica consolidata rispetto a quegli anni, ma questo libro ha posto le condizioni per la costituzione della base documentaria.
Cinque saggi distinti connessi dallo stesso filo tematico, quello di una continua guerra civile, aperta o strisciante.
Le storie della Resistenza vengono analizzate per evidenziare come la categoria di “guerra civile” divenne un tabù solo con l’avvento del centrosinistra e la retorica della “pacificazione”, venendo fatta propria dai fascisti in chiave anticomunista.
Dopo la guerra di liberazione apre un discorso sulle forze armate parallele ai partiti fino al ’48, e tira il bilancio delle vittime dell’“epurazione selvaggia” del dopoguerra, reazione alla mancata epurazione legale dei criminali fascisti.
L’antifascismo del luglio’60, è una cronaca puntuale delle agitazioni di piazza che cacciarono Tambroni e individua i primi segni dello scollamento tra movimento popolare spontaneo e strategia del Pci.
Novara, Estate 1969: capelloni contro militari, ritrova nella “sana” provincia il combinato disposto della repressione più infame a carico delle più innocue insorgenze culturali giovanili.
La "democrazia reale" analizza il rafforzamento in senso antidemocratico delle forze di polizia dal ’46 in poi, dentro a un processo involutivo che ha il suo culmine nella accettazione della “legge Reale” anche da parte del Pci che, ponendo termine al suo ruolo di mediazione, lascia non rappresentato ciò che non si è lasciato assorbire, liberando così forme tra le più virulente di guerra civile.

Cesare Bermani (Novara, 1937), dell’Istituto Ernesto de Martino, promotore de il nuovo Canzoniere italiano e direttore di Primo Maggio, è stato il curatore dei più importanti scritti di Gianni Bosio. Tra i primi a utilizzare criticamente le fonti orali ai fini della comprensione di passato e presente, per Odradek dirige la Collana verde di Storia orale, storia dal basso. Tra le sue molte pubblicazioni: Gramsci raccontato (Edizioni Associate, Roma 1987); Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, III voll. (Vercelli, 1971-1999); Mito e storia della Volante Rossa (Milano, 1996). Con Odradek ha pubblicato: Spegni la luce che passa Pippo”. Voci, leggende e miti della storia contemporanea (Roma, 1996); Introduzione alla storia orale, 2 voll. (2000-2001);“Guerra guerra ai palazzi e alle chiese... ”. Saggi sul canto sociale (Roma, 2003).

 

Nota editoriale di Odradek alla II edizione

Il nemico interno cresce. Le analisi che siamo venuti facendo*, a partire dalla prima edizione di questo libro pubblicato nel 1997, corroborano un quadro in cui la guerra civile, lungi dal costituire un’anomalia da riassorbire, diventa una consapevole politica di squilibrio creato ad arte, dovunque. Uno stato d’eccezione “normale” perseguito attaccando tutte le forme di convivenza, azzerando la tolleranza, impedendo la ritualizzazione dei conflitti e, quindi, rendendo impossibile ogni loro futura soluzione. Una via che promette di estendere a tutto il pianeta il “modello di relazioni” tra israeliani e palestinesi, o tra turchi e curdi; ovvero, nel migliore dei casi, il tasso di convivenza civile in vigore in buona parte dell’Africa.
Tra le “democrazie”, solo in Italia si è però data una guerra civile perenne, sempre irrisolta. Qui gli eserciti vi scorrono suscitando complicità durature e trovano più comodo sussumere la macchina statale, le sue strutture, i suoi funzionari, asservendoli. Una macchina statale autonomizzata che – complice una borghesia miserevole sotto ogni punto di vista – ha impedito attivamente nel tempo che lo Stato si configurasse secondo almeno uno dei due modelli a disposizione: 1. il modello europeo (franco-tedesco-scandinavo), in cui la classe operaia è assorbita e riconosciuta nella forma costituente del “patto tra i produttori” e, 2. il modello anglosassone, in cui il patto costituente vincola solo le “classi proprietarie”. Nella variante britannica (ante-Thatcher e Blair) il sindacato dà vita al suo partito, la classe ha diritto a una sua quota alta di riconoscimento e di welfare. Il partito laburista – una volta riconosciuto il patto costituente che esclude la classe, che pure rappresenta e da cui è finanziato – è legittimato a governare il paese. Nella variante yankee, invece, le rappresentanze della classe sono state stroncate militarmente, e il sindacato è ridotto a co-gestore subordinato nelle singole aziende, non è soggetto politico.
La storia dell’occidente nel secondo dopoguerra aveva messo la sordina a questo tipo di differenze. I “nemici interni” erano ovunque solo i comunisti (il soggetto politico), non sempre la classe operaia (il soggetto sociale), a meno che non si identificasse in loro. La razionalizzazione degli interessi di classe in un’ideologia contrapposta al capitale (che è poi stata la forza vera dell’Urss come catalizzatore delle opposizioni mondiali) e in un progetto politico di trasformazione sociale, dava insomma forma compiuta anche al conflitto sociale.
L’Italia è l’unico paese (tra le democrazie, con interessanti similitudini nella Grecia e la Spagna delle dittature) in cui la classe operaia è vista, in quanto tale, come “nemico interno”, operando un’identificazione pressoché piena tra soggetto politico e soggetto sociale. Il tutto propiziato e agevolato dalla continuità dell’apparato statale fascista e del suo codice penale, trionfalmente transitati, come ben documenta Bermani, nell’Italia “repubblicana”. Continuità di apparato, archivi, strutture e competenze tecniche (la tortura, l’infiltrazione, la provocazione, ecc.); ma con il dissolvimento dell’esercito, del “monopolio della forza”, la cui gestione, dall’8 settembre in poi, viene consensualmente delegata all’invasore vincente.
In questa torsione (continuità dello Stato e nuove fetazioni nate a partire dal riconoscimento pratico dei limiti esterni posti alla sovranità di questo Stato) le responsabilità della DC rimangono insuperate. In un paese dalla borghesia anemica, sempre ridotta all’orizzonte imprenditoriale e politico dell’“azienda di famiglia” (per quanto grande potesse diventare), è stato il partito dei cattolici a traghettare lo Stato fascista nello “Stato repubblicano”, impedendo non solo e non tanto l’epurazione dei dirigenti complici del fascismo, ma financo l’elaborazione di una cultura – politica e giuridica – da “Stato liberale”, o Stato di diritto che dir si voglia. E lo hanno fatto con la complicità neghittosa dei liberali che “si turavano il naso” diffondendo la cultura consolatoria e suicida del “meno peggio”; e con la complicità, suicida e basta, di un Pci che a furia di credere nella necessità di “farsi Stato” – non avendo però una teoria dello Stato che non fosse quella che lo identifica nel “monopolio della forza” – si accontentava alla fine di “farsi poliziotto” contro i movimenti prima, contro la sua stessa base sociale ora.
Il crollo del “socialismo reale” ha infine svincolato globalmente la classe operaia dalla responsabilità di sentirsi emancipatrice degli oppressi; e la “salvezza del mondo” non coincide più con l’idea comunista. Ma non per questo la classe operaia ne ha guadagnato uno statuto e un ruolo “costituente”. Anzi: le conquiste acquisite (salario, diritti, welfare) diventano un “handicap competitivo” da rimuovere da parte dei capitali nazionali più arretrati per tecnologie produttive e contenuto di prodotto. Caduto il muro, un’unica politica neoliberista ha polverizzato e destrutturato le figure “proletarie” e piccolissimo-borghesi (facendo avanzare infime ideologie di risulta, come le sbornie per l’immateriale, la partita Iva, la precarietà come “valore”, la struttura “a rete” presuntamente contrapposta ai vincoli gerarchici di potere, ecc.), costringendo le istanze e gli interessi locali non-imperialisti (sul piano planetario) a prendere forme ideologiche pre-capitalistiche (religiose, per lo più, nei paesi arretrati; oppure etico-alternative, in quelli del centro).
La globalizzazione a centralità Usa ha infine prodotto il suo opposto: il movimento “no global”. Tempi e modi della sua formazione culturale e “ideologica” sono tuttora materia di discussioni serrate. Ma a Genova gli si è brutalmente parato dinnanzi lo “Stato d’eccezione” che sospende legalmente il diritto. Come a dire: scegliete cosa essere, perché vi consideriamo – come sempre – “nemico interno”.
In questo contesto ormai familiare, in questo mondo unipolare, ogni opposizione o interesse divergente (locale) risulta avere immediatamente conseguenze di carattere globale, mette in dicussione la struttura dell’ordine costituito e viene affrontata – stante la formale divisione del pianeta in “Stati-nazione – come “guerra”.
Si è visto che lo scadere della guerra a “operazione di polizia” (e viceversa) ha implicato il venir meno generale dei fondamenti dello Stato di diritto (se la guerra è permanente e infinita, lo Stato che la conduce “deve” assumere i connotati di uno “Stato di guerra permanente”); ma viene contemporaneamente meno la legittimità (e la legalità) dell’opposizione interna a ogni paese (è immediatamente “intelligenza” con il “nemico esterno”).
Se lo “stato di eccezione” diventa giorno dopo giorno la “normalità” del mondo, il “laboratorio Italia” scopre di avere un ruolo rilevante sul piano teoretico. Venti anni di “legislazione d’emergenza” hanno reso senso comune la possibilità di manipolare i codici senza alcun riguardo alla coerenza delle norme stesse con lo “Stato di diritto”. La prassi repressiva vista in azione a Genova è stata presentata come il paradigma di gestione del conflitto sociale-politico del futuro, ma in continuità diretta col dopoguerra. Le modificazioni istituzionali, e la formazione di una classe dirigente – da Fini a D’Alema, passando per Berlusconi – programmaticamente estranea alla pressione dei ceti sociali nazionali (con eccezioni “privatistiche”, naturalmente), si inseguono qui con un’atroce leggerezza che altrove provocherebbe scontri sociali sanguinosi e ultimativi.
Solo da questo laboratorio politico e ideologico poteva insomma uscire la “proposta Bonino” di riforma dell’Onu – da trasformare in un organismo a cui possono avere accesso solo le “democrazie”. Solo qui, senza arrossire, è infatti possibile presentare questa specie di “piattaforma istituzionale per lo scontro di civiltà” come un “progresso”.
Perché il mondo è ormai uno. E va verso la guerra civile globale. Tanto per dirne una: Blair si trova davanti il cadavere di un professore di Oxford, fedele e storico servitore dello Stato britannico, e lo tratta come l’ultimo dei cattolici repubblicani irlandesi. I Ds ingaggiano una “nobile” gara di infamia con Alleanza Nazionale a chi mette per primo le “basi propagandistiche” dell’inserimento di Cuba nella lista Usa dei prossimi attacchi “per la difesa dei diritti umani”. Il tempo di andare in stampa e, siamo certi, un numero impressionante di episodi come questi si sarà aggiunto alla lista.
Il mondo è uno; la guerra è infinita; il “nemico interno” siamo tutti noi, che non siamo l’establishment.

 

Rossanda dal manifesto del 4 Luglio 1997

Conflitto di memoria
Nel libro di Bermani ritorna la polemica sulla Resistenza. Quell'indubbio conflitto di classe ha potuto materializzarsi dentro la seconda guerra mondiale. Ma la ricostruzione dell'autore aiuta chi si batte contro ogni revisionismo


ROSSANA ROSSANDA
ALCUNE recenti vicende, dal tentativo del primo processo di Priebke di mandarlo libero alla messa sotto accusa dei partigiani di via Rasella da parte della procura romana, sembrano dar ragione alla tesi dell'ultimo lavoro di Cesare Bermani: Il nemico interno, guerra civile e lotte di classe in Italia (1943 1976), uscito nelle edizioni Odradek (pp. 325, L. 30.000). L'Italia, ci dicono quelle pagine appassionate, continua ben oltre il 1945 a essere teatro di uno scontro tra fascismo e antifascismo; anzi, questo è il suo connotato politico essenziale e invano si tenta di oscurarlo. E non solo da destra.
Il filo di continuità che Bermani traccia, disegna da una parte la vocazione fascista delle classe dirigenti, rientrata ma non mutata dopo la seconda guerra mondiale, dall'altra un blocco sociale di ispirazione proletaria e giovanile che vi risponde sollevandosi, non appena esso tenta di passare all'atto. E' una guerra civile appena mascherata: in mezzo stanno le formazioni politiche, partito comunista e sindacato inclusi che, senza essere assimilabili alla destra fascistizzante, finiscono tuttavia sempre per reprimere le potenzialità del movimento antifascista, temendo di essere sorpassate e sopraffatte. Questa è la posta politica del dibattito sulla Resistenza che si apre negli anni '60, e vede opporsi il partito comunista alla storiografia resistenziale. La Resistenza fu un atto di guerra degli italiani contro lo straniero invasore, invece che un atto di guerra interna fra democratici e fascisti. Inizio di un lungo scontro che esplode periodicamente in guerra civile.Una guerra civile che viene da lontano. Non lo diceva già Piero Calamadrei nel 1952: "Dicono gli immemori che questa guerra civile di cui il 25 aprile 1945 segnò la fine sia cominciata l'8 settembre del 1943. Non è vero.... era cominciata assai prima nel 1920, quando lo squadrismo fascista scatenò il terrore contro i lavoratori inermi, quando gli agrari e gli industriali armarono le bande di incendiari e assassini che misero a ferro e fuoco l'Italia"? E non sottolineava due anni dopo: "Quella del 25 aprile non fu soltanto vittoria contro gli invasori di fuori, fu vittoria contro gli oppressori, gli invasori di dentro"?
Ma Calamandrei pensava che il 1945 vi avesse messo fine. Invece no, e ben lo sapeva il Pci di allora. Non scriveva nel 1951 il settimanale comunista Emilia: "Ogni tentativo di fissare per la Resistenza i limiti 1943-1945 non può essere stato che formulato dai nemici della Liberazione"? E ne spostava l'inizio al Risorgimento - '48, '60, Fasci siciliani, fino alla prima guerra mondiale - vedeva la continuazione dell'opposizione al fascismo e nel corso della seconda guerra, e la prolungava fino alle contemporanee lotte alle Reggiane e alla Breda. Storia nazionale, formazione dell'Italia, vicenda di classe, antifascismo sono la stessa cosa e uguale il nemico che periodicamente cerca di prendere il sopravvento. Ne testimonia Fortini per il luglio del 1960: "Ora è venuto il momento di scendere a qualunque costo in piazza e di affrontare con ogni mezzo (anche con le armi se le avessimo avute) quello che si configurava senza ombra di dubbio come un colpo fascista". E ancora, non si tratta di questo nel 1962 a Milano, quando una manifestazione in difesa di Cuba incontra le camionette della polizia scatenate sui marciapiedi che spappolano contro una saracinesca un ragazzo, Giovanni Ardizzone, alla cui memoria Bermani dedica appunto il suo libro? Non sono questi i fatti di piazza Statuto, non è questa la resistenza rossa dal 1967/68 in avanti, che non a caso si muove aspramente contro una resistenza "beatificata" anche dai conservatori? Per tutti gli anni '70, le stesse figure ricompariranno negli scontri sanguinosi tra lo stato con il volto della Legge reale e l'antifascismo militante con i suoi morti.
Questo è il filo, tenacemente negato dai comunisti del partito e del sindacato, soprattutto dal momento in cui essi puntano al compromesso storico che avviene appunto sul terreno della comune difesa dello stato e della santificazione delle comuni istituzioni. In nome dell'unità nazionale si compie allora il tentativo di influire sugli studi storici della Resistenza, per ridurla a una guerra di liberazione nazionale contro l'invasore tedesco, nella quale lo scontro interno e di classe non hanno peso, quando pure non avrebbero costituito un diversivo. La controversia si esplicita proprio sulla domanda: fu una guerra civile o no? Il Pci, Pajetta per primo, si schiera per il no. Soltanto Pietro Secchia continua, sia pure in un linguaggio attento a non farsi smentire dalla direzione, a far cenno al nuovo antifascismo giovanile, come aveva fatto cenno a quello partigiano dei Moscatelli e dei Frassati. Casus belli diventa più tardi il volume di Claudio Pavone, che investe la dilemmatica morale di una guerra che fu anche fratricida.Ma la linea del Pci, che per rilegittimarsi come forza nazionale fa della resistenza un fatto esclusivamente nazionale, quindi unitario, quindi dal punto di vista di classe indeterminato, non è, a sua volta, alle spalle del tentativo di riconciliazione che approderà all'indulgenza, per l'operazione dal Msi a Fiuggi e le conseguenti ricerche di "valori comuni" fra tutti i giovani di allora e di adesso? Fra il riduzionismo di destra di De Felice e la asepsi politica del Pds, la Resistenza viene mummificata.
Il libro di Bermani è appassionato e denso di testimonianza dirette. Per lui, come già per Gianni Bosio, il popolo si caratterizza socialmente - proletari, contadini, studenti - ma non è fatto di gregari, bensì di individui che convengono in una lotta, delineando storie personali, di rifiuto all'integrazione, di sacrificio, di vendetta, rivolte di ordine morale, per lo più destinate a fungere da concime per la storia che, certo, dopo di loro cambia ma li affoga in una riscrittura impoverita. La Resistenza è tradita, come sarà abbandonata e tradita la generazione degli anni '60 che ne riscopre l'integrità. E della quale Bermani fa parte, anche lui fra i figli cui non è stata tramandata una vera memoria, ma sono costretti a ritrovarla sotto una lunga banalizzazione.E come tale il suo lavoro è di grande interesse, ma forse più per quello che potremmo chiamare l'uso simbolico della Resistenza al fascismo che per darci una persuasiva interpretazione storica. Due mi sembra siano i limiti della sua impostazione. Il primo sta nella identificazione fra conflitto di classe e scontro fra apparati repressivi dello stato e avanguardie di popolo, spontanea, che si erge a fargli da diga. E' una scena semplificata fra soggetti tendenzialmente invariati, costruita su immagine dello scontro fisico di piazza, mentre il conflitto sociale produce un potente rimodellarsi dei suoi soggetti, riformulando di continuo sia i modi del capitale sia le figure del lavoro, sia le forme delle loro intermediazioni istituzionali. E infatti le moderne classi dominanti, tentate dal fascismo, non riescono a trovare in esso che uno stato di precarietà, e il blocco anticapitalistico sta sempre assieme, più in qua e in più in là dell'antifascismo.
Non si intenderebbe sennò, perché delle grandi potenze capitalistiche, e non solo l'Unione sovietica, si batterono a un certo punto contro la Germania in una lotta mortale - a meno di credere con Bordiga che si sia trattato di un mero scontro per la supremazia all'interno dello stesso sistema. Ne si intende perché il capitale italiano, sviluppatosi con il fascismo negli anni '30, prenda nel dopoguerra una strada diversa, anticomunista sì, fascista no; e su questa base avviene la grande crescita del paese. Perché fascista no? E' una domanda che occorre farsi, specie quando si cita Gramsci, così come i moderati anticomunisti dovrebbero chiedersi il perché della deriva non fascista ma autoritaria che la mondializzazione porta con sé.Ugualmente, bisogna chiedersi perché, se negli anni '50 e '60 e '70 la lotta di classe è assai più evidente del binomio fascismo e antifascismo, e coinvolge soggetti amplissimi e acculturati, questi non sono in grado di esercitare un'egemonia durevole? Leonardo Paggi risponderebbe che le ragioni stanno nella nuova funzione del consumo. Certo, è una vicenda ricorrente del proletariato occidentale, incapace di essere davvero "classe generale", ma quindi anche impensabile come un corpo integro e dormiente che ogni tanto si ridesta per poi perdere. Negli anni '60 e '70 abbiamo un po' tutti sacrificato questa idea, che lascia senza risposta il perché della così scarsa durata, e poi del così precipitoso ribaltamento della più grande rivolta giovanile antisistema, come quella che nel 1968 abbiamo conosciuto.
Seconda obiezione: Bermani insiste sulla natura della Resistenza come movimento spontaneo di popolo, operai e studenti che salgono da soli in montagna. Ma non è stato così. Chi ricorda l'estate del 1943 e l'8 settembre sa bene come il crollo del regime e il disorientamento, il bisogno di fare, incontra delle strutture politiche e deboli ma tenaci come Giustizia e libertà, una presenza socialista, un'ala cattolica, perfino un frammento monarchico combattente e soprattutto i comunisti. I quali vengono dal passato ma si formano nel presente, e quelli che si formano non sono spediti da Mosca, sono la radice del "partito nuovo", nel quale affogherà ogni tentativo di perdurare anche come setta cospirativa. Non per la sola opposizione tatticistica di Togliatti; il recente libro di Maurizio Caprara sui rivoluzionari in servizio permanente effettivo ("Lavoro riservato", Feltrinelli, 1997) indica il limite addirittura catastrofico dei seguaci o degli amici di Secchia o Seniga. Neanche la crisi dell'unità antifascista cancella l'esperienza effettiva del 1943/45 che costituirà la differenza fra Pci e Pcf e sarà la base dell'egemonia del primo, almeno finché durerà la transizione postbellica e il fordismo ordinerà la produzione.
Infine, la tenacia con la quale Bermani tiene fermo che si è trattato anche di una guerra civile, e ha ragione, lo induce spesso a sottovalutare il quadro della seconda guerra mondiale, in cui soltanto essa riesce ad esplodere. Nell'estate del 1943, all'8 settembre e nella formazione della repubblica di Salò, per nessuno che avesse allora vent'anni si pose la questione se il nemico principale fossero i fascisti o i tedeschi, e se stessimo facendo una guerra civile o contro lo straniero. I tedeschi non erano soldati di un altro paese, erano nazisti, il Terzo reicht non era uno stato che tentasse solo di annettersi delle terre, proponeva il suo come ordine mondiale. I repubblichini non erano l'esercito italiano, erano una coda dei tedeschi. Se fu un dilemma battersi per la sconfitta del proprio paese, non lo fu certo il battersi contro le milizie di Salò. La Rsi, non fu e non ci apparve come pensano De Felice, Violante e paradossalmente sembra pensare anche Bermani, un governo e un esercito temuti come tali; fu una velleità funesta e risibile, in sott'ordine e crudele. Per le strade, alle stazioni, nei giornali, vedevamo Kesserling, la Wermacht, le Ss e le loro ronde, i loro profili, che comandavano, arrestavano, deportavano. Loro erano il nemico, gli altri erano i servi. E ancora del nazismo non sapevamo tutto. Sorprende la mia memoria la battuta, che Bermani apprezza, dell'ufficiale italiano che racconta come non esitasse a fucilare un fascista ma avrebbe rispettato come prigioniero un tedesco, perché soltanto una guerra civile merita di essere fatta. Rispettare il nazista, quello che faceva la guardia ai mucchi dei nostri compagni fucilati per terra. Mi domando che cosa abbiamo trasmesso come memoria. Nuto Revelli, nel suo "Il disperso di Marburgh", dice quello che i tedeschi furono per noi, quel che fu quella guerra. Credo che raramente un conflitto si sia presentato con caratteri politico-ideologici così evidenti.Per timore di cadere in un resistenzialismo patriottardo, Bermani ingigantisce infine Salò e diminuisce la vendetta: fu, scrive, meno pesante che in Francia. Mi domando se in questi casi le cifre contano. Certo, in Francia la vendetta servì a un operazione che da noi, per decenza, allora non fu nemmeno tentata, quella di considerare il petainismo come un'esperienza secondaria, una parentesi estranea alla storia del paese, come sostenne fino in fondo Mitterrand. Solo in questi anni la Francia fa i conti con con se stessa, e quasi soltanto per la persecuzione antisemita. Da noi quei conti non si ch
iudono, pesano come una debolezza identitaria. In 20 anni un regime totalitario crea, più che un consenso, una massa sterminata di quelli che Primo Levi chiama i "grigi", i trascinati dalle cose; per cui la Resistenza fu minoritaria ma non in un paese maggioritariamente fascista, come pensa De Felice. Una gran parte della nostra società è stata e resta in bilico, opportunista anche perché espropriata. Questo bisogna capire per capire l'oggi.
Resta valida del discorso di Bermani la polemica contro il riduzionismo comunista. Fu un disegno negli anni '70? Lo è adesso? Sicuramente lo fu allora, anche se i comunisti occidentali cercavano, oltre che una legittimazione politica, una meno rimproverabile specificità rispetto all'Internazionale prima e all'Urss poi, e non a torto. Non so se sia un disegno adesso. Penso all'ostinazione con la quale un uomo come Violante che non visse quella stagione, cerca di mettere di fronte, i soggeti che si affrontarono fra il 1943 e il 1945 come due sia pure opposti ideali, e al fatto che un uomo di Almirante sia diventato in pochi anni uno dei principali costituenti. Ma qui conta soprattutto l'89, l'introiezione da parte dei comunisti della tesi di Fukuyama sulla fine della storia, che fa del loro passato un mero errore. Dopo la crisi dell'Urss essi vivono come finite le loro ragioni e, con esse, il loro nemico storico, il fascismo. Ma come dimenticare che in questo sono stati preceduti da insospettabili antifascisti che Bermani chiama a testimoni, come Norberto Bobbio e Vittorio Foa?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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