Si
fa presto a dire Almanacco...
Un almanacco è un almanacco, un almanacco, un
almanacco
Come le rose, una volta allanno.
I curatori, nelle pagine di presentazione, espongono
ogni volta i motivi della loro cura. Qui vogliamo
spiegare perché un piccolo editore
si fa il suo Almanacco.
Non è per delirio di potenza o per incontinente
narcisismo, ma più semplicemente perché
i grandi editori non ci sono più,
e i grossi editori che hanno preso il loro
posto, un almanacco non se lo possono permettere. E
non è questione di soldi, con ogni evidenza.
Hanno nutrite scuderie, anche internazionali, ma non
hanno progetti da esibire, né unidea forte
intorno alla quale riunire penne e pennini. Troppe le
primedonne, e tanti i veti incrociati. E poi il mercato
non vuole profili rilevati e stabili. Ma solo la presenza
invasiva del logo.
Il mercato, si sa, non vuole ideologie, figuriamoci
unidea; preferisce le tante emergenze che si accavallano
e sgomitano nei generi. [e speriamo che non inizi il
genere degli almanacchi]
Il mercato è una lunga enumerazione che non si
arresta mai. Ogni tanto viene attraversato da una OLA,
aspettando la prossima.
Non sono quindi la tosse della pulce questi Almanacchi,
ma landare a riempire un vuoto: tra il Cavaliere
azzurro e Frate indovino.
Perché un Almanacco è unistanza,
è un proporsi proponendo, è una determinazione,
insomma è una cosa e non unaltra cosa.
È questa cosa qui. Una scelta.
Nella ipotesi più debole e meno consapevole,
una volta, lalmanacco dei grandi editori era mostrare
la propria scuderia: identità e appartenenza,
storia e percorso editoriale.
Adesso basta un catalogo, o meglio ancora quelle asfissianti
brochures a cadenza mensile gestite dai grafici.
Solo istanze editoriali prese piccole a piacere, come
Odradek, se lo possono permettere.
Ebbene sì, non ce lo siamo voluto negare un discorso
radicale, di quelli prendere o lasciare.
Nulla di prescrittivo, per carità! Di qui al
manifesto ce ne corre, ma il gusto di affermare
una cosa e non unaltra cosa ce lo siamo tolto.
Non
puoi fare una cosa che subito te la copiano! È
un fiorire di Almanacchi, da queste parti, ragazzi!
Perfino un quotidiano di gran tiratura se ne è
munito! Tanto che verrebbe quasi la voglia di smettere
di farne... Non sarà che lalmanacco viene
visto scusate la rima come un sacco, dove
ci puoi mettere quel che ti pare, indifferentemente,
che pacchia, per poi tirar fuori, spudoratamente, di
nuovo quel che ti pare, come se fossero i regali di
natale? E noi, i soliti ingenui che lavevamo pensato
come struttura agile e funzionale, senza apparati pesanti
e tuttavia forte di precise differenze, di una pluralità
anticipatrice (Almanacchi, almanacchi nuovi...),
in cui si vorrebbero presentare nientedimeno che le
scritture antagoniste, le punte persistenti e acuminate
della ricerca letteraria di oggi (rigorosamente clandestina,
perché affatto aliena al mercato)...
#
# #
Preparando
lAlmanacco Odradek
2007 di "scritture antagoniste"
Anticipazioni
*
Fin dal primo Almanacco Odradek,
tra le varie sezioni, sempre rinnovate nel titolo e
nei contenuti, ne compare immancabilmente una - Campi
di conflitto - affidata a giovani critici
e ai loro esercizi di scrittura. Un contrappunto, quasi
un monito minaccioso per gli scrittori accolti nelle
altre sezioni. Campi di conflitto è
un osservatorio, una specola, da cui
giovani critici si cimentano nella cattiveria.
Nell'ALM
prossimo ad uscire compariranno interventi critici su:
"Narrativa precaria" (Katia Cappellini), "Blog
contro la letteratura" (Francesco Longo), "Wikipedia"
(Francesca Verdecchia), "Melasse d'amore in libreria"
(Massimiliano Borrelli), "Oscenità vs brutalità
nel (libro) giallo" (Valeria Pascone), "L'autobiografia
politica all'ombbra del Pci" (Gianluca Cinelli).
***
Dalla
Premessa all’ALM 07
Ai paradossi siamo così abituati che non ci facciamo
più caso. Siamo immersi nella cultura del paradosso,
precipitata in una cultura della confusione dove tutto
è uguale a tutto. E di paradosso in paradosso
ci siamo ritrovati in un dedalo di strade senza uscita.
Senza alcuna alternativa, proprio perché la cultura
è stata azzerata nel vuoto della confusione universale,
ossia nel provincialismo globale di una piccola borghesia
egemone e altrettanto globale. […]
Nell’Italia-laboratorio di ogni trasformismo,
nel laboratorio che ha anticipato tutti gli orrori –
dal Duce al Cavaliere, alle ubique organizzazioni criminali,
alla sinistra nazionalpopolare che si destreggia –
l’editoria, per quel che resta, non è da
meno: fiuta nel vento gli affari del momento, insegue
i personaggi resi famosi da altri media, per bruciare
in una veloce stagione emozioni prodotte per palati
facili, cioè abborracciate caricature: fino all’elogio
dell’antropofagia. […]
Eppure, in questa penisola di mezzo, c’è
ancora un numero di scrittori scoordinati e libertini
che continuano la loro ricerca. Certamente in modo eterogeneo
e ciascuno per proprio conto come del resto è
inevitabile nella situazione di confusione assordante
che sopra si registrava. E tuttavia recando ben impresso
un segno di diversità e di distanza dalle pratiche
dominanti. Di essi, l’Almanacco Odradek, anche
questo del 2007, ne imbarca il più possibile
sulla sua zattera tra coloro che estendono il momento
creativo della scrittura, che continuano a produrre
linguaggi, cioè a riflettere attivamente, a fare
critica militante dell’ideologia. Una zattera
o una terra di nessuno in cui arrivano colpi da ogni
parte, in cui non ci sono rifugi o trincee ma che è
rimasta una dei pochi luoghi letterari in cui il conflitto
viene percepito e affrontato senza cedere a scorciatoie
vittimistiche o emotive. […]
Odradek
Immagini
di: Bruno Aller Amir Amirsoleimani
Aldo Bertolini Luigi Boille Andrea
Bonaventura Marie Laure Colasson Ettore
Consolazione Bruno Conte Adriano Di
Giacomo Baldassarre Dionisi Udo Dziersk
Renato Fascetti Giancarla Frare Elisabeth
Frolet Giovanni Gaggìa Salvatore
Giunta Alessandro Grimaldi Carlo Lorenzetti
Mario Lunetta Edolo Masci Cosetta
Mastragostino Patrizia Molinari Giancarlo
Montelli Manlio Monti Carlo Nangeroni
Achille Pace Ruggero Passeri Achille
Perilli Lamberto Pignotti Michela
Pozzi Marco-Luciano Ragno Ivana Spinelli
Nello Teodori Franco Troiani Carla
Viparelli Paola Zampa
Testi
di: Gualberto Alvino Sissi
Aslan Massimiliano Borelli Tomaso
Binga Silvia Boero Marcello Carlino
Palmira De Angelis Claudio Del Bello
Gaetano delli Santi Donato Di Stasi
Giuseppe Di Giacomo Alejandro Dolina
Michele Michele Fianco Forum Enrico
Frattaroli Massimo Giannotta Umberto
Lacatena Eugenio Lucrezi Mario Lunetta
Francesco Martin Marco Martinelli
Stelio Maria Martini Annamaria Mazzoni
Gianmarco Mecozzi Enzo Minarelli Francesco
Muzzioli Luigi Nacci Gianluca Paciucci
Elio Pagliarani Marco Palladini Erminia
Passannanti Cetta Petrollo Lamberto
Pignotti Davide Pinardi Angelo Pizzuto
Antonio Pizzuto Antonio Poce Sandro
Portelli Mario Quattrucci Alessandro
Raveggi Juan Carlos Rodríguez Guido
Ruzzier Marcello Sambati Edoardo Sanguineti
Gianni Toti Antonio Tricomi Maria
Turchetto
*
Parliamo non di Poesia, ma della poesia, oggi e qui.
Bene. Fino ad alcuni anni fa si dibatteva, con precisione
intelligente o con confusa generosità, di avanguardia,
di ricerca anticonvenzionale, di alea linguistica, di
autoscienza critica. Si contrapponeva tutto questo a
una pratica neo-arcadica, intimistica, patetico-viscerale,
neoromantica, in una parola al lirismo, male endemico
della nostra tradizione poetica. Poi iniziò il
culto della Madonna Pellegrina, altrimenti detta Alda
Merini, che in breve annoverò schiere pressoché
infinite di devoti fanatici. La povera Alda, che a piccole
dosi può anche essere una simpatica signora che
magari con eccessiva facilità dà sul pittoresco,
si trovò gravata della tremenda responsabilità
di incarnare l’Icona della Poesia Lirica Immortale:
e va pur detto che, bene o male, resse al durissimo
onere. Molti critici accreditati la sostennero, l’editoria
commerciale imprese a commercializzare (appunto) la
sua opera, falangi di lettori vi si commossero sopra.
La detestata avanguardia era finalmente sgominata e
distrutta: il merinismo, che è tutt’altro
che una novella forma di marinismo, aveva aperto più
di qualsiasi altra esperienza di poesia “eterna”,
pianure sconfinate alle pulsioni del cuore e alle malizie
dell’eros...[continua]
(Mario Lunetta )
*
Poesia con la maiuscola? No grazie.
Comprendiamo che la marginalizzazione della poesia e
dei poeti, la loro esclusione dal mercato e la riduzione
della poesia a “pratica di vita” e a lusso
esornativo (per l’autore che se la deve pagare...)
possa clonare la poesia, come se fosse l’altro
dal capitalismo, l’alternativa assoluta. Ma non
è così: la poesia come rifugio, rifugio
dell’anima, come oasi dello spirito, separata
dai flussi della bruta materia, non è che un’apparenza,
una blanda medicina, un sostituto o supplemento –
altrettanto sacralizzato – della religione. La
“Poesia con l’aureola” (malgrado il
buon vecchio Baudelaire) non ha smesso di obnubilare
le menti dei sedicenti Poeti e di fargli scrivere versi
seriosissimi e melensi. Ma non porta a nulla, se non
a un minimo (ma una quota molto bassa) di “compensazione”
del narcisismo personale. Perciò c’è
ancora tanto bisogno di una poesia anti-lirica! (Francesco
Muzzioli)
*
È il Mall,
il megacentro polivalente commerciale,
il luogo ovvero (come direbbe Marc Augé) il non-luogo
simbolo e topico della trans-modernità. Anche
il teatro, o meglio lo spettacolo scenico assomiglia
oggi ad un grande magazzino, ricolmo di merce teatrica,
per lo più vanesia. L’offerta teatrale
quanto più appare pletorica e retorica, indiscriminata,
tanto più smarrisce una sua reale necessità.
Ripenso, allora, a Jerzy Grotowski, alla sua maniacale
applicazione di un metodo, al suo certosino lavoro di
approfondimento antropologico, alla sua ricerca di ‘sorgenti’
culturali, al suo bisogno di una urgenza del fare teatrale:
“Creare come se fosse l’ultima volta, come
se subito dopo si dovesse morire”. È per
questa ansia di grandezza, di assoluto, di definititività
che, a un certo punto, Grotowski si è ‘ucciso’
come regista, si è negato allo spettacolo. Per
vivere su un piano di sperimentazione di arte-vita più
elevato. La stragrande maggioranza degli ‘spettacolanti’
odierni sopravvive, invece, in uno stato zombistico.
Sono morti e non lo sanno. Forse, bisogna dirglielo.(Marco
Palladini)
*
Viviamo felicemente
l’Era dei Festival. Festival della
Musica (ovviamente), del Cinema (ovviamente), e poi
delle Letterature, del Teatro, della Filosofia, della
Scienza. Non disperiamo: avremo presto il Festival dell’Astrofisica,
della Meccanica Fine, del Nucleare, della Chimica, dell’Intelligence,
dell’Adulterio, del Terrorismo. E se allestissimo
anche un Festival della Politica, anche se a ben vedere
la suddetta, ridotta com’è, non farebbe
che replicare se stessa?
I problemi sciorinati al popolo “colto”,
un po’ cerretanescamente si direbbe, in pillole,
in dosi controllate onde evitare qualsiasi rischio di
effetto choc: questa è la linea che da noi attraversa
oggi il continente Cultura. Il modulo è quello
della platea televisiva, con l’Ospite d’Onore
che magari non dice nulla di significativo ma la cui
presenza fisica è sufficiente a incantare gli
astanti, come un tempo i grandi predicatori o i più
acclamati prìncipi del foro. Tutto questo emana
un certo sentore di populismo, di incanto magico da
cui è escluso ogni elemento politicamente scorretto.
La manifestazione è accuratamente oliata; chi
gestisce l’organizzazione si preoccupa in primis
di un problema di acquiescenza da parte del pubblico
...[continua] (Mario
Lunetta )
Pubblichiamo
questo intervento di uno dei curatori apparso su Le
Reti di Dedalus, la rivista on line del Sindacato
Nazionale Scrittori: www.retididedalus.it
L'avanguardia
è impossibile? Dunque, la vogliamo
di Francesco Muzzioli
Occorre
rilanciare la sfida per la modernità radicale
e la scrittura antagonista. Il che significa sottrarsi
ai ricatti produttivi e categoriali del sistema editoriale.
Decostruire il comune senso poetico e limmaginario
contemporaneo attraverso una prassi oppositiva, allegorica
e artaudianamente crudele, che vada oltre
i limiti e le convenzioni del letterario.
Articolare le formule. Se dovessi dirlo in formule,
direi: per la modernità radicale e la scrittura
antagonista. Ma cosa significano queste formule? A voler
spiegarle in modo chiaro e trasparente, bisognerebbe
ricorrere ai testi; però non si finirebbe più.
Allora rimaniamo nel linguaggio teorico e nella sua
concentrazione un po sloganistica; malgrado la
quale, tuttavia, qualche precisazione è possibile,
anche per togliere quellaria saccente che tutte
le formule inevitabilmente contengono. Perciò
vado ad articolarle almeno un poco, le formule, il che
vuol dire allargare il discorso.
Nella tenaglia dellumanesimo cinico. Partirei
da qui: lideologia ha sempre avuto due facce,
una con i valori ideali che danno convinzione e legittimazione
morale, e laltra con la consapevolezza pratica
di ciò che si deve fare per non cadere
nel disordine. Lumanesimo e il pragmatismo; forse,
si potrebbe dire la borghesia (il soggetto autoproclamato)
e il capitalismo (il sistema meccanico). Ancora oggi
è così: però le due facce mostrano
la tendenza tanto forte è diventata la
contraddizione che devono coprire a scollarsi
tra loro e a presentarsi come opposti: fondamentalismo
e cinismo, liberismo selvaggio e solidarietà
del "politicamente corretto", e così
via. Tra di esse si sta, come in una tenaglia, obbligati
a scegliere (precisamente: sotto un ricatto morale).
Una condizione a cui è difficile sottrarsi, ma
da cui nello stesso tempo è assolutamente
necessario sottrarsi (perché si tratta di un
"miraggio ideologico" che distorce tutto).
E specialmente in quellambito che si suole chiamare
letteratura.
Contro la poesia dellanima. Nellambito
letterario le due facce del sistema si riconoscono facilmente
nei generi della narrativa e della poesia. La loro "divisione
del lavoro" risulta lampante: la narrativa è
cinica, la poesia umanitaria. Il fatto è che
le loro risorse sono completamente disuguali: addirittura
si potrebbe dire che una esiste e laltra no, tale
è lesclusivo privilegio dato alla narrativa
nellindustria editoriale e nei suoi generi di
consumo. In un sistema produttivo in cui lumano
in quanto tale sembra essere diventato in esubero, ecco
là che il "miraggio ideologico" porta
spontaneamente a considerare la poesia come lantitesi
del mercato: la poesia satteggia allinconsumabile
(leterno classico). La poesia si offre come espressione
di quel vissuto personale che è accerchiato da
tutte le parti dai media impersonali. Del Valore, circondato
dai prezzi. La poesia come lingua dellAnima, in
un mondo che ne ha perduta una. Religione laica e antimerce
immateriale (sublime), un cosiffatto senso comune poetico
(basti vedere come vi si è convertito
negli ultimi tempi un comico del corpo come Benigni...)
finisce tutto in braccio a un misticismo di risulta
dove la Poesia ha la maiuscola e si trasforma in puro
valore umano. Croce docet.
Contrordini
di
Felice Accame
In un saggio intitolato La fuga dalla parola
in Linguaggio e silenzio, edito in Inghilterra nel
1967, tradotto nel 1971 e oggi, dopo varie edizioni,
ripubblicato da Garzanti -, losannato intellettuale
George Steiner si concede alcune affermazioni aberranti.
Venendo espresse in forme argomentative rare e concernendo
un punto cruciale della critica metodologico-operativa,
vorrei dedicar loro un minimo di attenzione. Non prima
di aver inquadrato lautore nei discorsi che gli
sono congeniali.
Il fatto che, per lui, docente Wittgenstein, la filosofia
sia "linguaggio in una condizione di scrupolo supremo"
(Prefazione, 1966) e che, invece, "le scienze hanno
aggiunto poco alla nostra conoscenza o al dominio delle
possibilità umane", potrebbe esser già
sufficiente per capire di che pasta è fatto,
ma, a scanso di equivoci, è sempre bene ribadire.
Allora: Steiner beatamente sostiene che "cè
maggior penetrazione del problema delluomo (
)
in Omero, in Shakespeare o in Dostoevskij, che in tutta
quanta la neurologia o la statistica", che "nessuna
scoperta della genetica eguaglia o supera ciò
che Proust sapeva del fascino o del fardello della discendenza"
e che "gran parte della nostra condizione essenziale,
interiore, è tuttora colta dal poeta" (pag.
19). Il tutto allietato da osservazioncelle dimostrative
tipo quella che "nessun occhio occidentale, dopo
Van Gogh, guarda un cipresso senza cogliere in esso
il guizzo della fiamma" (pag. 24) o quella che
"chi ha letto la Metamorfosi di Kafka e
riesce a guardarsi nello specchio senza indietreggiare
è forse capace, tecnicamente parlando, di leggere
i caratteri stampati, ma è analfabeta nellunico
senso che conti realmente" (pag. 25). Come si vede,
nel suo linguaggio a ruota libera come sempre
in questi casi cè assertività
fino alla protervia, tipica dellestetologo normativo
e misticheggiante, indifferente ai poteri che serve.
Lo direi anche se non mi ritrovassi "ahimé-orientale"
e "analfabeta metaforico" (che, per Steiner,
a quanto pare, è lunico analfabeta che
"conti realmente").
Nella Fuga dalla parola si parte dalla considerazione
che "lineffabile si trova oltre le frontiere
della parola", il che pare perfettamente tautologico,
e che "soltanto infrangendo i muri del linguaggio
la pratica visionaria può entrare nel mondo della
comprensione totale e immediata" (pag.27)
dove il registro mistico-delirante spadroneggia
, per approdare alla trita banalità conoscitivistica
in virtù della quale "un ramo dindagine
passa dalla pre-scienza alla scienza quando può
essere organizzato in termini matematici" (pag.
31). E qui ci siamo.
Il confronto "scienza-poesia-meglio la seconda
della prima" gli serve per pararsi il sedere in
quanto "critico", ovvero per poter straparlare
darte e quantaltro senza pagare il dazio
di esplicitare un minimo di criteriologia e senza contrattare
alcuna condivisione dei significati di ciò che
dice. Sarebbe, allora, "arrogante" e "irresponsabile"
richiamarsi al nostro modello attuale di universo (quanti,
indeterminazione, costante di relatività, etc.)
se non lo si sa fare nel linguaggio "adeguato"
ovvero in termini matematici (pag. 31). E pertanto
"quando un critico cerca di applicare il principio
di indeterminazione alla sua discussione dellaction
painting o alluso dellimprovvisazione
nella musica contemporanea, non mette affatto in relazione
due sfere di esperienza; sta semplicemente dicendo delle
sciocchezze" (pag. 32). A questo punto vien voglia
di rimangiarsi non dico tutto, ma almeno qualcosa sì.
Vien voglia di scusarne i precedenti e considerarlo
un bravo figliolo che, alla fin fine nonostante
tutto , arriva da una conclusione sensata. Daccordo,
coltiva unidea di scienza conoscitivisticamente
autocontraddittoria, prende il matematizzato per oro
colato, vorrebbe imporre i propri canoni estetici urbi
et orbi, ma, almeno, sa difendere il proprio orticello
dallassalto dei cretini più palesi.
Contrordine compagni. Ledizione odierna è
arricchita di una nota. Che dice: "non sono più
tanto sicuro che sia proprio così. Ovviamente
la maggior parte delle analogie tracciate tra larte
moderna e gli sviluppi delle scienze esatte sono metafore
non realizzate, finzioni di analogia che non hanno
in sé lautorità dellesperienza
reale. Malgrado ciò, anche la metafora illecita,
il termine preso a prestito pur se frainteso, può
essere parte essenziale di un processo di riunificazione.
(
) Le volgarizzazioni, le false analogie, persino
gli errori del poeta e del critico possono essere una
parte necessaria della traduzione della
scienza nellabbecedario quotidiano del sentimento.
E il semplice fatto che i principi aleatori nelle arti
coincidano storicamente con la indeterminazione
può avere un significato genuino. E la
natura di tale significato che devessere sentita
e mostrata" (pag. 32). In pratica, dunque, autorizza
ogni straparlìo e si affida allevidenziazione
del "può" per alludere a particolari
condizioni in cui lui o suoi accoliti eletti lo giustificano
o non lo giustificano. Nell"abbecedario del
sentimento", daltronde, cè posto
soltanto per quella indefinitamente misteriosa sensibilità
un po filosofica da qualche anno a questa
parte che, rispetto al capire ed al farsi capire,
ha tanto rivalutato il sentire e il mostrare.
Post
scriptum
Comè noto, in unintervista alla "Frankfurter
Allgemeine Zeitung", il 12 agosto 2006, Günther
Grass ha rivelato di aver fatto parte delle Waffen-SS.
Ora, si dà il caso che in Linguaggio e silenzio
di Steiner ci sia anche il posto per una Nota su Günther
Grass medesimo. In essa, fra laltro, vi si può
leggere che "Grass è spietato nei confronti
della Germania post-bellica, di quel miracolo di amnesia
e di astuzia con il quale i tedeschi occidentali si
liberarono del passato e guidarono le proprie Wolkswagen
nellalba nuova" (pag. 120) e che "nei
suoi due grandi romanzi Grass ha avuto il coraggio,
la mancanza indispensabile di tatto di evocare il passato"
(
) "Come nessun altro scrittore, ha deriso
e sovvertito il placido oblio, lautoassoluzione
che si cela sotto la rinascita materiale della Germania"
(pag. 123). Vatti a fidare: quando si dice che il silenzio
avrebbe fatto bene a predominare sul linguaggio. Tutte
cose che oggi, Steiner come chiunque altro intellettuale,
si guarderebbero bene dal dire o dal dirle così.
Aspetto pertanto con ansia una nuova edizione del libro
in cui almeno una noticina inizi dicendo:"non sono
più tanto sicuro che sia proprio così".
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