MUSICA
E COMPLEMENTARITÀ
Andrea Garbuglia
L’ascolto
acusmatico è alla base di un certo tipo d’avanguardia
musicale che fonda le sue composizioni sulla registrazione
di suoni raccolti in natura, e sulla loro combinazione
con materiale sonoro prodotto elettronicamente. Lo scopo
è quello di creare dei veri e propri ‘paesaggi
sonori’ (‘soundscapes’), dove materiali
fisico-acustici registrati si combinano in modo inestricabile
a quelli elaborati artificialmente. Anche se, come si
può dedurre da questa breve e insufficiente definizione,
le moderne tecnologie hanno un ruolo fondamentale nella
musica elettroacustica, il concetto di ‘ascolto
acusmatico’ (detto anche più semplicemente
‘ascolto ridotto’) trova il suo primo documentato
antecedente nel metodo d’insegnamento adottato
da Pitagora. Si dice, infatti, che Pitagora fosse solito
insegnare ai suoi allievi nascosto da una tenda, di
modo che gli studenti, una volta eliminata l’immagine
della sorgente sonora, avessero la possibilità
di concentrarsi esclusivamente sulle parole (mi sono
occupato delle implicazioni teoriche e musicali legate
a questa pratica in due articoli apparsi su “Hortus
Musicus”, nn. 18 e 24). Pierre Schaeffer, nel
suo “Traité des objects musicaux”,
fa notare che gli apparecchi di registrazione e di riproduzione
fonografica collocano l’ascoltatore in una condizione
del tutto simile a quella in cui si trovavano i discepoli
del filosofo di Samo. Questo, sempre secondo Schaeffer,
è il presupposto grazie al quale i suoni possono
assumere un valore oggettuale: dimenticata la sorgente
sonora da cui derivano, i suoni possono assumere il
valore di oggetti in sé e, come tali, essere
sottoposti a vari tipi di trasformazione, che possono
mantenere o stravolgere la loro struttura.
Piaccia o non piaccia, la musica che si fonda sull’ascolto
acusmatico solleva non pochi interrogativi che riguardano
l’essenza stessa della musica, non ultimi quelli
che derivano dall’attribuire, in sede percettiva,
un’importanza fondamentale alla ri-costruzione
immaginaria degli oggetti (e – aggiungerei –
dei gesti) che hanno prodotto i suoni ascoltati, nonché
la spazialità in cui essi sono disposti, dove
al termine ‘immaginario’ va attribuito lo
spessore che esso ha assunto dopo i “quattro saggi
sulla filosofia dell’immaginazione” che
formano “La notte dei lampi” di Giovanni
Piana (http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/).
Non v’è dubbio che le teorie di Schaeffer
siano fortemente debitrici di una (non troppo) implicita
metafora della complementarità che, mentre classifica
gli oggetti da studiare, elimina quelli che decide di
non indagare, perché considerati solo complementari,
dando luogo, così, ad un’ideologica costruzione
della realtà. “Il suono non è solo
un segnale – sembrano dirci questi musicisti –
e il suo valore non può essere appiattito sulla
fonte della loro produzione”. “Vivaddio!”
verrebbe da rispondere, chiedendoci legittimamente se
queste persone non stiano pensando di essere loro i
primi inventori della musica. Da che mondo è
mondo, l’uomo ha fatto musica basando il suo agire
su di un presupposto fondamentale: il suono non è
solo un segnale che ci rimanda ad una realtà
extrasonora, ma è anche una possibilità
che ha in sé un valore simbolico, essenzialmente
diverso da quello che concettualmente gli si potrebbe
attribuire. L’unica differenza è rappresentata
dal tipo di suono in questione: quello della natura,
da una parte, e quello degli strumenti, dall’altra.
Ma accettando una simile distinzione come rilevante
al fine dell’ascolto acusmatico, si finirebbe
per tornare indietro di un centinaio di anni.
Il tono polemico che ho appena usato non ha però
una reale ragion d’essere, visto che, come dicevo,
le riflessioni teoriche legate all’ascolto acusmatico
non sono affatto trascurabili. Ed è proprio pensando
a queste che vorrei sviluppare alcuni appunti che ho
preso leggendo il volume “Le metafore della complementarità”
di Felice Accame (Odradek 2006). Il mio scopo non sarà
quello di riassumere il contenuto di questo libro, né
quello di spiegarlo a chi ancora non l’ha letto,
né tanto meno di esprimere un giudizio a riguardo.
Preferisco, invece, assumerne metodo e principio per
indagare alcune questioni musicali, credendo che questo
sia il modo migliore per dimostrare l’apprezzamento
nei confronti di uno studioso.
La presenza del problema della complementarità
anche in campo musicale è stata avvertita, ma
non indagata, sin dalla pratica del basso continuo,
e successivamente nello studio dell’armonia, attraverso
l’uso dei numeri romani posti al di sotto del
pentagramma, fino ad arrivare alle più recenti
forme di analisi. In tutti questi casi, per quanto i
metodi e le modalità di rappresentazione possano
differire anche sensibilmente, lo scopo rimane sempre
lo stesso: giungere ad una versione semplificata dello
spartito, attraverso un processo di omissione e di relazione.
Sia nell’omettere che nel porre in relazione è
evidentemente in atto una qualche forma di metafora,
ma solo nel primo caso possiamo parlare in senso stretto
di complementarità. È importante sottolineare
che si sta parlando ‘in senso stretto’ perché,
almeno all’interno della musica tonale, si potrebbe
dire che tutte le note sono complementari alla tonica,
definita proprio per questo “fondamentale”.
Comunque, è proprio nelle omissioni che si pratica
una distinzione selettiva tra le note su cui si regge
il brano e quelle che invece sono solo di complemento,
di integrazione.
Un caso paradigmatico in questo senso è l’analisi
schenkeriana. Heinrich Schenker, negli anni che precedettero
la seconda guerra mondiale, ideò una forma di
analisi musicale che in seguito venne ripresa e aggiustata
da vari studiosi, tanto da far diventare l’espressione
‘analisi schenkeriana’ un’etichetta
che, senza ulteriori specificazioni, rischia di essere
priva di un contenuto oggettivo. Volendo individuare
una sorta di zoccolo duro, potremmo dire che l’analisi
schenkeriana si basa sull’assunto che i brani
musicali, scritti con il linguaggio tonale, possano
essere ricondotti a tre tipi di “struttura profonda”,
composti, a loro volta, da una ‘Ursatz’
(struttura fondamentale), data invariabilmente dal succedersi
dei gradi I – V – I della scala, e da una
‘Urlinie’ (linea fondamentale), formata
da una scala discendente per gradi congiunti, che va
dall’ottava alla tonica, dalla quinta (dominante)
alla tonica o dalla terza (mediante) alla tonica. Le
altre note che compaiono nella “struttura di superficie”
del brano musicale (quelle che si trovano nello spartito
originario) sono considerate accessorie, complementari.
Vale la pena citare qui Nicholas Cook, il quale afferma
che “l’analisi schenkeriana è […]
una sorta di metafora secondo la quale una composizione
è vista come l’abbellimento su vasta scala
di una sottostante successione armonica molto semplice,
o anche come una smisurata cadenza; una metafora in
cui gli stessi principi analitici applicabili alle cadenze
nel contrappunto rigoroso possono essere applicati,
‘mutatis mutandis’, alle strutture armoniche
su vasta scala di interi brani” (N. Cook, “Guida
all’analisi musicale”, Guerini e Associati,
Milano 1991, p. 60). Sfortunatamente Cook non si dilunga
oltre sul tema della metafora, ma l’errore sotteso
ad un simile approccio non necessita di ulteriori delucidazioni:
ridurre migliaia di composizioni a soli tre schemi non
è sbagliato (nessuno ne sta mettendo in discussione
la correttezza), bensì profondamente inutile,
dato che se le opere musicali scritte con il linguaggio
tonale hanno grossomodo la stessa struttura profonda,
ciò che è interessante, proprio ai fini
della musica stessa, non è tanto l’individuazione
di tale struttura, quanto gli “abbellimenti”
che le sono stati “aggiunti”. Ecco, quindi,
che ad assumere valore sono, paradossalmente, proprio
le note scartate dall’analisi schenkeriana: solo
queste note, che potremmo chiamare complementari, riescono
a dare senso a una semplificazione che, presa di per
sé, non ne ha alcuno. Faccio notare che l’impiego
dell’espressione ‘struttura profonda’
testimonia l’uso in campo musicale di metodi desunti
dalla linguistica. Il metodo in questione – forse
è superfluo ricordarlo – è la grammatica
generativa di Noam Chomsky che, sicuramente non priva
di problemi neppure all’interno della sua naturale
collocazione, non ha dato in campo musicale risultati
pienamente soddisfacenti.
La situazione non migliora anche se decidiamo di lasciare
da parte Schenker. Ogni spartito, infatti, è
già di per sé una forma di analisi, ottenuta
sulla base di semplificazioni che derivano da scelte
ideologicamente orientate, con le quali si decide cosa
è complementare a cosa. Trascurando la messa
in disparte degli aspetti esecutivi e improvvisativi,
l’esempio più eclatante di semplificazione
è dato proprio dalla rappresentazione delle note
come punti in uno spazio. La notazione musicale non
ha avuto sempre la forma che noi conosciamo, né
l’elevato grado di perfezionamento a cui è
giunta l’ha resa immune da cambiamenti che, sotto
alcuni punti di vista, potrebbero essere considerati
delle vere e proprie involuzioni. Tra le prime forme
di notazione, ad esempio, possiamo ricordare quella
neumatica, in cui i segni (linee di diversa forma e
dimensione) poste al di sopra del testo verbale, indicavano
l’andamento della melodia senza definirne né
l’altezza né la durata. Oltre ai parametri
appena ricordati, è evidente che, a differenza
della notazione moderna, ciò che mancava ai neumi
era la discretezza. I suoni non erano individuati in
modo separato, ma come parti di una linea. Nella frantumazione
che caratterizza la notazione diastematica il movimento
melodico viene perso, anche se poi a livello percettivo,
come ci ricorda Marco de Natale nella sua “Analisi
della struttura melodica” (Guerini e Associati,
Milano 1988), data l’uniformità timbrica,
l’assenza di pause prolungate e la limitata estensione
degli intervalli, la successione di due suoni non è
sentita come un salto bensì come un percorso
(cfr. p. 37). Dunque, la notazione moderna sceglie di
rappresentare la puntualità delle note, lasciando
in secondo piano il movimento melodico a cui la loro
unione da origine. Accanto a questo, bisogna considerare
che, usando un’espressione di Piana (“Filosofia
della musica”, Guerini e Associati, Milano 1991),
la nota-punto ha la caratteristica di cogliere nel “centro
come una freccia il suo bersaglio” (p. 106). Ma
chiunque abbia almeno una pallida idea di cosa sia un
bersaglio si renderà conto che il punto in cui
si conficca la freccia non costituisce che una piccola
porzione dell’intera superficie. Scusandomi per
la metafora (non è né la prima né
l’ultima), che in questa sede è un po’
come nominare la corda in casa dell’impiccato,
faccio notare che per le note accade più o meno
la stessa cosa. La nota-punto nomina una frequenza particolare
che, però, non è l’unica presente
all’interno delle note che noi ascoltiamo. La
frequenza indicata dalla nota-punto è quella
più bassa, ed è quella che dà il
nome alla nota stessa. Ma sempre all’interno della
nota ci sono altre frequenze, che possono variare da
strumento a strumento, e che ne determinano, appunto,
il timbro. Ecco che, anche in questo, caso si pratica
una scelta implicita: si distingue tra ciò che
è fondamentale e ciò che invece può
essere considerato semplicemente accessorio.
Con quest’ultima osservazione ci siamo avvicinati
al punto da cui siamo partiti. La notazione diastematica,
infatti, prendendo in considerazione solo uno degli
armonici di cui è costituita la manifestazione
fisico-acustica di una nota, svolge la stessa funzione
della tenda o della registrazione nell’ascolto
acusmatico. Lo spartito, lasciando fuori gli armonici,
depriva il suono della sua materialità, del suo
essere il prodotto di un corpo vibrante, e invita il
lettore, ma anche l’ascoltatore, a concentrarsi
sugli aspetti che la sua ideologia costitutiva considera
rilevanti. In altre parole, lo spartito, come del resto
ogni forma di notazione, pone i comunicati musicali
in uno stato citazionale (Marcello La Matina si è
occupato di questo nel suo “Il problema del significante”,
Carocci, Roma 2001). Lo spartito ha svolto all’interno
della storia della musica una funzione ben precisa:
staccare la musica da un contesto. In particolare, potremmo
dire che il costituendo rito Cristiano si è servito
dello spartito per lasciar fuori dalla musica il mondo
pagano, che collocava, invece, le ‘performance’
musicali all’interno di riti in cui parole, suoni
e gesti formavano un tutt’uno inscindibile (derivato
dalla ‘mousiké’ greca), e incomprensibile,
una volta che l’uomo occidentale ha imparato ad
ascoltare la musica con gli occhi. Non a caso la musica
strumentale, così strettamente collegata alla
gestualità, all’azione performativa dell’esecutore,
è stata ammessa solo molto tardi nelle chiese
(si vedano a questo proposito gli ultimi lavori di Marco
de Natale pubblicati sulla rivista “Musica theorica
– SPECTRUM”).
A me piace pensare che i confini della musica non siano
solo quelli tracciati dallo spartito. La musica è
anche l’oggetto e il gesto che l’hanno prodotta,
è il contesto su cui essa si diffonde, è
il corpo di chi l’ascolta, è il processo
immaginativo ed empatico (penso, ad esempio, all’immedesimazione
che un pianista può esperire nell’ascolto
di un’opera per pianoforte), con cui l’ascoltatore,
anche in una situazione acusmatica, riesce a ricreare
ciò che non c’è, ma che comunque
rimane parte integrante del comunicato musicale.
Voglio concludere queste brevi note mettendo bene in
chiaro che la mia non vuole essere un’invettiva
contro lo spartito, bensì un richiamare l’attenzione
su quanto poco si sia riflettuto sulle implicazioni
teoriche derivate dall’adottare un determinato
sistema notazionale, e aprire su di queste una discussione
che non può che prendere le mosse da “Le
metafore della complementarità” di Felice
Accame.
(Gennaio 2008)
|