NOI RESTIAMO, e facciamo domande a
Riccardo Bellofiore, Giorgio Gattei, Joseph Halevi,
Simon Mohun, Marco Veronese Passarella,
Jan Toporowski, Richard Walker, Luciano Vasapollo,
Leonidas Vatikiotis, Giovanna Vertova
dalla quarta di copertina
Una crisi più lunga di quella del 1929 – siamo ormai al nono anno consecutivo – cambia moltissime cose. Nell'economia, nelle relazioni internazionali, nella vita di miliardi di persone e dunque anche nella testa di chi prova a pensare il mondo in cui vive. È ormai luogo comune dire che “non si tornerà più come prima”.
Dopo tanto tempo abbiamo davanti una generazione che è cresciuta nella crisi. Che conosce soltanto la crisi e non ha mai vissuto un periodo di crescita. Che non può dunque neppure immaginare un futuro migliore, che sia anche realistico, senza provare a pensare in modo differente rispetto all'ideologia mainstream.
Una generazione costretta a farsi domande sul sistema, il suo funzionamento, la sua direzione di marcia, e a cercare urgentemente delle risposte. Intanto a livello teorico, perché soltanto dei truffatori o dei folli possono proporre oggi – qui e ora – soluzioni pratiche, politiche economiche e/o fiscali, in grado di superare la crisi senza sconvolgimenti drastici del modo di produzione, dei rapporti tra le classi e tra i poli geostrategici.
Una generazione che interroga la scienza economica fuori dal monopolio del pensiero unico giornalistico-accademico e ottiene risposte che aprono campi di ricerca da tempo inesplorati.
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Per essere più precisi...
Di libri sulla crisi iniziata nel 2007-2008 ne sono stati scritti a decine, presto finiti nel dimenticatoio. Non per colpa degli autori, spesso di grande livello. Il problema è che quel che sta accadendo in questi lunghi anni sfugge alle categorie della scienza economica “standard”, quella che si insegna nelle università e che regola anche le decisioni degli organismi sovranazionali.
Fondo Monetario Internazionale, Ocse, Banca Mondiale, Bce, Federal Reserve e governi di paesi potenti continuano a disegnare “ricette” per uscire dalla crisi, senza riuscire a fare un solo passo in questa direzione.
Anzi. Deflazione e tassi di interesse negativi stanno lì a farsi beffe della teoria economica, degli economisti ortodossi e degli altrettanto ortodossi decisori internazionali, sempre più costretti a “politiche non convenzionali” per non far affondare nel disastro la produzione ed il commercio globali. Le “politiche convenzionali” - quelle suggerite nei manuali ortodossi – seminerebbero infatti caos e distruzione di capacità produttiva.
Lo stallo economico si è insomma tradotto in un blocco teorico della “scienza triste”. O almeno del suo versante mainstream.
Non appare dunque un caso che le domande impellenti affiorino all'interno di una generazione cresciuta nella crisi e che non conosce altro che la crisi. Giovani laureati o ancora studenti che non conoscono la “crescita”, anche se ne hanno sentito parlare di continuo. Giovani che non accettano di subire passivamente il destino “naturale” che li vorrebbe “cervelli in fuga” (chissà perché sembra vietato dire “emigranti”) o neet.
Né può essere un caso che le loro domande vengano poste a economisti “non ortodossi”, qualunque cosa voglia dire questa definizione, ossia a studiosi che non hanno mai trovato logico chiudere gli occhi di fronte alle più evidenti aporie della scienza economica standard (quella per cui ogni crisi è solo frutto di “errori di comportamento” da parte di alcuni soggetti economici, quasi sempre individuati negli Stati o nell'eccessiva “avidità” di pochi).
Ne vien fuori un testo che dice molto sul capitalismo contemporaneo e che, con grande onestà, non si mette a stilare “ricette” alternative. Che fa luce su cause, dinamiche, problemi e interessi dimenticati, su processi più esorcizzati che studiati, insondabili dunque per la bulimia econometrica.
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