da
il manifesto del 25 luglio 2006
Il
mondo alla rovescia delle periferie ribelli
"Storie ritrovate" di Cesare Bermani per Odradek.
Storia locale e storia orale sullo sfondo del Novarese, quella
che un tempo era la "provincia rossa" e oggi snodo
decisivo del sistema economico-culturale lombardo verso il
nord ovest
Pier
Paolo Poggio
Il
libro di Cesare Bermani, Storie ritrovate (Odradek, pp. 292,
euro 18), raccoglie scritti risalenti ad anni diversi, e su
argomenti eterogenei, eppure prevale in esso la forte unitarietà
di una ricerca ininterrotta che ruota attorno ad alcuni nodi,
interrogativi e propositi.
Preliminare a tutto c'è l'idea, oggi apparentemente
priva di ogni fondamento, dell'importanza e necessità
di una storia militante, una storia che non solo assume ad
oggetto delle proprie ricerche classi sociali, gruppi, individui,
che per motivi politici e culturali sono trascurati e oscurati
dalla storiografia corrente, nelle sue varie articolazioni,
ma che scommette sulla persistenza dell'antagonismo, esplorandone
insorgenze e percorsi carsici. Una storia che rovescia la
rappresentazione della subalternità insuperabile di
proletari e marginali, fatta propria dal movimento operaio
e suoi epigoni, divenuti portavoce della naturalizzazione
dei rapporti sociali capitalistici, e quindi della loro accettazione
e introiezione. Una storia funzionale a questi esiti mistifica
la realtà non meno di quanto facesse una storiografia
guidata dall'interesse di partito.
In un contesto radicalmente mutato, Bermani può riprendere
la battaglia già iniziata da Gianni Bosio, con l'obiettivo
di "scavare nel campo della storia reale del movimento
comunista", attraverso una filologia della storia capace
di sostituire ai miti la realtà.
Il fatto che i miti siano crollati ad opera della storia piuttosto
che per l'azione di una storiografia critica, filologicamente
rigorosa, non toglie valore al progetto collettivo di scavo
"sia sulla storia locale sia sui comportamenti e l'effettiva
composizione politica, sociale e culturale della classe",
che ha avuto in Bermani uno degli esponenti più tenaci
e coerenti. E ciò per un insieme di ragioni che attengono
al proliferare, non solo in Italia, di identità locali
fittizie e autoreferenziali, al crollo dell'attenzione per
le vicende reali del movimento operaio novecentesco, con la
costruzione di memorie separate e puramente reattive, ma anche
a dimensioni più profonde e vaste che concernono l'intero
universo delle culture popolari e cosiddette subalterne nel
tempo storico della modernità, sino ai suoi esiti ultimi,
tra globalizzazione e guerra permanente.
Gli storici di mestiere, colpiti da "una smemoratezza
e sempre più accentuata con il volger del tempo"
(Guido Crainz), hanno abbandonato interi territori, ineludibili
per una geografia storica del Novecento: le fabbriche, i conflitti
operai, le culture del lavoro. Sono diventati per la gran
parte cantori e cronisti della modernizzazione indefinita.
In tal modo hanno portato il loro contributo a unificare e
neutralizzare storie e culture, a impastare come in una betoniera,
diceva Ernesto Balducci, "le diverse memorie in una sola
memoria, quella che mira a far passare il mondo presente come
l'unico mondo possibile".
La pratica storiografica di Bermani, in cui ha gran peso la
"storia orale", mai del tutto accettata in ambito
accademico, si esprime in aperto dissenso rispetto alla tentazione
ricorrente di inchiodare il futuro alla limitatezza del presente.
Storia come ricerca di verità e militanza politica
senza vincoli di mandato si saldano nell'individuare, oggi,
come oggetti di storia "le periferie e le sotto-periferie
del centro del "sistema mondo", con confini sempre
più mobili e fluidi, e aree centrali e periferiche
sempre più coinvolte nei medesimi processi con modelli
culturali che si generalizzano ma contemporaneamente mettono
in moto una ricerca continua di differenze, radici, identità,
facendo sì che il paesaggio umano mantenga tuttora
diversità tenaci, che spesso possono essere indagate
soltanto se inserite in dinamiche temporali di lunga durata
entro cui cogliere le discontinuità diacroniche",
come si legge nell'introduzione.
Un tale programma di lavoro sottende le Storie ritrovate,
in cui l'attenzione per spaccati di vita periferica diventa
uno strumento per approfondire e ampliare una storia locale
non localistica, attraverso cui far uscire dal sommerso avvenimenti
trascurati dalla storia nazionale. Sono in tutto otto storie,
aventi come sfondo diretto o indiretto il Novarese, quella
che era un tempo la "provincia rossa", oggi snodo
decisivo e asse di penetrazione del sistema economico-culturale
lombardo verso il nord-ovest. Ma ciò resta fuori da
un percorso che prende le mosse dalla lettura politica del
caso ottocentesco dell'"indemoniata di Briga Novarese"
per arrivare alle vicende del circolo Rosa Luxemburg nel fatale
biennio 1968-'69.
Costruite con grande acribia filologica, utilizzando le fonti
scritte non meno di quelle orali, gli archivi e la letteratura
secondaria, si leggono godibilmente per la curiosità
di Bermani, non puramente erudita, per gli aspetti insoliti,
bizzarri, inediti, di vicende note e meno note. Basti in tal
senso il capitolo "Teosofia e Buddismo nel Novarese"
incentrato sulla figura dell'amato Ernesto Ragazzoni.
L'abilità dell'autore nell'affrontare con sicurezza
pagine ostiche della storia della Resistenza, su cui ha svolto
ricerche assolutamente innovative con qualche decennio di
anticipo sulla produzione corrente sia degli istituti resistenziali
che universitari, risalta nella ricostruzione del "caso
Pomati" e di quello "Mario Fornara". L'epilogo
tragico, e in quel contesto inevitabile, di due storie di
spionaggio e doppio gioco, è sottratto alle facili
liquidazioni e strumentalizzazioni attraverso un lavoro minuzioso
e appassionato di ricostruzione che restituisce pienamente
quelle vicende al loro tempo, in controtendenza rispetto agli
anacronismi manipolatori dilaganti nella pubblicistica e nei
media. Ma gli assunti generali richiamati in apertura trovano
la loro verifica soprattutto nel saggio dedicato al "re
dei camminanti", il fuorilegge Francesco Demichelis detto
il "Biondin" (1871-1905), e nella storia di Giuseppe
Rimola (1904-1938), militante comunista, vittima del terrore
staliniano.
Nel primo caso la costruzione dello Stato nazionale, intrecciata
allo sviluppo dell'economia industriale, colpisce gli ultimi,
e non ultimi, rappresentanti di un "mondo alla rovescia"
che debbono essere addomesticati e disciplinati affinché
la loro libertà, quantunque misera, non diventi contagiosa
e metta in pericolo l'ordine costituito, sull'ingiustizia.
Di Giuseppe Rimola, attivissimo operaio e militante comunista
capace di un "enorme mole di lavoro politico", condannato
dal Tribunale Speciale, in Unione Sovietica dal 1932, Bermani
si era occupato sin dalla fine degli anni Sessanta, quando
soltanto eretici e reietti si interessavano della tragica
sorte dei comunisti italiani vittime dello stalinismo, coperta
da una buia coltre di tenebre, senza che il Pci facesse nulla
per diradarle. Cosicché, sino al 1993 nessuno sapeva
che fine avesse fatto Rimola (fucilato il 16 agosto 1938 a
Butovo).
È un testo breve che Bermani ha riscritto più
volte, man mano che brandelli di verità riaffioravano
alla luce, ma gli interventi successivi sul palinsesto denotano
anche la fatica dolorosa nel mettere a fuoco una tragedia
infinita, "con implicazioni che coinvolgono tutta quanta
la storia del movimento operaio dall'Ottobre in poi".
Questo esercizio di revisione necessario è esattamente
l'opposto, come metodo e finalità, dal revisionismo,
in cui l'interesse politico, tralasciando i volgari cultori
di scoop giornalistici, è indifferente a quella ricerca
incessante della verità storica che la storiografia
militante di Bermani ha assunto quale stella polare del proprio
lavoro.
Sul
sito www.paradisodegliorchi.com
è
apparsa questa recensione di Vera Barilla
Frega a qualcuno della provincia di Novara e dintorni? No?
Un momento. M’hanno spiegato una volta che c’è
una storia delle “res gestae” - storia che cade
dall’alto, storia delle imprese, delle date, dei ”giorni
della memoria”, degli (ar)cavoli e dei re. E poi una
storia ”rerum gestarum” - che si chiede “Cesare
conquistò le Gallie /non aveva con sé nemmeno
un cuoco?”. Storia da sotto in su, spesso orale siccome
i suoi protagonisti son pratici ma non grammatici - quando
peggio non appartengono a categorie ch’è difficile
o impossibile “pigliare per la lingua”, (Leo Sciascia)
per motivi professionali, così dicendo: mafiosi, membri
della “leggèra”, bombaroli, monellacci
maliziosi “che la sanno lunga”, donne di specie
femminile, imbriagoni a gogo, socialisti dalle tasche buche,
irregolari in numero, genere e caso.
M’avranno spiegato bene? Non so. Certo che l’intellettuale
spesso s’incarta nella nostalgie de la boue. E allora,
libri come questo gli valgono da antidoto: per un verso, gli
rendono le cose come sono - pratiche, prosaiche, “senza
grilli pe’ ‘l capo”, milaniane. Per l’altro,
lo sospingono ad approfondire, nella sua prassi d’autore,
quei filoni che conducono a una resa più autentica
dei personaggi che mette in scena. E che, tramite le proprie
individuali caratteristiche, condurranno a una più
diffusa umanità - lo voleva Kant per il gusto, particolare
che rinvia al generale.
Entrando nel merito, Cesare Bermani, con qualche fatica nell’esposto
e un occhio a LorenzoValla e l’altro a Kuhn, ricostruisce
una serie di fattacci - dalla metà dell’ Ottocento
allo ieri sessantottino - rilevati e rilevanti nel Novarese,
ma costretti a doppio filo alla Storia doppiamente maiuscola:
e i suoi addentellati riguardano mode e maniere d’una
più vasta e inaspettata dottrina, e delle istituzioni
totali come lo Stato e la Chiesa, assieme agli organismi ideologici
quali il Socialismo e il Comunismo, ch’a superare e
abbattere quelli s’erano nati e s’erano fortificati
(ricorda l’Autore che proprio Novara era la ”provincia
rossa”, ove si contrastò il fascismo - come a
Parma, in Sardegna, a Sarzana, a San Lorenzo in Roma -, e
in cui persino regime durante le sue mondariso seppero pareggiare
il padronato).
E proprio le vicende d’un comunista occupano la sezione
centrale del volume: Giuseppe Rimola, impegnato allo spàsimo
nella lotta operaia, perseguitato dal destrìmane regime
che s’appoggiò sull’Italietta fedifraga
e liberale, vogliosa dell’ordine ”per far quel
che volete”, (P. Pietrangeli) e che per giunta subì
l’immonda persecuzione staliniana. E la sua storia diviene
pietra di paragone per scandire intenti e risultati, e per
riflettere sulla terribile realizzazione della dottrina che,
promettendo agli uomini una più alta e vera umanità,
tradiva quel mandato ferendo e smerdando i suoi portatori
più alti e più veri - i quali sacrificarono
la vita e la libertà (ma più importante il vero)
purché l’Idea vivesse, e la cui tragedia non
venne riconosciuta dal Partito, per motivi che, se nella contingenza
togliattiana potevano essere validi, anzi opportuni, in generale
contrastavano con la verità come prassi rivoluzionaria.
(A. Gramsci)
Costruiscono a questo sacrificio - che nessuno doveva richiedere,
che nobilissimo è stato, ed eccelso se non fosse svilito
dalla menzogna - un fondale variamente articolato: il satanismo
utile in funzione antiprogressiva, che rammenta l’oggi
ove le sette vengon con disinvoltura etichettate dal cattolicismo
come diaboliche, e chiamate a spiegare ogni nefandezza, a
spargere ed elicitare qualsiasi angoscia, lorché per
tv-diffusione i disarmati e gli incolti sian facile preda
d’ogni merdulerìa del potere clericofascista
o neovirtuale; la rivolta della forma di vita bracciantìle
o meglio lumpenproletaria - nemica per il proprio corpo, nella
sua vera fisicità - all’inclusione operaista
effttuata dal capitalismo sorgente, presa in carica dal brigantaggio
robinudesco (ma vicino, senza saperlo, alle ragioni e alle
suggestioni di quello suditalico) esposto dal Biondìn
e dalla sua cospicua mitizzazione, e ripreso nel genere suo
dal pasolinismo borgataro; l’influenza delle teoretiche
spiritualiste meno provinciali e in maggior copia innovatrici,
sincere e intrise di nuova linfa d’Oriente - facendo
di Novara, grazie a Ernesto Ragazzoni corrispondente della
Blavatsky e della Besant, un caposaldo precursore della critica
all’idea di Progresso, che richiama l’attuale
risveglio no-global; la caccia giustificata nell’ultima
vicenda repubblichina ai traditori, alle spie, ai millantatori,
ai falsi patrioti, ai fascisti travestiti, adeguata a processi
che in seguito furono chiamati “sommari” dalla
magistratura e da un’ opinione pubblica ancora permeata
e s(e)colarizzata di dittatura, ma che in realtà vennero
performati da chi aveva il diritto (lasciatogli da quelli
che avevano distrutto ogni possibile architettura della legalità)
d’esercitare l’unica giustizia esigibile; la persistenza
di strutture militari nei partiti post-conflitto, dimodoché,
chiunque prevalesse nella competizione elettorale quarantottarda,
la controparte disponesse d’una forza armata o segreta
tale da costituire assieme una struttura capace di mettere
in salvo i leader e d’assicurare un’azione di
contrasto dell’avversario; infine, dell’azione
capillare e tuttavia genericamente inefficace d’un’organizzazione
gruppettara libertaria sinistrorsa ch’esita la liberazione
dei cosiddetti “pazzi”, e ottiene sensibili e
concreti miglioramenti nella diaria d’un convitto gestito
dc-ottocentesco (paternalismo, ruberie, percosse e sessabusi
educatoriali), senza però ottenere che tali risultati
sfociassero nella risoluzione d’ obiettivi di maggior
portata.
Dunque: il testo si presenta come un sussidiario scolastico,
che riporti, degli ultimi centocinquant’anni, la storia
alternativa. Quella che i soggetti non detti e indicibili
dovrebbero almeno conoscere, sì da comprendere e organizzarsi.
Lo fa(ra)nno? Mah! Intanto, sappiamo da Fedele D’Amico
che “le ragioni contingenti d’Antigone (...) possono
ben suonare lontane dal costume d’oggi, (...) Senonché
individuare il caso consimile d’oggi a chi spetta?
A noi, soltanto che a noi”. (*)
Eh, sì. A noi.
(*) cfr. Un ragazzino all’Augusteo, Einaudi, Torino
1991, p. 209.
Vera Barilla
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