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Cesare Bermani
STORIE RITROVATE

pp.292 € 18,00

 

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«Storia locale e storia orale sono un "bisogno dei tempi". Ieri hanno permesso innovazioni metodologiche, ampliando e raffinando gli strumenti e i campi dell’indagine storiografica. Oggi sono anche strumenti di indagine indispensabili per conoscere le periferie e le sotto-periferie del "sistema mondo", con aree centrali e marginali sempre più coinvolte nei medesimi processi, con modelli culturali che si generalizzano ma contemporaneamente mettono in moto una ricerca continua di differenze, radici, identità, facendo sì che il paesaggio umano mantenga tuttora diversità tenaci, che spesso possono essere indagate soltanto se inserite in dinamiche temporali di lunga durata.»

da il manifesto del 25 luglio 2006

Il mondo alla rovescia delle periferie ribelli
"Storie ritrovate" di Cesare Bermani per Odradek. Storia locale e storia orale sullo sfondo del Novarese, quella che un tempo era la "provincia rossa" e oggi snodo decisivo del sistema economico-culturale lombardo verso il nord ovest
Pier Paolo Poggio


Il libro di Cesare Bermani, Storie ritrovate (Odradek, pp. 292, euro 18), raccoglie scritti risalenti ad anni diversi, e su argomenti eterogenei, eppure prevale in esso la forte unitarietà di una ricerca ininterrotta che ruota attorno ad alcuni nodi, interrogativi e propositi.
Preliminare a tutto c'è l'idea, oggi apparentemente priva di ogni fondamento, dell'importanza e necessità di una storia militante, una storia che non solo assume ad oggetto delle proprie ricerche classi sociali, gruppi, individui, che per motivi politici e culturali sono trascurati e oscurati dalla storiografia corrente, nelle sue varie articolazioni, ma che scommette sulla persistenza dell'antagonismo, esplorandone insorgenze e percorsi carsici. Una storia che rovescia la rappresentazione della subalternità insuperabile di proletari e marginali, fatta propria dal movimento operaio e suoi epigoni, divenuti portavoce della naturalizzazione dei rapporti sociali capitalistici, e quindi della loro accettazione e introiezione. Una storia funzionale a questi esiti mistifica la realtà non meno di quanto facesse una storiografia guidata dall'interesse di partito.
In un contesto radicalmente mutato, Bermani può riprendere la battaglia già iniziata da Gianni Bosio, con l'obiettivo di "scavare nel campo della storia reale del movimento comunista", attraverso una filologia della storia capace di sostituire ai miti la realtà.
Il fatto che i miti siano crollati ad opera della storia piuttosto che per l'azione di una storiografia critica, filologicamente rigorosa, non toglie valore al progetto collettivo di scavo "sia sulla storia locale sia sui comportamenti e l'effettiva composizione politica, sociale e culturale della classe", che ha avuto in Bermani uno degli esponenti più tenaci e coerenti. E ciò per un insieme di ragioni che attengono al proliferare, non solo in Italia, di identità locali fittizie e autoreferenziali, al crollo dell'attenzione per le vicende reali del movimento operaio novecentesco, con la costruzione di memorie separate e puramente reattive, ma anche a dimensioni più profonde e vaste che concernono l'intero universo delle culture popolari e cosiddette subalterne nel tempo storico della modernità, sino ai suoi esiti ultimi, tra globalizzazione e guerra permanente.
Gli storici di mestiere, colpiti da "una smemoratezza e sempre più accentuata con il volger del tempo" (Guido Crainz), hanno abbandonato interi territori, ineludibili per una geografia storica del Novecento: le fabbriche, i conflitti operai, le culture del lavoro. Sono diventati per la gran parte cantori e cronisti della modernizzazione indefinita. In tal modo hanno portato il loro contributo a unificare e neutralizzare storie e culture, a impastare come in una betoniera, diceva Ernesto Balducci, "le diverse memorie in una sola memoria, quella che mira a far passare il mondo presente come l'unico mondo possibile".
La pratica storiografica di Bermani, in cui ha gran peso la "storia orale", mai del tutto accettata in ambito accademico, si esprime in aperto dissenso rispetto alla tentazione ricorrente di inchiodare il futuro alla limitatezza del presente. Storia come ricerca di verità e militanza politica senza vincoli di mandato si saldano nell'individuare, oggi, come oggetti di storia "le periferie e le sotto-periferie del centro del "sistema mondo", con confini sempre più mobili e fluidi, e aree centrali e periferiche sempre più coinvolte nei medesimi processi con modelli culturali che si generalizzano ma contemporaneamente mettono in moto una ricerca continua di differenze, radici, identità, facendo sì che il paesaggio umano mantenga tuttora diversità tenaci, che spesso possono essere indagate soltanto se inserite in dinamiche temporali di lunga durata entro cui cogliere le discontinuità diacroniche", come si legge nell'introduzione.
Un tale programma di lavoro sottende le Storie ritrovate, in cui l'attenzione per spaccati di vita periferica diventa uno strumento per approfondire e ampliare una storia locale non localistica, attraverso cui far uscire dal sommerso avvenimenti trascurati dalla storia nazionale. Sono in tutto otto storie, aventi come sfondo diretto o indiretto il Novarese, quella che era un tempo la "provincia rossa", oggi snodo decisivo e asse di penetrazione del sistema economico-culturale lombardo verso il nord-ovest. Ma ciò resta fuori da un percorso che prende le mosse dalla lettura politica del caso ottocentesco dell'"indemoniata di Briga Novarese" per arrivare alle vicende del circolo Rosa Luxemburg nel fatale biennio 1968-'69.
Costruite con grande acribia filologica, utilizzando le fonti scritte non meno di quelle orali, gli archivi e la letteratura secondaria, si leggono godibilmente per la curiosità di Bermani, non puramente erudita, per gli aspetti insoliti, bizzarri, inediti, di vicende note e meno note. Basti in tal senso il capitolo "Teosofia e Buddismo nel Novarese" incentrato sulla figura dell'amato Ernesto Ragazzoni.
L'abilità dell'autore nell'affrontare con sicurezza pagine ostiche della storia della Resistenza, su cui ha svolto ricerche assolutamente innovative con qualche decennio di anticipo sulla produzione corrente sia degli istituti resistenziali che universitari, risalta nella ricostruzione del "caso Pomati" e di quello "Mario Fornara". L'epilogo tragico, e in quel contesto inevitabile, di due storie di spionaggio e doppio gioco, è sottratto alle facili liquidazioni e strumentalizzazioni attraverso un lavoro minuzioso e appassionato di ricostruzione che restituisce pienamente quelle vicende al loro tempo, in controtendenza rispetto agli anacronismi manipolatori dilaganti nella pubblicistica e nei media. Ma gli assunti generali richiamati in apertura trovano la loro verifica soprattutto nel saggio dedicato al "re dei camminanti", il fuorilegge Francesco Demichelis detto il "Biondin" (1871-1905), e nella storia di Giuseppe Rimola (1904-1938), militante comunista, vittima del terrore staliniano.
Nel primo caso la costruzione dello Stato nazionale, intrecciata allo sviluppo dell'economia industriale, colpisce gli ultimi, e non ultimi, rappresentanti di un "mondo alla rovescia" che debbono essere addomesticati e disciplinati affinché la loro libertà, quantunque misera, non diventi contagiosa e metta in pericolo l'ordine costituito, sull'ingiustizia.
Di Giuseppe Rimola, attivissimo operaio e militante comunista capace di un "enorme mole di lavoro politico", condannato dal Tribunale Speciale, in Unione Sovietica dal 1932, Bermani si era occupato sin dalla fine degli anni Sessanta, quando soltanto eretici e reietti si interessavano della tragica sorte dei comunisti italiani vittime dello stalinismo, coperta da una buia coltre di tenebre, senza che il Pci facesse nulla per diradarle. Cosicché, sino al 1993 nessuno sapeva che fine avesse fatto Rimola (fucilato il 16 agosto 1938 a Butovo).
È un testo breve che Bermani ha riscritto più volte, man mano che brandelli di verità riaffioravano alla luce, ma gli interventi successivi sul palinsesto denotano anche la fatica dolorosa nel mettere a fuoco una tragedia infinita, "con implicazioni che coinvolgono tutta quanta la storia del movimento operaio dall'Ottobre in poi".
Questo esercizio di revisione necessario è esattamente l'opposto, come metodo e finalità, dal revisionismo, in cui l'interesse politico, tralasciando i volgari cultori di scoop giornalistici, è indifferente a quella ricerca incessante della verità storica che la storiografia militante di Bermani ha assunto quale stella polare del proprio lavoro.

 

Sul sito www.paradisodegliorchi.com

è apparsa questa recensione di Vera Barilla


Frega a qualcuno della provincia di Novara e dintorni? No? Un momento. M’hanno spiegato una volta che c’è una storia delle “res gestae” - storia che cade dall’alto, storia delle imprese, delle date, dei ”giorni della memoria”, degli (ar)cavoli e dei re. E poi una storia ”rerum gestarum” - che si chiede “Cesare conquistò le Gallie /non aveva con sé nemmeno un cuoco?”. Storia da sotto in su, spesso orale siccome i suoi protagonisti son pratici ma non grammatici - quando peggio non appartengono a categorie ch’è difficile o impossibile “pigliare per la lingua”, (Leo Sciascia) per motivi professionali, così dicendo: mafiosi, membri della “leggèra”, bombaroli, monellacci maliziosi “che la sanno lunga”, donne di specie femminile, imbriagoni a gogo, socialisti dalle tasche buche, irregolari in numero, genere e caso.
M’avranno spiegato bene? Non so. Certo che l’intellettuale spesso s’incarta nella nostalgie de la boue. E allora, libri come questo gli valgono da antidoto: per un verso, gli rendono le cose come sono - pratiche, prosaiche, “senza grilli pe’ ‘l capo”, milaniane. Per l’altro, lo sospingono ad approfondire, nella sua prassi d’autore, quei filoni che conducono a una resa più autentica dei personaggi che mette in scena. E che, tramite le proprie individuali caratteristiche, condurranno a una più diffusa umanità - lo voleva Kant per il gusto, particolare che rinvia al generale.
Entrando nel merito, Cesare Bermani, con qualche fatica nell’esposto e un occhio a LorenzoValla e l’altro a Kuhn, ricostruisce una serie di fattacci - dalla metà dell’ Ottocento allo ieri sessantottino - rilevati e rilevanti nel Novarese, ma costretti a doppio filo alla Storia doppiamente maiuscola: e i suoi addentellati riguardano mode e maniere d’una più vasta e inaspettata dottrina, e delle istituzioni totali come lo Stato e la Chiesa, assieme agli organismi ideologici quali il Socialismo e il Comunismo, ch’a superare e abbattere quelli s’erano nati e s’erano fortificati (ricorda l’Autore che proprio Novara era la ”provincia rossa”, ove si contrastò il fascismo - come a Parma, in Sardegna, a Sarzana, a San Lorenzo in Roma -, e in cui persino regime durante le sue mondariso seppero pareggiare il padronato).
E proprio le vicende d’un comunista occupano la sezione centrale del volume: Giuseppe Rimola, impegnato allo spàsimo nella lotta operaia, perseguitato dal destrìmane regime che s’appoggiò sull’Italietta fedifraga e liberale, vogliosa dell’ordine ”per far quel che volete”, (P. Pietrangeli) e che per giunta subì l’immonda persecuzione staliniana. E la sua storia diviene pietra di paragone per scandire intenti e risultati, e per riflettere sulla terribile realizzazione della dottrina che, promettendo agli uomini una più alta e vera umanità, tradiva quel mandato ferendo e smerdando i suoi portatori più alti e più veri - i quali sacrificarono la vita e la libertà (ma più importante il vero) purché l’Idea vivesse, e la cui tragedia non venne riconosciuta dal Partito, per motivi che, se nella contingenza togliattiana potevano essere validi, anzi opportuni, in generale contrastavano con la verità come prassi rivoluzionaria. (A. Gramsci)
Costruiscono a questo sacrificio - che nessuno doveva richiedere, che nobilissimo è stato, ed eccelso se non fosse svilito dalla menzogna - un fondale variamente articolato: il satanismo utile in funzione antiprogressiva, che rammenta l’oggi ove le sette vengon con disinvoltura etichettate dal cattolicismo come diaboliche, e chiamate a spiegare ogni nefandezza, a spargere ed elicitare qualsiasi angoscia, lorché per tv-diffusione i disarmati e gli incolti sian facile preda d’ogni merdulerìa del potere clericofascista o neovirtuale; la rivolta della forma di vita bracciantìle o meglio lumpenproletaria - nemica per il proprio corpo, nella sua vera fisicità - all’inclusione operaista effttuata dal capitalismo sorgente, presa in carica dal brigantaggio robinudesco (ma vicino, senza saperlo, alle ragioni e alle suggestioni di quello suditalico) esposto dal Biondìn e dalla sua cospicua mitizzazione, e ripreso nel genere suo dal pasolinismo borgataro; l’influenza delle teoretiche spiritualiste meno provinciali e in maggior copia innovatrici, sincere e intrise di nuova linfa d’Oriente - facendo di Novara, grazie a Ernesto Ragazzoni corrispondente della Blavatsky e della Besant, un caposaldo precursore della critica all’idea di Progresso, che richiama l’attuale risveglio no-global; la caccia giustificata nell’ultima vicenda repubblichina ai traditori, alle spie, ai millantatori, ai falsi patrioti, ai fascisti travestiti, adeguata a processi che in seguito furono chiamati “sommari” dalla magistratura e da un’ opinione pubblica ancora permeata e s(e)colarizzata di dittatura, ma che in realtà vennero performati da chi aveva il diritto (lasciatogli da quelli che avevano distrutto ogni possibile architettura della legalità) d’esercitare l’unica giustizia esigibile; la persistenza di strutture militari nei partiti post-conflitto, dimodoché, chiunque prevalesse nella competizione elettorale quarantottarda, la controparte disponesse d’una forza armata o segreta tale da costituire assieme una struttura capace di mettere in salvo i leader e d’assicurare un’azione di contrasto dell’avversario; infine, dell’azione capillare e tuttavia genericamente inefficace d’un’organizzazione gruppettara libertaria sinistrorsa ch’esita la liberazione dei cosiddetti “pazzi”, e ottiene sensibili e concreti miglioramenti nella diaria d’un convitto gestito dc-ottocentesco (paternalismo, ruberie, percosse e sessabusi educatoriali), senza però ottenere che tali risultati sfociassero nella risoluzione d’ obiettivi di maggior portata.
Dunque: il testo si presenta come un sussidiario scolastico, che riporti, degli ultimi centocinquant’anni, la storia alternativa. Quella che i soggetti non detti e indicibili dovrebbero almeno conoscere, sì da comprendere e organizzarsi. Lo fa(ra)nno? Mah! Intanto, sappiamo da Fedele D’Amico che “le ragioni contingenti d’Antigone (...) possono ben suonare lontane dal costume d’oggi, (...) Senonché individuare il caso consimile d’oggi a chi spetta?
A noi, soltanto che a noi”. (*)
Eh, sì. A noi.
(*) cfr. Un ragazzino all’Augusteo, Einaudi, Torino 1991, p. 209.
Vera Barilla

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