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Andrea Cosentino
LA SCENA DELL'OSCENO
Alle origini della drammaturgia di Roberto Benigni

pp.150 € 11,36

 

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"Da ragazzo studiavo dai preti. Venne l'alluvione a Firenze, e la scuola fu chiusa. Allora la mia mamma, per farmi fare qualcosa, mi mise con questi poeti girovaghi. Avevo sedici anni, e il poeta più giovane, dopo di me, ne aveva ottantuno... Mi presero con loro, perché la tradizione si andava estinguendo. Facemmo un giro in Toscana, per le feste di paese e dell'Unità, i loro temi erano la Russia e l'America, il cacciatore e la lepre, la donna grassa e la donna magra. Oppure il pubblico dava un tema e noi si improvvisava l'ottava."

È Roberto Benigni che parla di sé, ma sembra la narrazione di una leggenda.
Ora le leggende, come i sogni, non solo non temono le contraddizioni, ma s'ingrossano e viaggiano con maggiore velocità alimentandosi di diverse versioni, di quelle stesse versioni che Benigni rilascia. Fatto sta che, per quanto possa sembrare strano, le origini della forza trasgressiva dell'unico attore italiano la cui comicità sia in grado di varcare le frontiere nazionali, sono da ricercarsi in una sottocultura regionale e rurale.


Questo libro ripercorre le tappe dell'itinerario artistico di Roberto Benigni dagli esordi al passaggio nelle "cantine" dell'avanguardia romana degli anni 70, per giungere ai primi risultati significativi del "Cioni Mario", realizzato assieme a Giuseppe Bertolucci, fino ad analizzare le performance della tournée di Tuttobenigni.
Ma innanzitutto l'autore, teatrante egli stesso, ha condotto una ricerca sul campo, compiendo - a venti anni di distanza dal comico toscano - un proprio apprendistato poetico a contatto con gli ultimi "bernescanti" maremmani, e venendo iniziato in prima persona ai segreti della tradizione secolare del canto a braccio: una forma di canto a contrasto in cui due poeti si alternano lanciandosi le rime l'un l'altro. E' stato ciò che gli ha permesso di familiarizzarsi con l'universo di questi poeti, partecipando a lunghe serate a base di ottave e di vino. Non ultimo tra i meriti di questo libro è proprio quello di trasportare a sua volta il lettore nella realtà di una forma espressiva folklorica che è intessuta della vita di una comunità subalterna, ancor prima che di strofe ed endecasillabi.
Proprio a partire dalla consapevolezza del nesso profondo che lega una forma di improvvisazione alla sua matrice comunitaria contadina, questo studio esamina le trasformazioni mediante le quali essa ha potuto essere assorbita in un contesto non-folklorico, quale è quello delle eterogenee platee che affollano oggi i comizi comici di Roberto Benigni. Ripercorrere questo passaggio nient'affatto scontato diventa così un omaggio alla alterità radicale (nel senso strettamente etimologico) della presenza scenica del nostro comico più trasgressivo, e contestualmente un atto di fiducia nelle capacità segrete di rigenerazione della cultura folklorica. Poiché solo ciò che è vivo può mutare, riconoscere in Benigni la mutazione genetica di una originaria matrice popolare, significa imparare a capire le nuove e spesso irriconoscibili forme di esistenza di quest'ultima, piuttosto che limitarsi ad assistere impotenti alla disperata resistenza di quelle tradizionali. Imparare ad accettare il tradimento come prolungamento della tradizione.
Su tutt'altro fronte, questo libro affronta una questione piuttosto dibattuta dalla teatrologia contemporanea, quale è quella dell'improvvisazione, apportandovi l'originalità di osservazioni colte dal vivo, piuttosto che dall'analisi documentaria di ciò che resta della Commedia dell'Arte, per scoprire, anzi, che l'accesso di Benigni al Teatro, anziché per la via maestra della priorità del canovaccio e del tipo fisso, passa per l'assimilazione delle regole metriche del contrasto come dissoluzione derisoria di ogni trama e personificazione. La "carnevalizzazione", il "corpo grottesco", la "dissacrazione", l'"intertestualità" sono alcune delle categorie che aiutano a svelare i segreti dell'improvvisazione nonsensica e a scavare nel funzionamento "osceno" della drammaturgia di Benigni e della sua particolare presenza scenica. Il richiamo principale è allo studioso russo Michail Bachtin, con la sua concezione del "realismo grottesco". Ma i riferimenti spaziano dal criticismo kantiano all'approccio sociologico di Erving Goffman, dalle ricerche psicoanalitiche di Ernst Kris ai diversi decostruzionismi di un Wittgenstein o di un Baudrillard, secondo un percorso sicuramente eclettico, ma che testimonia della necessitò di moltiplicare piste di indagine e percorsi di lettura, dovendo sondare territori nei quali pochi e lievi sentieri sono stati tracciati.

L'autore, attore quanto teorico di teatro, che scrive libri come fossero copioni, è uno "zanni metropolitano" che si aggira in luoghi che scopre familiari, apprendendo che lo spazio in cui si muove assomiglia a un'aia, e che il pubblico tende a disporsi in-torno e a parteggiare per uno dei due personaggi in cui nel frattempo si è sdoppiato, mentre la lingua che usa ha regole tanto più complicate quanto più indulge al vernacolo.

Per notizie aggiornate su Andrea Cosentino, vedi.

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