Correva l'anno...
A Milano, lunedì 8 novembre 1999, ore 21, alla libreria Tikkun di Via
Montevideo 9 (tel. 02 - 89 42 04 35).
Ennio REMONDINO, corrispondente Rai, Miodrag LEKIC, ex ambasciatore jugoslavo, Alberto TAROZZI, sociologo di Bologna, e Claudio DEL BELLO curatore del libro, presentano “Il rovescio internazionale. Vademecum per la prossima guerra”, Odradek edizioni.
Perché e per chi è stato realizzato l’intervento Nato contro la Serbia? Come mai la creazione di un ennesimo staterello balcanico ha mobilitato tutto l’Occidente?
La “sinistra bellica” da D’Alema a Cohn Bendit è più simile ai socialisti interventisti di inizio secolo o alla "sinistra coloniale" della fine di quello scorso? Cosa farà la differenza, la propaganda umanitaria? Ma soprattutto, quale collasso ha colpito le coscienze?
A questo e a molti altri interrogativi ha cercato di rispondere “Il rovescio internazionale”: una raccolta di saggi analitici su una guerra che alcuni hanno postulato non dovesse essere chiamata guerra, che si dovesse farla e non dirla.
Intervento di Claudio del Bello
Abbiamo chiamato a presentare questo libro due testimoni d’eccezione: un diplomatico e un giornalista, due professionisti della dissimulazione, costretti da complicati sistemi di regole comunicative.
Miodrag Lekic ha esordito in un dibattito a Roma rammaricandosi: “non sono un libero pensatore”. Remondino non va all’estero per mandare cartoline spiritose.
Eppure nei loro interventi mediatici hanno proposto le uniche facce umane e pensose, attente, circospette.
Sono stati i personaggi più espressivi e critici nonostante fossero costretti da lacci e lacciuoli, da diverse ingessature.
Abbiamo chiesto loro di presentare il nostro libro; ma noi per primi ci auguriamo che lo considerino poco più che un pretesto; noi per primi vorremmo registrare un qualche slittamento della dissimulazione.
Quando abbiamo presentato il libro a Bologna, un pacifista non violento, dopo aver apprezzato il lavoro fatto, ha criticato il sottotitolo - Vademecum per la prossima guerra - in quanto sembrava che questo libro non riprovasse – o non riprovasse abbastanza la guerra – al punto da ammetterne la possibilità di una prossima.
Ho replicato che un libro non è uno scongiuro o una pratica di magia bianca, e che comunque Timor est smentiva lui e non il sottotitolo. E che la lista dei possibili interventi umanitari è molto più lunga di quanto non si riesca a immaginare.
Odradek, d’altra parte, non è un gruppo politico che ha risposte precostituite; non ha responsabilità del suo passato da rivendicare o da occultare; è un intellettuale collettivo critico e circospetto che vende merci in forma di libro. Giudichino i lettori.
Abbiamo cercato di far emergere lo scambio figura-sfondo, il crack semantico, la perdita o lo stravolgimento del senso, lo smarrimento dei più, dell’intellettualità, degli opinion makers.
Abbiamo fatto un passo indietro e ci siamo messi a guardare più che la guerra, quelli che ne parlavano.
D’altra parte potevamo presupporre un’informazione diffusa e pervasiva, ancorché mistificatoria.
In appendice ci siamo diffusi sulle possibili cause economiche. La prossima settimana mettiamo in distribuzione un altro libro sulla guerra, un libro “tecnico”, specialistico, firmato da “Scienziate e scienziati contro la guerra”.
L’informazione era abbondante, la riflessione sui dati poteva aspettare.
Ci è sembrato più importante occuparci di ciò che stava accadendo all’interno delle coscienze.
“Potevamo stupirvi con gli effetti speciali, e tramortirvi con analisi correttamente marxiane”, abbiamo preferito cogliere le trasformazioni nella costituzione materiale del mondo, colte nella coscienza dei più.
Abbiamo preferito occuparci di quello che accadeva a sinistra, considerando la guerra come l’occasione di un truce, imbarazzante e costosissimo test proiettivo.
Lo abbiamo visto: quella sinistra che si sta disunendo, che si disunisce sempre più, ha finito con lo smarrirsi proprio con la guerra.
Qualcuno di loro avrebbe dovuto prevederlo; le socialdemocrazie non ci guadagnano con le guerre, anzi ci perdono, anche se le vincono, le guerre.
Il secolo breve è stato il secolo durato un’unica guerra, sostiene Sergio Romano; ebbene, sono state le guerre o quell’unica guerra a frazionare costantemente, successivamente e progressivamente la sinistra. Al punto che si potrebbe sostenere che la sinistra è quella cosa che non tollera la guerra, che non ha anticorpi, che non trova nella sua tradizione che il rifiuto di essa, o la sua accettazione pena la propria estinzione.
Adesso, l’eco ai rimbombi della guerra era il silenzio delle coscienze, oppure la più o meno consapevole e deliberata mistificazione, la sua accettazione.
Il libro.
In ogni caso il senso del libro è consegnato alla prima pagina, alla citazione che lo apre, fulminante, a differenza di tante citazioni, allusive e criptiche; sfoggio di relazioni per lo più virtuali.
La citazione che apre il libro, di Maximilien Robespierre, del 1791, non ci gira intorno.
Robespierre dice che la guerra è una catastrofe per la democrazia perché, dice
«È durante la guerra che il potere esecutivo dispiega la sua più minacciosa energia... e il popolo dimentica le deliberazioni che riguardano essenzialmente i suoi diritti civili e politici».
Si fa presto a dire giacobino. È un termine che qui da noi è quasi sempre usato per riferirsi a magistrati forcaioli e giustizialisti.
Queste poche righe sono utili a restaurare un significato.
Puntualmente ogni volta accade.
I cittadini dimenticano e si disuniscono.
Il senso di questa guerra, a noi è sembrato, consistere nello scambio tra diritti politici e diritti umani, uno scambio ineguale, truffaldino
come lo scambio proposto agli indigeni tra specchietti e pepite d’oro
tu dare me diritti acquisiti, i diritti politici, i diritti del cittadino
e io dare te diritti umani, senza garanzie.
E questo scambio è stato accettato, tranquillamente, festosamente.
Pochi, mi pare, abbiano voluto cogliere - subito, perché ora la consapevolezza aumenta - il significato del bombardamento alla Jugoslavia come distruzione, una volta per tutte, non tanto della sovranità dello Stato, ma dello Stato in quanto materiale sua costituzione. Bombardare gli ospedali significava distruggere concetto e pratica della pubblica assistenza, bombardare le scuole significava distruggere concetto e pratica della istruzione pubblica, bombardare le sedi dei partiti e dei sindacati significava bombardare concetto e pratica della libera associazione e della politica. Ma che, soprattutto, bombardare le fabbriche significava bombardare sì il luogo dello sfruttamento - probabilmente con il plauso di molti “operaisti” - ma anche il luogo dei diritti acquisiti. Con il risultato che lo sfruttamento è rimasto, e sta ricadendo come polvere su tutti i Balcani, mentre i diritti, che hanno la loro forma, sono dissolti.
E non è finita lì. Io credo che non sia un caso se D’Alema dice ora, “Uffa il posto fisso”, se irride al diritto di non licenziabilità, generalizzando e annullando la “giusta causa”.
Bombardare uno Stato sovrano, con una sua storia - e che storia - come la Jugoslavia ha significato scassinare e disperdere il contenuto di una cassaforte contenente i diritti conquistati e acquisiti.
Il libro esce come terzo volume della collana Idek, dopo “Guerra civile e Stato” e “Il nemico inconfessabile” di Scalzone e Persichetti.
Ebbene i tre libri si sono venuti presentando come una riflessione sul diritto, sul rapporto diritto politica.
La circostanza non era voluta, l’insistenza è stata casuale.
Ora stiamo lavorando a un libro sulla nuova costituzione materiale, quella che si sta configurando e farà evaporare la nostra Costituzione.
Il saggio con cui si apre il libro è quello di Annamaria Rivera.
Perché Rivera ha scritto - insieme a René Gallissot - quell’importantissimo libro che è “L’imbroglio etnico”, uscito lo scorso anno.
Nel saggio riprende la sua critica al concetto di ETNIA - etnia come surrogato di RAZZA, etnia che ha lo stesso valore scientifico di razza, cioè zero - applicandola alla guerra umanitaria.
Vorrei concludere con un riferimento triste e sconsolato.
Non mi pare che le associazioni partigiane si siano particolarmente sbracciate contro l’aggressione alla Jugoslavia.
Secondo me avrebbero dovuto non per estrinseci motivi di gemellaggio - la Resistenza italiana è seconda solo a quella jugoslava - ma per i legami organici e reciproci. Centinaia di italiani hanno fatto la Resistenza in Jugoslavia, ma altrettanti jugoslavi hanno fatto la Resistenza in Italia.
Circa 250 comunisti jugoslavi evasero l’8 settembre dal carcere di Spoleto e andarono a formare il nocciolo duro della Brigata Gramsci, che operò tra Terni e Rieti fino all’arrivo degli Alleati.
Ebbene, la Brigata, che aveva come commissario politico Alfredo Filipponi, aveva come comandante militare SVÉTOZAR LÁKOVIC; e all’interno della Brigata operava un battaglione completamente formato da jugoslavi comunisti: il “Battaglione Tito”.
Milan Dóbric comandava un’altra banda più a nord.
Né i media, né le associazioni partigiane, né gli stessi Comitati hanno voluto accennare a questi legami, considerati forse ingombranti e impresentabili.
Le oche giulive e i servi sciocchi col microfono in mano, cioè i maggiori responsabili della diffusione dello stereotipo, del luogo comune martellante, i commentatori delle immagini, quelli che dicono “Le immagini si commentano da sole”, quelli non li abbiamo potuto marcare
ma la carta stampata l’abbiamo seguita, e abbiamo, sia pure molto sommariamente, raccolto in uno stupidario finale qualche documento, a futura memoria.
Ma se anche lo sport si regola con leggi che impediscono il confronto - se non amichevole - tra la Solbiatese e il Manchester united, e a maggior ragione quello tra un peso massimo e un peso mosca.
Nonostante il sistema mediatico abbia modulato l’evento in larga misura come un confronto sportivo, usando la moviola e il ralenti per i gol (sembravano tutti rigori comminati da un arbitro compiacente), amplificando il tifo scomposto e truce dei supporters e talvolta anche qualche “Milosevic alé”, mai ha sottolineato che l’evidente sproporzione, l’appartenenza a gironi diversi, avrebbe consigliato un no contest, mentre invece, al massimo, si incitava l’angolo a far volare l’asciugamano.
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