Qui di seguito le recensioni:
da
LE SCIENZE n. 460, dicembre 2006,
pp. 12-13
Portati dal vento: scienza e precariato
di Claudia Di Giorgio
LA TRASFORMAZIONE DEL LAVORO SCIENTIFICO DA STABILE A FLESSIBILE
STA FALLENDO IN TUTTO IL MONDO: PERCHÉ SI BASA SULLA
CONVINZIONE CHE IL SAPERE SIA UNA MERCE COME LE ALTRE
Un problema spesso sollevato quando ci si ferma a riflettere
sulle questioni della ricerca, in Italia come negli altri
paesi occidentali, è il cosiddetto calo delle vocazioni
scientifiche: sempre meno ragazzi si iscrivono alle Facoltà
che avviano a una carriera da ricercatore, e sempre meno laureati
di quelle Facoltà decidono poi di seguirla davvero.
Il problema è serio, e prefigura un domani in cui molte
nazioni oggi ai vertici dell'economia mondiale faranno fatica
a reggere la concorrenza dei paesi emergenti. Meno noto è
che una delle cause principali del problema, segnalata da
vari rapporti internazionali, è l'insicurezza del posto
di lavoro nel settore della ricerca. Non stiamo parlando dell'Italia
(o meglio, non solo). Studi, e allarmi, sull'influenza negativa
dell'instabilità del lavoro nella ricerca vengono,
tra l'altro, dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Francia
e da molti altri paesi. Li riassume nel suo ultimo lavoro
(Portati dal vento, Odradek Edizioni, 2006) Maria Carolina
Brandi, dell'Istituto di ricerca sulla Popolazione e le Politiche
Sociali del CNR, da tempo impegnata assieme ad altri, nello
studio delle risorse umane impegnate nella società
della conoscenza.
«La tendenza a sostituire il personale di ruolo con
personale a contratto a termine - spiega Brandi - è
stata esplicitamente incentivata dalle politiche dei paesi
maggiormente industrializzati dell'ultimo ventennio».
Dietro queste politiche vi sono molte ragioni, riassumibili
nella certezza di fondo che la competizione, nel «mercato.
della scienza come in quello di ogni altra merce, sia la strada
giusta per ottenere i risultati migliori. Riscosso dal letargo
del posto fisso, il ricercatore flessibile sarebbe anzitutto
più produttivo, poi più incline a trasferire
le proprie conoscenze (e se stesso) dall'accademia alle imprese
e tra un settore di ricerca e l'altro, e infine più
libero da pressioni e condizionamenti. Non è così.
A dispetto della difficoltà di effettuare indagini
su un universo variegato e imprevedibile come quello dei contratti
a termine, chi, come Brandi, ha affrontato la questione con
strumenti scientificamente attendibili, descrive un quadro
fallimentare: nel nostro paese come in altri, anche se le
anomalie del sistema imprenditoriale italiano rendono la nostra
situazione ancora più grave. Vediamo alcuni aspetti
di questo fallimento. Al rapporto tra calo delle vocazioni
e precarietà si è già accennato, ma vale
la pena di segnalare che «Science» ospita da cinque
anni un forum di testimonianze sul peggioramento delle condizioni
di lavoro e della qualità dell'insegnamento e della
ricerca nelle università americane e di altri paesi
causato dalla precarietà dell'impiego. E mentre negli
Stati Uniti si stanno diffondendo sindacati di graduate student
che hanno avuto confronti anche molto duri con le autorità
accademiche, in Francia la mobilitazione del movimento «Sauvons
la recherche» nel 2004 ha portato alle dimissioni del
ministro della ricerca Haigneré. Ai «flessibili»,
insomma, la flessibilità non piace. E, come confermano
le indagini di Brandi sui precari italiani delle università
e degli enti di ricerca, è vissuta come una necessità
e non come libera scelta, e il contratto a termine è
ritenuto accettabile solo come fase di formazione e selezione:
la gavetta a vita è un ossimoro intollerabile.
Che non aumenta affatto la produttività. l ricercatori
precari hanno un output scientifico elevato, riferisce ancora
Brandi, ma non superiore a quello dei ricercatori con un contratto
a tempo indeterminato, «confermando così che
la produttività di uno studioso dipende principalmente
dalle sue capacità e dalla validità del gruppo
in cui è inserito»: un dato rilevato anche nel
caso statunitense.
In Italia, poi, appare particolannente falsa l'idea che la
flessibilità stimoli il trasferimento di conoscenze.
Le imprese italiane non sono interessate all'innovazione tecnologica
(negli ultimi vent'anni la quota di produzione di merci ad
alta tecnologia non ha mai superato l’1 per cento) e
la maggioranza dei ricercatori precari della ricerca passati
alle imprese usa una piccolissima parte delle conoscenze acquisite
in precedenza. Smentita, infine, l'ipotesi che il ricercatore
flessibile svolga la propria attività più liberamente.
Anzi. I 798 intervistati nel 2004 da Brandi, Caruso e Cerbara
indicano a stragrande maggioranza che il fattore determinante
agli effetti del rinnovo del contratto è il sostegno
del responsabile del gruppo di ricerca, mentre i titoli scientifici
contano molto meno, e che assai raramente un precario presenta
richieste autonome di finanziamento o dirige un progetto di
ricerca. Non parliamo poi della possibilità di entrare
in quei gruppi e quelle commissioni in cui si decidono le
linee di sviluppo della ricerca. Tutto questo non è
una novità. I problemi rilevati nel 2004 coincidono
con quelli emersi in uno studio di cinque anni prima sui precari
del CNR; rispetto ad allora, la situazione è peggiorata,
grazie al blocco delle assunzioni e alla costante riduzione
dei fondi. Ma, secondo Brandi, l'Italia vive una versione
aggravata (per sue specifiche debolezze) di un problema generale.
Se il lavoro accademico non si è trasformato da «stabile»
a «flessibile» in nessun paese, la ragione è
una «impostazione concettualmente errata nelle sue stesse
ipotesi di base. [...] L'insostenibilità dei modello
di produzione scientifica basata sul precariato deriva proprio
dall'aver ideologicamente confuso la sana competizione scientifica
con la concorrenza sui mercati economici».
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da
Il manifesto, 14 dicembre
La
precarietà distrugge la ricerca scientifica
Indagine del Cnr sui ricercatori “Portati dal vento».
Smantellati tutti i luoghi comuni neoliberisti
Tommaso De Berlanga
Nulla come la scienza permette di diradare le nebbie. Accade
perciò che le teorie di moda su «fIessibiIità
e precarietà» - che sarebbero necessarie per
aumentare produttività e concorrenza - non hanno subito
ancora nessuna verifica attendibile: sfornando cioè
quantità, meccanismi, conseguenze. E soprattutto «misurando»
il tutto con strumenti trasparenti, messi a disposizione di
tutti. Non era accaduto - ed è paradossale - neppure
nel campo della ricerca scientifica, a sua volta sconvolta
da 14 anni di blocco delle assunzioni (per concorso) e sostenuta
solo grazie a iniezioni massicce di precari pluriIaureati.
Quando la scienza decide di indagare il fenomeno, i risultati
si vedono. Nella sala Marconi del Cnr, ieri mattina. oltre
150 ricercatorl e scienziati si sono misurati con lo studio
condotto da M. Carolina Brandi [Portati dal vento. Il mercato
del lavoro scientifico: ricercatori più flessibili
o più precari? Prefazione di Enrico Pugliese], che
ha inaugurato la collana scientifica delle edizioni Odradek.
Ne esce distrutto il Ieit motiv degIi editorialisti-liberisti,
secondo cui «il lavoratore (ricercatore) precario è
altamente produttivo perché mantenuto costantemente
sulla corda dalla precarietà contrattuale». Cominciò
a proporlo, per gli enti di ricerca, Confindustria nel '95,
in modo da «legare più strettamente ricerca e
imprese»; nonostante le imprese italiane siano sempre
meno interessate a fare e a utilizzare la ricerca scientifica
(solo il 3%, ormai).
Una «panzana», la definisce Enrico PugIiese. Il
frutto di una «ubriacatura ideoIogica», nelle
parole di Marco Broccati, della FIc-CgiI, che «però
non è stata ancora smaltita», e che disegna un
quadro negativo di lungo periodo. Persino studiosi Usa hanno
ormai accertato che la «produttività» scientifica
aumenta con la stabilità del contratto. Il perché
è intuitivo, ma i dati statistici lo confermano in
pieno: il precario, all'avvicinarsi della scadenza del suo
impegno, dedica sempre più tempo e attenzione alla
ricerca di un nuovo contratto. Anche la «mobilità»
intersettoriale o territoriale - altro argomento ritenuto
«forte» a favore della precarietà - risuIta
più alta tra i rirercatorl «garantiti».
Quanto all'autonomia, ben l'81% del campione dichiara di non
aver neppure mai chiesto un finanziamento su un proprio progetto.
Il mito della «concorrenza» è duro a morire,
ma nel lavoro scientifico, però, la precarietà
genera solo «rivalità» e gelosie tra partecipanti
allo stesso gruppo, mentre la «sana competizione»
per ottenere risuItati migliori si palesa solo tra chi ha
un contratto stabile. Le donne, infine, escono massacrate:
hanno mediamente contratti a termine di durata inferiore e
più lunghi periodi di precarietà prima di raggiungere
l'agognata assunzione. Il precario, infine, risulta anche
meno «fIessibiIe», più «ancorato»
allo stesso settore. La situazione internazionale dei paesi
avanzati è praticamente identica quanto a dinamiche,
l’Italia, però, «eccelle» in negatività:
siamo l'unico paese Ocse in cui i ricercatori diminuiscono
di numero e la spesa in ricerca delle imprese cala continuamente.
Il risultato più importante della ricerca della Brandi
è però un altro: la precarietà e la flessibilità
non sono soltanto un'intollerabile gogna per le persone che
vi sono costrette (e stiamo parIando di aspiranti scienziati
che ammettono di aver fatto «una scelta di vita»,
rinunciando magari a posti di lavoro certamente più
remunerativi), ma sono anche un cancro che mina le possibilità
di sviluppo di un paese e deIla sua popoIazione, preparando
il degrado della conoscenza e quindi l'arretramento complessivo
(economico, scientifico, culturaIe, sociale).
Non c'è da sorprendersi, infatti, se dal combinato
disposto di riduzione della spesa, precarietà contrattuaIe,
autonomia erosa da una «stratificazione di divieti»
di origine e motivazione ragionieristica, svalutazione industriale
deII'impegno scientifico, venga fuori una percezione sociale
diffusa che vede nella carriera scientifica un «salto
nel buio». Da dove pensate che nascano fenomeni come
la «crisi delle vocazioni» e la «fuga dei
cervelli»?
Le risposte che si pretendono dalla politica - in questo consesso
di scienziati che non nasconde di aver inutilmente sperato
nella vittoria del centrosinistra – non mirano a un
«ritorno al passato», né alla «sanatoria
ope legis» che non distingue tra ricercatori meritevoli
e imboscati per via clientelare. Ma almeno a un’“inversione
di tendenza” rispetto alla corsa ai tagli finanziari,
e alla riapertura dei concorsi con criteri meno raccapriccianti
di quelli attuali (solo il 25% del punteggio viene dai titoli
e dalle pubblicazioni scientifiche), questo sì.
C’ero
anch’io alla presentazione di Portati dal vento,
e posso dire che il resoconto che ne dà Tommaso De
Berlanga - omonimo e forse discendente di quel Tomás
de Berlanga casuale scopritore delle Galàpagos - è
ottimo, sia per ciò di cui riferisce, sia, soprattutto,
per ciò che ha finito per tralasciare, e cioè
gli interventi dei rappresentanti (?) dei precari, di obbedienza
negriana, per lo più. Ha fatto bene, perché
in quel consesso il vero soggetto era la “comunità
scientifica” che s’interrogava sul vulnus
portato dalla precarizzazione, sul quale le testimonianze
particolari e soggettive nulla avevano da aggiungere. Il giochetto
di mettere l’uno contro l’altro il garantito e
il non garantito – che riuscì, purtroppo, negli
anni Settanta, nel più generale contesto del lavoro
salariato – non riesce nel particolare contesto del
lavoro scientifico. L'attacco viene portato all'intera comunità
scientifica e questa reagisce, mi pare, unitariamente.
cdb
da
repubblica.it
Raccolti
in un libro i risultati di un'indagine su questo segmento
del mercato del lavoro
Tra insoddisfazioni e paura del futuro. E intanto si alza
l'età media dei ricercatori
La maledizione del precario scientifico
"Una vita piena di stress e tensioni"
Il
mercato del lavoro nel settore scientifico sempre più
all'insegna della precarietà: il 10,2% dei ricercatori
ha avuto infatti un contratto a tempo determinato e il 9,7%
un assegno di ricerca; i "Co.co.co." e le altre
forme di collaborazione sono il 35,8%, mentre i borsisti di
vario genere sono 37,4%. Un'incertezza che provoca stress
e tensioni anche nella vita privata.
Ai ricercatori precari è dedicata l'indagine svolta
dell'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche
sociali (Irpps) del Consiglio nazionale delle ricerche, pubblicata
nel volume Portati dal vento. Il nuovo mercato del lavoro
scientifico di Maria Carolina Brandi dell'Irpps-Cnr.
Un altro dato che desta preoccupazione è poi l'elevata
età media dei ricercatori, dovuta anche al blocco delle
assunzioni a tempo indeterminato negli enti pubblici di ricerca.
All'indagine hanno risposto, attraverso un questionario informatico,
798 ricercatori con contratto a termine di alcune Università
e dei maggiori Enti pubblici di ricerca italiani. "Dall'esame
dell'età si rileva innanzitutto che il 5,2% ha più
di quarant'anni, il 20,6% è tra i 35 e i 39 anni, mentre
il 43,4% è tra i 30 ed i 34 e solo il 30,7% ha 29 anni
o meno", spiega Carolina Brandi. Un effetto, questo,
dei tempi di attesa: "Anche 5 anni prima che un ricercatore
possa vedere stabilizzata la propria collaborazione. Al momento
dell'intervista, infatti, il 60% dei casi aveva rapporti di
lavoro in atto di durata intermedia, il 32,3% usufruiva di
contratti brevi (di un anno o meno), mentre pochissimi (7,7%)
avevano contratti di durata superiore ai tre anni".
Ma come incide nella vita privata il perdurare di questa instabilità?
"Per il 97,4% è causa di stress emotivo, che il
59,3% dichiara 'forte'". La produttività scientifica,
invece, sembra non risentire dell'incertezza: "L'output
scientifico del campione è elevato e nella media -
aggiunge l'autrice - a conferma che esso dipende dalle capacità
e dalla validità del gruppo e non dalla stabilità
del rapporto di lavoro". Inoltre, nonostante le difficoltà,
emerge che la ricerca è una scelta di vita per gli
intervistati, una vocazione che di fatto scoraggia il passaggio
ad altre professioni nelle quali, pure, l'85,9% ritiene di
avere possibilità di inserimento e il 68,5% anche con
un salario più alto.
postato
il 12 dicembre 2006
da Galileonet
Scienza e precariato
di Andrea Capocci
sta su http://www.galileonet.it/recensioni/7942/scienza-e-precariato
M. Carolina Brandi
Portati dal vento. Il nuovo mercato del lavoro
scientifico: ricercatori più flessibili o più
precari?
Odradek 2006, pp.200, euro 15,00
Può sorprendere che uno studio denso di tabelle e analisi
statistiche sia pubblicato da un'editrice militante (che non
vuol dire approssimativa) come Odradek. Tuttavia, malgrado
lo stile accademico, l'immagine del mondo della ricerca italiana
che emerge dall'analisi di M. Carolina Brandi non perde in
impatto, anzi: si rafforza proprio per l'ampiezza della documentazione
e la complessità del tema, trattato senza semplicismi.
La questione è di strettissima attualità: le
conseguenze della diffusione endemica di forme di lavoro atipico
nelle università e negli enti di ricerca. Brandi e
la sua équipe dell'Istituto di Ricerca sulla Popolazione
e le Politiche Sociali del CNR chiariscono un dubbio: la precarizzazione
del lavoro di ricerca si è tradotta in un formidabile
boomerang per la stessa comunità scientifica. In questi
anni, e non solo negli atenei, la flessibilità del
rapporto di lavoro è stata giustificata dalla necessità
di svecchiare, fluidificare e rendere più efficiente
l'organizzazione produttiva. Ebbene: per quanto riguarda la
produzione e la trasmissione di conoscenze, il “core
business” di ricerca e università, la precarietà
non ha portato nulla di tutto ciò. Al contrario, ha
finito per aggravarne i difetti storici. La ricerca di Brandi,
dunque, smonta diversi luoghi comuni.
Per esempio, l'analisi comparata rivela che la richiesta di
maggiori tutele per i ricercatori non è il piagnisteo
italiota di una generazione che rimpiange il posto fisso.
In questi ultimi anni, il malcontento contro la ricerca co.co.co.
è emerso persino nei paesi scandinavi che investono
in ricerca molto più che le briciole nostrane. Anche
a New York, nel 2006, si arrivò agli scontri di piazza
per i diritti dei giovani ricercatori. Trattasi, com'è
evidente, di sistemi diversissimi per storia e tenore di vita.
Perciò, la radice del comune disagio non risiede nel
livello di finanziamenti e stipendi, così diversi tra
loro: piuttosto, sta nell'organizzazione "a progetto"
che, dagli Usa alla Svezia, priva la ricerca pubblica delle
prospettive di lungo periodo su cui può dimostrare
la sua utilità e la sua necessità.
Né la gerarchia accademica, spesso un vero feudalesimo,
è scalfita dalla riorganizzazione dell'attività
intorno a figure ibride (assegnisti, borsisti, parasubordinati,
docenti a contratto). Il 78 per cento dei ricercatori intervistati
da Brandi afferma che il sostegno del capo è un fattore
determinante per la prosecuzione della carriera, con buona
pace dell'indipendenza del lavoro di ricerca. E in un'inchiesta
svolta soprattutto da donne, non può mancare una prospettiva
di genere. È donna il 53 per cento dei ricercatori
a termine intervistati con contratti di durata inferiore a
un anno, mentre gli uomini si accaparrano il 59 per cento
dei contratti che durano 3 anni e più. Alla brevità
dei contratti, inoltre, corrisponde una maggiore subordinazione:
l'appoggio di un “padrino” accademico conta più
del merito per il 65 per cento delle donne, percentuale che
scende al 50 per cento (comunque elevata) tra gli uomini.
La distanza tra il “marketing della precarietà”
e la realtà è quanto mai vistosa: basti ricordare
che la flessibilità fu introdotta per favorire le esigenze
del lavoro femminile (così si disse all'epoca), mentre
oggi una donna è una ricercatrice di serie B. È
un fenomeno trasversale all'intera società, che non
risparmia nemmeno i settori di attività più
qualificati. I dati raccolti e analizzati dal gruppo di ricerca
di M. Carolina Brandi, dunque, mostrano come la precarietà
dei ricercatori sia il sintomo di una crisi sistemica più
profonda, che lascia poche incertezze sull'interrogativo del
titolo (“Più flessibili o più precari?”).
Ora, almeno, si possono chiamare le cose con il loro nome.
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