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Salvatore Verde
MASSIMA SICUREZZA
Dal carcere speciale allo stato penale

pp.225 € 13,00

 

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Chi si è stupito e indignato per la mattanza perseguita a Genova dalle “forze dell’ordine”;chi è inorridito davanti alle pozze di sangue nella scuola Diaz o ascoltando i racconti di quanti sono passati nella caserma di Bolzaneto, è bene che sappia che tutto ciò è la normalità della segregazione. Una “normalità” in rapida degenerazione, che avanza sull’onda di una svalutazione integrale della sfera dei diritti a semplice “ostacolo” della redditività delle imprese, dell’efficienza della pubblica amministrazione, della pervasività illimitata delle sue capacità di controllo. Dell’ “ordine”, insomma.
Trent’anni dopo Il carcere in Italia di Giulio Salierno, ecco il libro che fa di nuovo il punto e a capo su quel mondo oscuro, volutamente ignorato, che è l’interno del carcere e delle logiche che lo governano. Logiche che è bene conoscere, sezionare e confutare specie quando – come ora – si vanno estendendo oltre e fuori le mura, disegnando le “nuove” relazioni tra potere e popolo nella vita sociale quotidiana.
Dall’inizio degli anni ’70 ad oggi, movimenti interni ed esterni al carcere ne hanno messo in discussione la natura e l’essenza come paradigma costitutivo dell’universo concentrazionario. La risposta dello Stato si è condensata in due riforme del diritto penitenziario (nel ’75 e nell’86), entrambe orientate alla rottura della “separatezza” tra carcere e società civile. L’intenzione riformista, realizzata solo in minima parte, era “umanizzare” il carcere; la pratica quotidiana è stata indirizzata invece nel senso di legittimare nella società “libera” concetti e prassi della disumanizzazione. Né si è verificato alcun processo “molecolare” di diffusione spontanea. Anzi, come Genova dimostra, è in corso di realizzazione centralizzata l’idea che il popolo fuori la cerchia del potere sia un “nemico” cui non va riconosciuto nessun diritto. E che al controllore centrale, livida reincanazione dell’ “occhio di dio che tutto vede”, nulla debba mai sfuggire.

Salvatore Verde (
Capri,1957), operatore carcerario.

Per una storia dell’internamento in Italia.

Il carcere di Salvatore Verde.


di Enzo Albano


“ Non è quindi separabile l’interesse per il modo di esistere e la cultura degli strati subalterni da una visione della società globale ; e dalla ricerca degli strumenti utili per la sua trasformazione”così Danilo Montaldi tracciava il solco per inchieste che volessero avere un respiro ed una dignità politica, e volessero affrontare il tema prescelto in maniera veramente globale.
Il libro di Salvatore Verde, Massima Sicurezza,raccoglie questa sfida e, mettendosi decisamente contro corrente, getta ampie carrellate di luce sulla storia recente della nostra massima istituzione di segregazione. La consapevolezza, che muove la ricerca, è appunto quella che una storia sociale che non si voglia fermare alle parole ed alle pratiche di chi detiene il potere, e soprattutto il potere di parola, non può non interrogarsi su quel mondo oscuro, volutamente ignorato, che è l’interno del carcere e delle logiche che lo governo.
Trent’anni dopo il Carcere in Italia di Giulio Salierno, il libro di Salvatore Verde ritorna sul tema terribile, ma con un approccio ed un taglio profondamente diversi; il processo di trasformazione dell’istituzione che il libro racconta, infatti, tiene come polo informativo il movimento di riforma che lo ha attraversato per un lungo periodo e che, ad un certo punto, si è intrecciato con le vicende dei militanti della lotta armata incarcerati. L’ipotesi di partenza della ricerca è particolarmente succulenta: le ragioni dell’equilibrio e della stabilità del potere nell’attuale sistema penitenziario italiano sono da ricercare anche nella sostanziale eclissi di questo soggetto politico; come correttamente ricorda l’A., dal laboratorio politico – istituzionale che fu generato dallo scontro del movimento con il potere venne fuori una diversa ingegneria del controllo ed un modello penitenziario che, negli anni 90, hanno mostrato una grande efficacia nella gestione della deriva autoritaria delle politiche sociali neoliberiste, emblematicamente rappresentate dalle violente ondate di criminalizzazione della miseria che da tempo disegnano un nuovo spazio sociale della penalità.
Le retoriche di legge ed ordine e di tolleranza zero, assolutamente bipartisan, sono diventate l’unico linguaggio attraverso cui la c.d. la società civile riesce a narrare se stessa ed a rimarcare la propria distanza da quelli che lei stesso nomina ed istituisce criminali e che vuole esclusi, segregati ed in galera. L’aumento vertiginoso delle carcerazioni in questi anni è anche il frutto di queste retoriche, oltre che nella tendenza della “nuova penologia” ad abbandonare l’obbiettivo del reinserimento, proprio dell’epoca del welfare, per accettare “strategicamente” l’esistenza di zone sociali ad alto rischio di emarginazione criminali. L’istituzionalizzazione dell’esclusione ed un destino di carcere segnano irrimediabilmente l’orizzonte della miseria e del disagio sociale.
La ricerca prende le mosse dal vecchio carcere “paternalistico ed autoritario”, contrassegnato da un radicale e progressivo utilizzo di mezzi fisici di coercizione, in un crescendo disciplinare, articolato su un puntuale elenco di punizione e per contrappunto la previsione di alcune ricompense.Ricorda l’A. come il Regolamento carcerario dell’epoca descriva la condizione di isolamento come una graduale e progressiva somministrazione di sofferenza. Agli inizi degli anni 70, i fattori di crisi economica e sociale, che colpiscono i paesi occidentali, determinano un crescente ricorso a politiche repressive, con un forte processo di crescita delle carcerazioni. Cresce, però, anche la consapevolezza e la cultura “altra”; forti spinte liberalizzatici, sostenute da una affermazione radicale di nuovi diritti di cittadinanza, sottopongono gli apparati repressivi ad una incalzante critica sociale, fondata sulle ideologie del recupero e del reinserimento. Sotto questa spinta crolla il vecchio carcere sabaudo, in crisi di legittimazione e governabilità con continue esplosioni di rivolta, anche per l’azione culturale e politica dei movimenti dell’estrema sinistra. La riforma non può più attendere ed arriva il 26 luglio 75. Reca con sé tutti i connotati e gli stilemi dell’epoca Vengono, infatti, previsti tre circuiti penitenziari: il carcere riformato, destinato alla vasta area di criminalità comune, dove si sperimenta il nuovo, richiesto dall’ideologia trattamentale (le nuove forme del controllo penale si giocano sulla territorializzazione dell’esecuzione e sullo scambio pena – comportamento ), l’area dei detenuti a medio indice di pericolosità e le carceri speciali, destinati ai militanti della lotta armata ed ai vertici della criminalità organizzata. Si tratta di un piccolo capolavoro di ipocrisia, nella quale si concilia la marea culturale montante, contrassegnata dalla ideologia della rieducazione e del reinserimento con la repressione dura nei confronti dei nemici dello Stato, rinchiusi nelle famigerate carceri speciali. In buona sostanza, comunque, il carcere cessa dall’ essere una mera scuola di violenza e diventa una palestra di obbedienza; i benefici previsti dalla legge saranno fruiti solo dagli osservanti. Osservanti per definizione ed emblematici sono i collaboratori di giustizia, fiore all’occhiello di tutta le legislazione d’emergenza. Giustamente nota l’A. come la legislazione speciale d’emergenza abbia finito per agire tanto sulla macchina repressiva quanto su quella giudiziaria: in effetti l’edificazione del sistema dell’emergenza è stata la risposta istituzionale alla rivolta sociale. I tratti salienti di quel sistema rimarranno come lascito ed eredità culturale, anche per i giudici progressisti e segneranno tutta la legislazione penale a venire, risultata un mix indigesto di severità repressiva e perdonismo becero, con una costante caduta dei livelli di garanzia e di credibilità complessiva del sistema. Bisogna attendere il 1986 per vedere un’altra riforma organica dell’ Ordinamento Penitenziario ed è la meglio conosciuta legge Gozzini. Le rivolte sono finite, le irruzioni dei corpi speciali negli istituti, gli omicidi ed i sequestri degli uomini degli apparati penitenziari ormai un ricordo. L’emergenza sociale sembra ormai cessata e la legge sui dissociati sembra essere l’emblema di una resa e di una sconfitta del partito armato. L’ Amministrazione Penitenziaria si assume il compito di tradurre in domanda politica il disagio che proviene dalle prigioni e di indirizzare la protesta verso le forme della non violenza e del gradualismo riformista. In ogni caso le parole d’ordine della nuova riforma sono sorvegliare e premiare: definitivo assestamento di un nuovo modello di governo del carcere e forte accelerazione della diffusione territoriale del controllo della devianza penale. Emblematica di queste parole d’ordine sono appunto la legge sulla dissociazione ed i permessi premio, con il contro altare per questi ultimi del giudizio di pericolosità sociale. Se la prognosi di “recuperabilità” è condizione essenziale per la premialità e per accedere ai percorsi decarcerizzanti previsti dalla legge, il suo giudizio rimane quanto di più controverso sul piano teorico, di più discrezionale sul piano delle pratiche, quanto di più duttile nell’esercizio del governo dell’internamento . Basta pensare che detti giudizi si basano sugli atti dell’osservazione penitenziaria, sui pareri dei Direttore delle carceri, le osservazione dei servizi sociali territoriali e, fondamentalmente, sulle note informative dei carabinieri e delle questure. Come è stato giustamente osservato, in fase esecutiva la discrezionalità giudiziaria viene ad operare su un oggetto in parte fortemente pre – selezionato dal carcere stesso. Intanto siamo agli anni 90, all’altro ieri o anche all’oggi della repressione, la crisi di lunga durata del carcere, raccontata in questa ricerca è al suo temporaneo epilogo. Si tratta di un epilogo da “grande internamento”: le carceri continuano a riempirsi con il cospicuo contributo della criminalizzazione di tossicodipendenti ed extracomunitari. Lo Stato, incapace di rispondere alle domande di lavoro, di eguaglianza sociale, di cittadinanza, mostra come al solito il pugno duro e continua a reprimere ed incarcerare gli strati più deboli ed emarginati, continua ed implementa la repressione del disagio sociale, soprattutto degli ultimi tra gli ultimi, tossicodipendenti ed extracomunitari appunto.
La storia, narrata da Salvatore Verde, è in controluce la storia di questo paese, è un utile esercizio di memoria, è una storia militante, nel senso più nobile ed alto del termine. La trama di questa storia è quella che abbiamo ricordato, ma l’ordito è l’affresco politico nella quale essa è stata agita, con i suoi attori politici e le loro scelte; ma è soprattutto la storia della sinistra, sempre in difficoltà e spesso subalterna nei confronti del problema della criminalità e delle sue maniere di affrontarla.
La narrazione ha un prezioso contro-canto nei tre intermezzi che separano le sezioni della ricerca: raccontano il carcere vissuto da vicino, esprimono solidarietà ed empatia nei confronti dei diseredati, ricordano che essi non sono altro da noi, ma soltanto, nella maggior parte dei casi, uomini e donne segnati dalla miseria, dagli stenti, dalle privazioni. Se è vero, come ha scritto Walter Benjamin, che “ l’arte di narrare volge al tramonto, perché il lato epico della verità, la saggezza, vien meno, la narrazione di Salvatore Verde recupera in pieno la forza epica, e, partendo dall’esperienza, la trascende traendone una saggezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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