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Eduard Limonov
Diario di un fallito

pp.176 € 13

 

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E poi all’improvviso ti svegli in una via tua e non tua, indossando l’abito di Pierre Cardin, un mitra nella mano destra, un fanciullo, l’amico tredicenne, al fianco sinistro. Tornate alla base; siamo a Beirut, oppure a Hong Kong, e una pallottola ha trapassato la tua spalla sinistra, lasciando intatto l’osso.

Arrivato col flusso della terza ondata migratoria dall’Urss, l’America ammaliatrice l’aveva finalmente accolto in un misero spazio della città simbolo. Sperava, Limonov, in un’accoglienza migliore? Difficile rispondere. Con sicurezza, però, sappiamo che ben presto non accettò le regole del gioco che prevedevano una espulsione non già, come in Urss, dal Paese, ma dai luoghi del consumo e dell’identità – sopravvivenza, altro che libertà di espressione! E ciò che per un americano significa alienazione, per un emigrante diventa totale estraneità. La stessa, peraltro, vissuta da tutti i russi capitati lì prima di lui, ma che in Limonov sublima in coscienza letteraria, in delirio rivoluzionario; in riscoperta della tradizione lirica russa, in concitate scene da film di cappa e kalashnikov. Negli anfratti, divincolandosi di tra i rifiuti, convive con la fauna interstiziale, incontra mogli e amanti, alienati e ribelli, mestieri e servizi: tutto in soggettiva, in campi molto corti, con l’occhio incollato alla cosa.
Bentornato, compagno Limonov.

Eduard Limonov è poco conosciuto dal pubblico italiano, ma un tale personaggio non può rimanere inosservato. È lo scrittore russo che ha costruito un mito della propria esistenza, un autore prolifico e poliedrico. Negli anni ’70 voleva fare la rivoluzione con le armi in mano per spazzare il “marcio” di questa civiltà. Negli anni ’90 ci ha provato davvero, combattendo in Serbia, in Abchazia, in Moldavia. Chi non lo prendeva sul serio si sarà ricreduto dopo l’arresto per attività sovversiva, vera o presunta. Le sue opere letterarie ora sono passate in secondo piano, ma rimangono inseparabili dalla sua personalità e saranno forse più durature delle sue fortune politiche.
Diario di un fallito è generalmente considerato dalla critica come il suo libro migliore: il più sincero e il meno politicizzato. Le pagine di diario sono collegate in un solido impianto narrativo, un tracciato di punti che si allargano in chiazze di colore, trattenendo fedelmente ciò che sfiora il suo sguardo: le nuvole e i rifiuti urbani, i vecchi e i bambini, le signore eleganti e le prostitute stanche. Sui brani si proietta il cambio delle stagioni, delle donne, dei lavori, delle abitazioni. Le incursioni nel futuro e i ricordi del passato fanno da contrappunto alle sue peregrinazioni in una New York fatiscente e sontuosa. L’artificio è minimo, il narratore mescola il sogno e la realtà, rincorre il miraggio di una società diversa, respinge o assume, a seconda dell’umore, la realtà che lo circonda. Il cinismo di Limonov, il fango di cui si copre vivendo, diventa dura scorza che protegge l’anima. Non segue mai la corrente, semmai la crea: in Unione Sovietica scriveva racconti alternativi, in America sogna di sparare al Presidente. Le elucubrazioni politiche, ispirate da un idealismo che si confonde con le fantasticherie adolescenziali, gli hanno procurato più rovesci che vittorie. Si è affermato come scrittore, ma non conduce di certo una vita agiata e tranquilla. In Russia è una tradizione: la fama letteraria non esclude la prigione. D’altra parte, essere un eroe non è per Limonov un artificio pubblicitario, è il suo modo per continuare a sostenere il peso del mondo moderno. Finché ti dài da fare la partita non è persa. Nelle avversità, Edišcka rimane fedele a sé stesso: un fallito, che anche nel periodo fortunato si ricorda dei “riti del popolo dei falliti”; resta un perdente a oltranza, che non smette di credere e sognare.

Eduard Limonov (Dzeršzinsk, URSS, 1943), poeta, scrittore, comunista di ritorno. Dopo un’infanzia burrascosa in Ucraina si avvicina all’intelligencija dissidente. Nel 1974 emigra negli Stati Uniti. Dal 1980 vive in Francia, raggiungendo il successo letterario. Con il crollo dell’URSS ritorna in Russia. Nel 1994 fonda il Partito Nazional-Bolscevico. Dal febbraio 2002 al giugno 2003 viene imprigionato con l’accusa di traffico d’armi e attività sovversiva. È autore di oltre venti pubblicazioni, fra narrativa, saggi politici e raccolte di poesie. Diario di un fallito è presentato per la prima volta in traduzione italiana.

LIMONOV, IL FALLITO CHE VOLLE FARSI VATE 24/09/04
Diario di un fallito,
di Eduard Limonov, a cura di Marina Sorina
Odradek Edizioni, pp. 176, 13 euro

Mauro Martini su www.lettera22.it
Venerdi' 24 Settembre 2004

“A me personalmente piace solo scrivere, ma neanche sempre. In generale preferisco non far nulla. Preferisco pensare. Ricordare le poesie. Prendere il sole. Mangiare la carne. Bere il vino. Fare l’amore oppure organizzare la rivoluzione. Scrivere, -magari qualche volta”. Eduard Limonov non si è molto discostato nella sua turbolenza vita da questa dichiarazione programmatica che risale alla seconda metà degli anni Settanta e compare nel Diario di un fallito, testo letterario pubblicato nel 1982 e soltanto oggi approdato ad una irrinunciabile versione italiana, curata con passione e competenza da Marina Sorina. Negli ultimi ventidue anni Limonov ha fatto di tutto. L’intellettuale un po’ grassoccio e con gli occhialini tondi che scandalizzava gli ambienti dell’emigrazione russo-sovietica, raccontando in una prosa densa e aperta ad ogni contaminazione le miserie esistenziali dei loro protagonisti, non esiste più da tempo. Oggi lo scrittore ha appena passato la sessantina, ostenta un fisico asciutto e curato e di sicuro ricorda con simpatia le antiche polemiche che lo volevano tra Francia e Stati Uniti agente provocatore del Kgb. Bazzecole in confronto al monumento in cui Limonov è riuscito a trasformare la propria esistenza, quasi come un avanguardista del primo ‘900. Non si è risparmiato nemmeno due anni di galera con l’accusa di aver organizzato un attentato terroristico, circostanza sempre negata, ma un po’ a malincuore, come se il suo Partito nazional-bolscevico, fondato ormai un decennio fa, non fosse naturalmente portato a limitarsi alle mere intemperanze verbali di un organo di stampa, “Limonka”, croce e delizia dell’intelligencija moscovita. E d’altronde Limonov vanta, non si sa esattamente con quale fondamento, una partecipazione armata al fianco dei “fratelli” serbi durante la guerra di Bosnia. Insomma, il vecchio Edichka, lo scrittore anticonformista che si scagliava contro coloro che egli considerava i bacchettoni dell’emigrazione ostentando una sessualità ingorda e onnicomprensiva, è riuscito a diventare quel che aveva sempre sognato, fin dal suo arrivo a Mosca nel 1966, proveniente dalla natia Char’kov, quando per far breccia nella cerchia progressista delle riviste del disgelo si prestava a cucire i pantaloni dei redattori snob e squattrinati delle testate più prestigiose. Oggi Limonov è agli occhi delle generazioni più giovani un autentico mito, costruito non sulla condivisione di idee politiche spesso aberranti, ma sull’apprezzamento della capacità di coerenza estrema, della disponibilità a pagare di persona in una dimensione tutta estetica, ed estetizzante, dell’esistenza. “Virtù” cui lo scrittore conferisce piena espressione letteraria in una nutrita serie di testi dati alle stampe negli ultimi anni. Volumi discontinui, tutti di natura autobiografica, tra i quali spiccano Il libro dei morti e Il libro dell’acqua.
Il Diario di un fallito è l’imprescindibile premessa a ciò che Limonov rappresenta oggi, il testo capitale sicuramente più decisivo di quel Sono io, Edichka, pubblicato nel 1980 e a suo tempo importato in Italia dalla traduzione francese con il titolo, suggestivo ma fuorviante, Il poeta russo preferisce i grandi negri. Fu insulsa la scelta di ignorare l’originale russo per il semplice motivo che la grande novità dello scrittore consisteva nella sua capacità di inventare una lingua ben lontana da quella normatività che all’epoca ancora affliggeva una letteratura per cui molto contava il bello scrivere. Non a caso Andrej Sinjavskij affrontò coraggiosamente la sfida di pubblicare le opere del giovane e controverso autore proprio nell’intento di valorizzarne l’originalità linguistica e immediatamente fu bersaglio delle polemiche di autorevoli esponenti dell’emigrazione che vedevano in quei lavori delle pure e semplici provocazioni. Quanto quelle diatribe fossero inconsistenti lo dimostra la lettura odierna del Diario di un fallito: grazie alla competenza e alla sensibilità della traduttrice si riesce a cogliere a distanza di più di vent’anni la dirompenza di un lungo monologo in cui il “fallimento” denunciato nel titolo si traduce nel consapevole rifiuto di ogni limite. Non c’è modo di fare esperienza del mondo circostante senza ricercarne gli aspetti estremi e ripugnanti, soprattutto nella sfera sessuale che rimane il luogo privilegiato della conoscenza a patto di non farsi condizionare dai canoni riconosciuti della bellezza. D’altronde per Limonov non c’è modo di separare l’esperienza dalla violenza. Una violenza che da un lato è esasperata reazione al mondo occidentale che respinge il giovane emigrato sovietico, ma d’altro lato è l’unico strumento di cui si dispone per far sì che la sfera delle convenzioni non abbia il sopravvento. E’ solo la primordiale violenza del desiderio fisico che consente di abbracciare una fresca vedova e di superare il lutto della recente scomparsa. E’ solo l’odio intenso per la civiltà che può assicurare la speranza di un cambiamento. In un delirio che approda al sogno di assassinare il presidente degli Stati Uniti e che ha come unico punto d’appoggio alla realtà una rigorosa coerenza linguistica. Con buona pace di tutti coloro che continuano a prendere per veri i proclami dell’aspirante Vate Eduard Limonov.

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Ne ha voluto parlare Milly Berrone su esamizdat. Bene, ci pare.

Se, come sostiene Calvino, tanto nella letteratura quanto nella vita tutto quello che apprezziamo come leggero finisce invariabilmente per rivelare il proprio peso insostenibile, Il diario di un fallito di Eduard Limonov rappresenta il versante esattamente opposto alla levità di Kaminer. All’umorismo e alla melanconia di quest’ultimo corrispondono infatti la prosopopea e l’intenzionale teatralità di Limonov. Pur avendo vissuto e narrando nei propri testi la medesima esperienza di vita, l’emigrazione, non è possibile trovare due autori più distanti l’uno dall’altro, ma i tempi ed il contesto sono radicalmente mutati.
Le Edizioni Odradek presentano infatti, a più di venti anni dalla sua data di pubblicazione, la traduzione italiana, curata da Marina Sorina, di Diario di un fallito oppure. Un quaderno segreto, scritto dall’autore intorno al 1977 a New York e apparso in Francia nel 1982. Espressamente dedicato ai falliti e ai perdenti di tutto il mondo, questo testo, suddiviso in venti capitoli a loro volta composti di brevi frammenti lirici, racconta in forma di diario, in una sorta di poesia in prosa, come nota nella prefazione la traduttrice, un anno della vita di Limonov a New York.
Ex enfant terrible sovietico che al pari di Venicıka Erofeev non volle e non seppe mai adeguarsi, come nota Gian Piero Piretto (“La Russia “dentro e fuori l’Europa””, Mappe della letteratura europea e mediterranea; III. Da Gogol’ al postmodernismo, Mondadori, 2001, p. 49), nel 1974 Edicıka Limonov, pur non considerandosi un dissidente, abbandona l’Unione Sovietica in cerca di una maggiore libertà di espressione e, dopo aver soggiornato per qualche tempo a Vienna, a Roma e a Parigi, si trasferisce a New York. Se l’America tuttavia piace a gran parte degli emigrati russi, così non è per Limonov che, con la delusione e la rabbia di chi non riesce a trovare spazio nel tanto agognato paradiso delle libertà, nelle pagine del suo primo romanzo composto negli Stati Uniti (Sono io, Edicıka. Il poeta russo preferisce i grandi negri) si scaglia violentemente non solo contro il capitalismo ed il way of life americano, ma anche contro gli emigrati russi, soprattutto contro il premio Nobel Josif Brodskij, che, ricambiati, quel sistema lo hanno invece pienamente accettato. Terminato nel 1976, il romanzo, che non verrà mai pubblicato negli Stati Uniti e vedrà la luce soltanto nel 1980 in Francia, dove Limonov ritorna dopo aver lasciato New York, trova un anno dopo, nel 1977, il suo cotè intimo e privato proprio in Diario di un fallito.
Le vicende che vi sono narrate coinvolgono infatti – nota sempre la traduttrice nella sua prefazione alla traduzione – le stesse persone, lo stesso periodo, la stessa storia del precedente romanzo, ma su tutto domina, in una disperata e disperante solitudine, la voce del narratore, la voce di Edicıka che, abbandonandosi totalmente non solo alla confessione, ma anche ad un sommo autocompiacimento, tenta di costruire attraverso le pagine del suo diario, offerto impudicamente alla curiosità del pubblico, il mito negativo della propria esistenza, andando, come sottolinea Mauro Martini, ben oltre la semplice identificazione tra arte e vita (Oltre il disgelo. La letteratura russa dopo l’Urss, Mondadori, 2002, pp. 15-21). Abbandonato dalla moglie russa e ignorato dalle case editrici newyorkesi che non hanno alcuna intenzione di pubblicare il romanzo che ha appena terminato (si tratta ovviamente di Sono io, Edicıka), Eduard Veniaminovicı, Edik, Ed’ka, Edicıka, E.L. o Edward che dir si voglia si barcamena tra mille impieghi precari, abbrutendosi in uno squallido albergo di periferia o facendosi mantenere dalla cameriera di un ricco americano, nella costante ricerca di avventure sessuali – ora reali, ora immaginarie – con donne, uomini, adolescenti e persino bambini, senza mai smettere di imprecare contro il sistema americano che trasforma i suoi cittadini in schiavi, per giunta idioti. La narrazione oscilla costantemente non solo tra il passato agreste e rurale, in ogni caso sereno, dei suoi ricordi d’infanzia e di gioventù, il presente della degradante avventura newyorkese ed un improbabile futuro di rivoluzioni e assalti al sistema americano, ma anche tra l’esibita e compiaciuta esaltazione di sé e l’intimistica contemplazione della natura in uno scadente romanticismo a tratti adolescenziale. Non è un caso infatti che la narrazione si concluda con il trasferimento di Edicıka nella casa di campagna del riccone di turno, dove, nella contemplazione del cielo aperto egli riesce finalmente a trovare tranquillità, pur continuando a sognare di disseminare violenza contro se stesso e contro la società che lo circonda: “Pallottola, sei bella. Pallottola, sei vendicativa. Pallottola, sei bollente. È bello sparare da una distanza ravvicinata nella pancia gonfia e moscia del Presidente degli Stati Uniti d’America, protetto solo da una camicia a quadri da contadino, riuscendo a prendere la mira tra due spalle larghe, nel caldo asfissiante di una fiera agricola dei farmers dello Iowa, nel paese del mais gigantesco e dei manzi capaci di schizzare un getto giallo che buca la terra. Correre verso i trattori nuovi di zecca, entrare nel padiglione tecnologico e sprangare la porta…E mentre quelli tentano di sfondare le porte e le finestre, alzarsi in piedi sul tetto e spararsi alla tempia una bollente pallottola. Addio!”.
Molto si è scritto su Eduard Limonov dentro e fuori la Russia, soprattutto da quando, al suo rientro nella ormai ex Unione Sovietica, l’estremista politico ha preso il posto dello scrittore, alleandosi dapprima con Zıirinovskij, fondando successivamente il Partito Nazional-Bolscevico e scontando infine più di due anni di carcere per un’infondata accusa di traffico di armi, banda armata, terrorismo e attività sovversiva. Al di là di quanto scritto sul Limonov attivista politico, la migliore interpretazione, perlomeno in Italia, di Diario di un fallito è tuttavia quella di Mauro Martini che scorge nel protagonista di questo testo la descrizione dell’homo violentus “nella sua forma più pura, quella incarnata nell’emigrato dall’Unione Sovietica che guarda dall’esterno, e con una buona dose di rabbia, quel mondo occidentale da cui si sente irrimediabilmente escluso e che denuncia la voglia frustrata di integrazione invece di perpetuare l’immagine dell’intellettuale sempre pensoso delle sorti della madrepatria”. Esprimendo inoltre un’opinione più generale sulla attività del Limonov scrittore, Martini gli riconosce da un lato il pregio di essere sempre rimasto un uomo di letteratura fino al midollo, pur avendo sempre cercato di disonorare la letteratura stessa, mentre per altri versi si rende conto di come spesso ciò che egli scrive, pur essendo letterario al massimo grado, non riesca a conquistarsi una autentica dimensione artistica.
Non è facile – bisogna ammetterlo – nell’affrontare la prosa di Eduard Limonov riuscire non solo a distinguere il provocatore ed il delirante rivoluzionario dallo scrittore, ma anche superare l’irritazione provocata da una scrittura spesso immatura. Va tuttavia detto che la scelta delle Edizioni Odradek di presentare finalmente in una traduzione italiana, estremamente attenta e curata, il Diario di un fallito è indubbiamente lodevole. Non solo fino ad oggi in Italia era apparso unicamente un suo racconto, contenuto nell’antologia di Viktor Erofeev, I fiori del male russi, curata per la Voland da Marco Dinelli, oltre ad una traduzione dal francese (!) del romanzo Il poeta russo preferisce i grandi negri per Frassinelli, ma la possibilità di leggere in italiano questo testo di Limonov è senza dubbio estremamente utile per comprendere più a fondo tanto la letteratura dei decenni immediatamente precedenti il crollo dell’Unione sovietica, quanto i più recenti sviluppi del postmodernismo in terra di Russia. Va infatti riconosciuto a Limonov e alla sua opera il merito, indubbiamente condiviso, tra gli altri, con Venedikt Erofeev, di aver introdotto nella letteratura russa temi e procedimenti, non da ultimo il ricorso al lessico basso, che in questi ultimi anni ne sono diventati il tratto caratteristico, merito che tuttavia i diretti interessati, da Pelevin a Sorokin, da parte loro si guardano bene dall’ammettere.

http://www.esamizdat.it/recensioni/berrone2.htm

IL CASO EDUARD LIMONOV, SCRITTORE E DEMENTE POLITICO
in Alias de il manifesto, del 2 ottobre 2004
la Talpa libri
Violento di culto

Libro dell'acqua (scritto in carcere) e Diario di un fallito (di vent'anni prima): due uscite italiane per il fondatore del partito nazionalbolscevico, che fa d'ogni risentimento una prosa esplosiva, coercitiva
di Mauro Martini

Un tronco maschile nudo che emerge dall'acqua e a cui il bordo superiore dell'immagine taglia di netto la testa. Un gioco di muscoli che conferisce a quel busto una postura scultorea ma al tempo stesso un'immobilità ravvivata dal fitto intreccio di graffiti in penna rossa che una stessa mano ha tracciato su quella citazione della classicità pagana. Il grafico che due anni fa ha studiato la copertina dell'edizione russa del Libro dell'acqua di Eduard Limonov per i tipi di Ad Marginem (ora ne esce la traduzione italiana, curata da Mario Caramitti, per la padovana Alet: pp. 256, € 17,00) ha colto così, lapidariamente, lo spirito del testo, lo sforzo dell'autore di costruire un monumento a se stesso e di converso limpossibilità di fargli emanare armonia e compostezza di fronte alla prevalenza di una prosa frammentata che si spoglia di ogni orpello per consentire l'esplosione della violenza insita in ogni scrittura.Se Limonov è oggi in Russia uno scrittore di culto, soprattutto tra le generazioni più giovani, lo si deve all'immediatezza con cui le sue pagine lasciano capire che le fatiche dello scrivere consistono nella continua coercizione che ogni riga deve esercitare nei confronti di chi legge. Poco importa che il buon Edicka abbia trascorso in carcerazione preventiva ben due anni con l'imputazione di acquisto d'armi e di partecipazione a banda armata - reato collegato alla preparazione di un attentato per conto del Partito nazionalbolscevico, la rumorosa ma poco vitale creatura politica dello stesso Limonov. Nessuno ha mai prestato eccessivo credito a un'accusa talmente mal costruita che la stessa magistratura ha alla fine chiuso la faccenda con una sbrigativa condanna a quattro anni, derubricando i reati e rimettendo immediatamente in libertà l'imputato, il quale aveva trasformato la sua cella, nel carcere di transito di Lefortovo, in una fucina letteraria di prim'ordine, licenziando migliaia di pagine. Molti invece hanno visto in quell'arbitraria detenzione la volontà di stroncare una letteratura intransigente, troppo votata alla descrizione della pulsione originaria della scrittura per trovare il modo di stringere compromessi. Due anni in galera e un autore, in precedenza noto per gli happening trasgressivi del suo partito, che ha travalicato l'angusto ambito della politica moscovita e dei professionisti della letteratura per diventare una voce controversa ma autorevole della narrativa russa.Il Libro dellacqua, che di Lefortovo è figlio, riprende all'apparenza l'eterna ossessione autobiografica di Limonov, affrancandosi però dalla vocazione diaristica dei primi anni di attività e proseguendo invece nell'organizzazione in “libro” intorno a un tema prefissato inaugurata con il Libro dei morti, in memoria dei molti defunti tra gli occasionali compagni di viaggio. L'acqua del titolo sta a segnalare i mari, i fiumi, i laghi, le fontane, le saune, le piogge che hanno costellato la vita dell'autore e si traducono in frammenti narrativi privi di coerenza cronologica. D'altronde l'unica coerenza che si può pretendere dall'autore è quella letteraria, perché assai poco tiene insieme il giovane Savenko (il vero nome di Limonov) - il provinciale di Char'kov che arriva a Mosca per conquistare l'ambiente della letteratura “liberale” e si ritrova a cucire pantaloni agli accigliati direttori delle riviste più prestigiose - con l'odierno leader politico votato al culto di una durezza virile da mettere al servizio di un contenitore ideologico piuttosto confuso ma comunque destinato a raccogliere i nostalgici di un ordine imperiale perduto. Lo stesso Limonov ha provveduto a correggere progressivamente il tiro. Quand'era soltanto uno scrittore emigré, odiato dai suoi compatrioti per la scarsa venerazione nei confronti delle gerarchie letterarie della Russia all'estero, la sua bandiera era il bisessualismo più spinto, mentre adesso, che si presenta come un palestrato capo nazionalbolscevico, il bisessualismo sfuma a vantaggio di una ostentata pedofilia.
Già questo basterebbe per capire che il materiale autobiografico va preso con la dovuta cautela, perché non si potrà mai essere sicuri delle prodezze belliche di Limonov in Abchazia o nella Krajina di Knin a fianco del comandante Arkan oppure nella Transdnistria. Né la cosa importa più di tanto. Conta invece il modo in cui l'originaria esplosione di risentita violenza viene tradotta in una prosa da un lato sapientemente orchestrata sui temi che maggiormente feriscono la coscienza russa, e dall'altro giocata sui registri dell'imposizione e della seduzione al tempo stesso. Casualmente, dopo una lunghissima assenza dalle librerie italiane, Limonov vi è rientrato quest'anno con questo Libro dell'acqua - che è del 2002 - e con il Diario di un fallito, pubblicato un ventennio prima (traduzione di Marina Sorina, Odradek Edizioni, pp. 176, € 13,00). La lettura dei due testi è istruttiva perché i due traduttori hanno, forse inconsapevolmente o forse forzati dall'originale, privilegiato corde diverse: il Limonov di Caramitti è crudamente violento, il mitra e la donna ridotta a orifizio sono i due poli di un vitalismo tetro, disperato, cui fa da contraltare l'impossibilità di penetrare al fondo di paesaggi sempre descritti come morti; il Limonov di Sorina è invece accattivante, usa il suo rifiuto dell'Occidente come un'arma per vincerne le difese e non esita a farsi seducente. E i due Limonov convivono ancora adesso in pagine terse e affascinanti che si fanno leggere solo a patto di trascurare ogni considerazione etica o politica e di aver voglia di vedere la violenza oltre il velo delle convenzioni e dei pregiudizi per ciò che essa è, vale a dire un incontenibile impulso. Andrej Sinjavskij considerava il giovane Edicka una promessa della letteratura russa e scatenò feroci polemiche pubblicandone i testi a Parigi all'interno di quell'emigrazione che li accolse assai negativamente, adducendo i più vari motivi, dall'ossessivo turpiloquio alla scabrosità delle situazioni, passando per la ferocia con cui erano ritratti alcuni emigrés, Iosif Brodskij in testa. Sinjavskij naturalmente trovava una notevole consonanza tra la propria prosa e quella di Limonov, entrambe fondate sul pieno dominio della finzione letteraria sull'esistenza, fino al punto di piegare la vita alle esigenze della letteratura. Probabilmente però, alla base di quel giudizio favorevole vi era l'intuizione che Edicka avesse trovato una peculiare via di uscita dal disfacimento dell'utopia sovietica, una sorta di tentativo di ritorno al magma originario della violenta esplosione rivoluzionaria, un percorso a ritroso seguito senza speranza ma fingendo di credere nella praticabilità di una seconda chance. È un po' quello che oggi Limonov fa risibilmente in politica, finendo con il limitarsi ai gesti dada del lancio di colori e di uova contro i malcapitati bersagli e negando ogni nostalgia in un virilismo che vive soltanto dell'atto e non si lascia comporre in una strategia razionale. Il Partito nazionalbolscevico non è però che un pallido riflesso di ciò che Limonov ha tentato e tenta in letteratura, la pratica di uno squarcio che riduce l'intera realtà a finzione.

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La vita quotidiana raccontata attraverso le pagine di un diario che non risparmia niente: i dolori e i rifiuti, la gente, i vecchi, i bambini, le ex mogli che te le ritrovi davanti quando meno te lo aspetti. E poi le delusioni, le confessioni. Intanto intorno cambiano le stagioni, i tempi, la storia.


Chiara Lico, in http://www.lettera.com/libri/libro.jsp?id=5181 scrive così del nostro Limonov.


Diario di un fallito: La volontà di farsi conoscere


Il mondo. La vita. Pareva che tutto si fosse fermato. Il sole in faccia è la pace nell’anima.
Solo che tutto ciò è un imbroglio. Domani, dopodomani, di nuovo sarà esploso il mondo…di nuovo i capelli si sporcheranno, il vento sferzerà, la pioggia bagnerà, la donna tradirà, e io bacio una foglia rossa, che cade sul mio libro. Salve, Natura!
E voi, gente, ammazzatemi, per favore, in un modo spettacolare.

Sono pagine dure, queste. Tanto da far pensare, mentre le sfogli, che ci sia anche una certa compiacenza nella crudezza delle espressioni. Miraggi icastici, a volte anche troppo, di una realtà da ingoiare così come ci si presenta. Così come Limonov vuole presentarcela e rendercene partecipi.
Un diario che al di là del privato che racconta, ha il pregio di ristabilire un rapporto con una storia poco conosciuta. E da lì, nasce la curiosità di conoscere anche il protagonista che la vive e che ce la racconta. Ma attenzione: quest’opera è anzitutto un atto di narcisismo. Alla base c’è la volontà di farsi conoscere, di essere scoperto, riconosciuto, al limite anche ammirato in tutto quel che rappresenta una forzatura al senso comune: “mi piace essere un avventuriero. Mi torna spesso utile. All’improvviso piove, e mi sento povero e nauseato, e mi viene da piangere, allora penso: - ehi, sei un avventuriero, può capitare. Tieni duro, ragazzo, te la sei scelta tu questa strada, non volevi una vita normale – ora beccatela, e non ti lamentare”. E questo è niente in confronto a quel che si trova leggendo questo Diario di un fallito che ci prova gusto a sentirsi tale. Quasi che la sofferenza, a prescindere dal tipo, sia comunque un pregio da esibire.
Il bello veramente di questo testo sono gli sprazzi di verità. Mai edulcorati, mai regalati o forzati. Li trovi lì, ad attenderti come luci che di tanto in tanto ti fanno strada e che servono a darti la via: la realtà, brutta, sporca, malsana e dolorosa è comunque la realtà. E con lei vanno fatti i conti. Non mistifica niente, Limonov. Semmai il contrario. Ma tutto questo non deve indurre in errore: tanta aderenza alla realtà non significa che il sogno sia archiviato. Piuttosto che va preservato, curato, coccolato pena la sua dissipazione. E questo sarebbe il peggiore dei reati, il più grave dei peccati. La realtà e il pelo sullo stomaco che essa comporta sono il solo modo di tenere al caldo la fantasia, la felicità che aspettiamo, quel domani che sarà - che dovrà essere - comunque migliore dell’oggi.

 

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