IL
NEMICO INCONFESSABILE
- che esce contemporaneamente a L'ENNEMI INAVOUABLE,
Paris, Editions Dagorno, 1999 - è stato scritto
per il pubblico francese al fine di spiegare il "maggio
italiano", durato dieci anni, e soprattutto in quali
circostanze in Italia la sinistra radicale avesse preso le
armi, e le avesse usate. E quindi perché una misura
transitoria come lo "stato d'emergenza" - stato
di guerra interna contro un nemico innominabile dissimulato
sotto spoglie giudiziarie - sia diventata dispositivo permanente
e forma di governo.
Questa particolarità, ne siamo certi, provocherà
nel lettore italiano una sorta di salutare straniamento; Oreste
Scalzone e Paolo Persichetti,
infatti, propongono uno scarto, uno spiazzamento nelle modalità
incancrenite con cui ciascuno e tutti si riferiscono alle
vicende dell'insurrezione - sociale e
armata - degli anni 70. Che riescano a imporlo ai troppo sordi
che urlano sul campo non è dato sapere. Che sia uno
dei pochi approcci che prescinda dall'impasse imbarazzante
e miserabile in cui son cadute le menti degli "addetti
ai lavori" è assolutamente certo.
Indossano i panni scomodi dell'esule, protagonista lontano
di una storia remota; abiti comodi per la mente, però,
che può così lavorare libera dagli affanni del
"non dar fastidio al potente che tiene le chiavi della
mia prigione" e da quelli - forse ancora più costringenti
- del "non compromettere le sorti della mia brillante
carriera". Interviene da par suo un ispirato Erri
De Luca, che proprio non riesce a raccontarsi la
favola di una gioventù "rivoluzionaria ma estranea
alla violenza".
Paolo Persichetti ha scritto un articolo
molto interessante sulla questione degli esuli e dell'amnistia
su LIBERAZIONE di giovedì 19 giugno 2008. Clicca su:
http://www.liberazione.it/Giornale_Archivio.php?GO=SI&page=&EDData1
=19%2F06%2F2008&EDData2=19%2F06%2F2008&Autore=persichetti&
Testata1=LIBERAZIONE&Parole=&Legame=FRASE
Cos'è
cambiato da allora? I Merli continuano a cantare...
Il
Merlo, il Dissociato e il Fuoriuscito
di Paolo Persichetti
Francesco
Merlo, su la Repubblica del 18 gennaio, scrive peste e corna
dei fuoriusciti riparati in Francia. Li raffigura simili ad
un circo Barnum e, come in un mattinale della Questura, s’inventa
pure un fantomatico dibattito tra ‘uscisti’ ed
‘entristi’ della lotta armata. Soprattutto prende
di petto Oreste Scalzone, che dopo trent’anni ha avuto
reati e condanna prescritti. Il suo è un minestrone
di parole che ammucchiano colore, gossip, dicerie, fandonie,
pregiudizi. Ce l’ha persino col loro modo di parlare.
L’argot inevitabile d’ogni migrante che ha dovuto
apprendere la nuova lingua per necessità. Ma poi aggiunge
che alcuni tra loro pubblicano libri, fanno ricerca universitaria,
aprono librerie e negozietti, senza rendersi conto della contraddizione.
Ha da ridire anche sul fatto che non vestono Prada e si meraviglia
di come si possa campare ventisei anni di espedienti, cioè
di precariato. Domanda interessante, questa, che dovrebbe
rivolgere ai cantori nostrani della deregolamentazione del
mercato del lavoro.
Chi vede Parigi dagli appartamenti dei grandi boulevards,
e guadagna con un solo articolo il corrispettivo di quattro
stipendi da operaio e otto da precario nei call center, è
preso d’angoscia di fronte ad una simile prospettiva
e percepisce i marciapiedi delle città, il caldo maleodorante
del suo reticolo sotterraneo di vie ferrate, come un’insidia
dura e ingenerosa.
Dante parlava dell’esilio con parole molto amare: «tu
lascerai ogni cosa diletta/ […] Tu proverai sì
come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale».
Sarà che ognuno fa le sue esperienze, saranno le diavolerie
della tecnologia, ma a Parigi ci sono tanti ascensori e infinite
scale mobili e poi ad esser salato è il burro, non
il pane. Insomma, se la città la vivi dai sottotetti
dei quartieri popolari e multietnici, quella durezza diventa
generosità, solidarietà, complicità naturale,
intreccio di vite che arrivano da mille angoli del pianeta,
ognuna con la sua valigia di storie. Scalzone, e altri come
lui, tutto questo l’hanno vissuto sempre al presente,
senza nostalgie, senza rimpianti e con le radici che ormai
crescevano all’insù.
Sarà forse solo una lontana parentela, ma le parole
di Merlo ricordano quelle di un giornale pubblicato a Parigi
con le finanze dell’Ovra, la famigerata polizia politica
di Mussolini. Era rivolto alla folta comunità di emigranti
italiani e s’intitolava, guarda caso, il Merlo. La sua
ragion d’essere era la calunnia quotidiana dei fuoriusciti
antifascisti.
Immorale è il viaggio quando si rimane stranieri, ha
scritto tempo fa Claudio Magris. E stranieri i fuoriusciti
non lo sono mai stati. La nostalgia è stata quella
degli altri, come racconta Milan Kundera, anche lui un tempo
esiliato. Nóstos e Àlgos sono parole greche
che indicano «ritorno» e «sofferenza».
Nostalgia è dunque la tristezza che provoca l’impossibilità
di tornare. Ma in altre lingue l’etimologia è
diversa e trae origine dal latino ignorare. In questo caso,
la nostalgia si esprime come «sofferenza per l’ignoranza»
di non sapere quel che accade lontano da noi. Ma Scalzone,
in tutti questi anni, non ha avuto il tempo di rimpiangere
e ignorare proprio nulla, come Ulisse nell’alcova di
Calipso. Coinvolto tra mille incontri e scoperte in tutte
le battaglie della nuova modernità liquida, come la
chiama Zygmunt Bauman: migranti, senza tetto, giovani delle
banlieues, precari, altermondialisti, scioperi come quello
generale del ’95, mentre a casa sua facevano tappa musicisti,
poeti, teatranti e giramondo, scappati e scampati da magistrature,
eserciti e polizie di mezzo mondo, compreso qualche fascista
gravemente ammalato e un democristiano ricercato. Per farsi
aprire bastava esibire come passaporto un mandato di cattura.
I nostalgici sono rimasti in Italia, alcuni perché
hanno fatto degli anni ’70 l’oggetto del loro
incarognito risentimento, come Sergio Segio. Uno che si racconta
avvinto da un ineluttabile destino. «Non c’è
salvezza possibile per chi ha sognato di cambiare il mondo»,
scrive in un libro dove inanella una serie impressionante
di goffe citazioni scapigliate, iscrivendosi nel «novero
dei destinati alla sconfitta che non scelgono l’esilio
ma di andare fino in fondo, pagando quel che bisogna pagare
al sogno a lungo coltivato». Convinzione che lo porta
a rivendicare una sorta di primazia etica: l’aver prima
commesso l’errore giusto ed in seguito aver ripudiato
nel modo più giusto la giustezza dell’errore
passato. Prova d’eccellenza assoluta, che giustificherebbe
il suo irrefrenabile desiderio d’accedere allo status
di persona non comune che un tempo si diceva persino comunista.
Immerso nella recita di uno stucchevole copione dannunziano,
raffigura se stesso avvolto in un’atmosfera d’estetismo
combattente: «anima capace di tenerezza», che
sceglie «di morire non nella lenta emorragia della vita
ma di fretta, senza risparmio, come candele accese dai due
lati, non per malattia del corpo ma per quella della coerenza,
per un’inguaribile infezione dell’anima».
Poeta armato, novello Sturm und Drang, sognatore impaziente,
adepto del carpe diem, declama: «i nostri attimi sono
eterni e ci ripagano di tutto». Fiore appassito più
che fiore del male, maledetto mancato ma redento riuscito,
anche se con parole che indulgono sempre al calibro ben oliato
e al rimirar la poesia del gesto, la metrica dell’intenzione
che conduce ad un eroico «andar incontro alla bella
morte». Quella altrui, ovviamente. Una prosa a metà
tra l’imitazione di Marinetti e quella del Vittoriale,
senza risparmiarci il lieto fine hollywoodiano che condanna
l’infausto protagonista a vivere finalmente ravveduto
e contento, e che – per dirla con Jim Thompson in Colpo
di spugna – di fronte allo specchio della propria vita
non può fare a meno di sputare ogni mattino sulla faccia
di quel che è stato lo scaracchio di ciò che
è diventato.
L’esperienza dei fuoriusciti rappresenta da oltre vent’anni
un’anticipazione del possibile, ciò che avrebbe
potuto essere il futuro italiano se fosse stata varata una
soluzione politica per gli anni ’70. Una smentita cocente
per gli imprenditori dell’emergenza, un esempio da cancellare
con ferocia e motivo d’incontenibile livore per chi
tra dissociazioni e pentimenti, in cambio di laute ricompense
premiali, non perde occasione di salire in cattedra e recitare
l’autocritica degli altri. A Sinistra, come a Destra,
molti scimmiottano il riformismo blairiano. Ma il primo ministro
inglese si è sporcato le mani con il conflitto irlandese,
ha negoziato con l’IRA, ha liberato tutti i prigionieri
politici, anche con reati di sangue, e stabilito tappe di
un processo politico che ha condotto alla fine del conflitto.
In Italia, invece, la sua tanto decantata strategia viene
imitata solo per liberalizzazioni e privatizzazioni. Siamo
l’unico paese in Europa in cui il ciclo politico della
lotta armata è stato chiuso vent’anni fa con
un atto unilaterale dei suoi militanti. Siamo gli unici ad
avere ancora un centinaio di fuoriusciti e prigionieri politici
ormai prossimi ai trenta anni di carcere. Siamo gli unici
a selezionare le vittime: Calabresi sì, Pinelli no.
Guardare al rientro di Scalzone come all’ennesima occasione
possibile per voltare pagina non sarebbe forse più
utile e intelligente? Domanda superflua in un paese che ha
seppellito i fatti sociali degli anni ’70 sotto la memoria
penale, mentre le stragi, da quelle nazi-fasciste a quelle
che hanno tentato di fermare i movimenti, rimangono impunite,
senza verità, chiuse in un armadio con le ante rivolte
verso il muro. In Italia i passati rivoluzionari non possono
diventare Storia. Per questo l’unico futuro che riesce
ad affacciarsi all’orizzonte sembra avere il colore
plumbeo della colpa. Selettiva, naturalmente.
Pubblicato Febbraio 3, 2007 10:17 PM su
da
http://www.carmillaonline.com/archives/2007/02/002131.html
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