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Francesco
Muzzioli
Il Gruppo '63
Istruzioni per la lettura
Illustrato con numerose immagini
ISBN 978-88-96487-23-5
pp.222
€ 18,00
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Dalla
quarta di copertina
La ripresa dell’avanguardia negli anni Sessanta è stato un fenomeno diffuso in molti i paesi occidentali, ma in Italia ha trovato un luogo particolarmente fertile, arrivando alla formazione di un movimento numeroso, organizzato e combattivo più che altrove.
A cinquant’anni ormai dalla sua data di fondazione, il Gruppo ’63 continua a suscitare grandi discussioni sia per le sue teorie che per le sue proposte operative; segno che quella “invasione di campo”, quella radicale affermazione di diversità, nonché l’idea dell’autore come elaboratore del linguaggio collettivo, non hanno smesso di portare sconcerto, squilibrio e conflitto.
Questo libro fornisce le informazioni e le nozioni necessarie per comprendere la neoavanguardia italiana nelle sue coordinate storiche e letterarie, fornendo i ritratti dei principali protagonisti, da Sanguineti a Pagliarani, da Arbasino a Spatola, da Lombardi alla Vasio e a Malerba, oltre a indicazioni su Balestrini, Giuliani, Porta, Rosselli, Niccolai, Pignotti, Manganelli, Di Marco, Perriera, e molti altri autori, interni od esterni al Gruppo, dando altresì ragione di come per la prima volta sono accolti a far parte del movimento creativo e inventivo anche i critici e i teorici in dibattito tra loro, come ad esempio Barilli, Guglielmi, Curi ed Eco sviluppando un vero e proprio lavoro attorno al linguaggio. Così che le istanze del Gruppo ’63 continuano a essere pressanti e urgenti ancora nella situazione attuale per chi non si accontenti della riduzione della letteratura a fiction e vada alla ricerca di scritture che “facciano pensare”, alimentando l’intelligenza e allenandola per essere pronta alle sfide del futuro. |
Francesco Muzzioli (Roma, 1949) insegna Critica letteraria presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Si è occupato principalmente degli autori del Novecento e delle linee di ricerca dell’avanguardia e dello sperimentalismo; nell’ambito della teoria letteraria si è interessato al dibattito delle tendenze e dei metodi. Tra i suoi volumi più recenti: Letteratura come produzione (Guida, 2010); Come smettere di scrivere poesia (Lithos, 2011); L’analisi del testo letterario (Empiria, 2012); Verbigerazioni catamoderne (Tracce, 2012). Per Odradek, Qui si vende storia (con Nevio Gambula, 2010). Con Mario Lunetta, ha diretto gli Almanacchi Odradek dal 2003 al 2007. |
Qui di seguito schede, recensioni e interviste di
Felice Accame ** Armando Adolgiso ** Gualberto Alvino Renato Barilli ** Mario Lunetta ** Carlo Marchese Lanfranco Palazzolo ** Federica Santini
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Magistrale recensione di Mario Lunetta su Reti di Dedalus
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Renato Barilli su "L'immaginazione" n.275, maggio-giugno 2013
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Su OBLIO, Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, Anno III, numero 11, Settembre 2013, a p. 273, una attraente scheda di Gualberto Alvino. Qui.
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Dal Blog di ODRADEK.
Il Gruppo '63: il morto non è sepolto abbastanza
Giovedì 28 febbraio è uscito dalla tipografia Il Gruppo ’63 di Francesco Muzzioli. Ma già il 14 febbraio, Eugenio Scalfari aveva propinato su l'Espresso questa intemerata. Il libro di Muzzioli è una ricostruzione scientifica. Ma, a leggere Scalfari, chiunque si occupi di quella cosa là è un fiancheggiatore. Gruppo ’63? Bleah! Anzi, doppio Bleah!! Notevole, ma non sorprendente, la consonanza con una “uscita” di Giuseppe Conte su Il Giornale. “Misera eredità”, “Avanguardia da vagone letto”. Un fuoco di sbarramento espresso-repubblica-ilgiornale. Il Gruppo ’63 li ha messi d’accordo. Ci risiamo.
Il problema di un uso anticonformista della letteratura, solitamente rimosso e cancellato dall’agenda, si riaffaccia periodicamente con gli anniversari del Gruppo ’63, come quest’anno per giunta con la cifra tonda del mezzo secolo. La scadenza potrebbe almeno suscitare qualche riflessione seria. Ma no! I reduci, ormai interessati ad altro, si abbandonano ai ricordi oppure scherzano e minimizzano (il gruppo non è mai esistito, è stata una esperienza giovanile, ecc.). Dall’altra parte si rinnovano le espressioni irritate, gli avvisi di non ricevimento. Stavolta perfino un santone laico come Scalfari non ha saputo fare di meglio (forse perché troppo assorbito nel fare le sue profezie elettorali) della solita lezioncina sull’intellettualismo, la mancanza di rischi e la distanza storica di un fenomeno ormai superato. Ma è facile dire “non hanno prodotto opere”, senza specificare in base a quale parametro si impianta la valutazione estetica! Quando Scalfari, nel suo assai poco delicato vetro soffiato, sentenzia che “le rotture furono soltanto culturali”, io dico: magari ce ne fossero! Capisco che la mancanza di punteggiatura faccia faticare un lettore dei classici, ma un po’ di fatica nella lettura non può fare che bene e aiutare la riflessione. Il fatto è che, se il tema dell’avanguardia suscita ancora queste rimostranze, ciò significa che il morto non è sepolto abbastanza. Insomma, vogliamo dirlo che il problema di animare la scrittura in modo inventivo e “abnorme” e di restituirle la fisionomia di un campo di ricerca non è affatto tramontato? Poi si potrà valutare se alcune scelte degli anni Sessanta siano o no utilmente praticabili, ma ci vorrà pur qualche procedimento divergente per uscire dall’assuefazione dei generi di consumo e per non restare inebetiti tra il giallo e il noir, tra la saga e il triangolo sentimentale, oppure nello sfogo privato dell’effusione lirica? Quelli sono davvero “trifogli rinsecchiti”! Per rottamare il sistema letterario è necessario tornare al 63!
Carlo Marchese
Altri commenti e recensioni, qui.
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Armando Adolgiso su Nybramedia - nella sezione Cosmotaxi - intervista Francesco Muzzioli su "Il gruppo '63. Istruzioni per la lettura".
«Cinquant’anni fa nasceva il Gruppo '63 che fece gridare alla scandalo i parrucconi dell’epoca.
Evidentemente a qualcuno dà ancora fastidio quel Gruppo nonostante si sia sciolto nel 1969; quell’episodio della vita letteraria italiana tuttora suscita stizza, da sempre senile, su giornalini e giornaloni.
Ad esempio, Eugenio Scalfari, abbandonato per una mezz’ora il compito d’ufficio stampa di Monti (senza, mi pare, alla luce dei risultati elettorali raggiungere traguardi memorabili in quella funzione), ha trovato il tempo d’azzannare con tagliente dentiera quel Gruppo.
Era stato preceduto qualche giorno prima da Giuseppe Conte sul “Giornale” berlusconiano che manifestava schiumante rabbia per quella lontana stagione esaltando il ritorno odierno della letteratura all’età del cucco.
Di questi tratti d’inchiostro involontariamente comici se ne trovano tracce riportate sul sito della casa editrice Odradek che ha il merito d’aver pubblicato un nuovo, acutissimo, saggio di Francesco Muzzioli intitolato: Il Gruppo ‘63 Istruzioni per la lettura .
E’ questo un libro per il quale oggi bisogna, e in futuro bisognerà, assolutamente passare per capire origini e approdi di quel famoso Gruppo e conoscere i ritratti ragionati di scrittori e critici di quegli anni, sia interni e sia esterni al Gruppo stesso: da Sanguineti a Pagliarani, da Arbasino a Spatola, da Lombardi alla Vasio, da Malerba a Balestrini, da Giuliani a Porta, da Pignotti a Manganelli, da Rosselli a Niccolai, da Barilli, a Guglielmi, a Curi a Eco.» |
Armando Adolgisointervista Francesco Muzzioli.
Che cosa significò l’arrivo del Gruppo ’63 nell’Italia letteraria di quel tempo?
L’apparizione del Gruppo ’63, anticipata di poco dall’antologia dei “Novissimi”, ha costituito un forte sconvolgimento del panorama letterario italiano di allora. Bisogna pensare che la società stava facendo un balzo in avanti verso la piena modernità, e quindi era lecito supporre che il cambiamento della realtà portasse con sé un cambiamento radicale del linguaggio. Così molti intellettuali e scrittori temettero davvero di essere scavalcati e rimanere indietro, tanto che molti tentarono di aggiungere un po’ di sale sperimentale alle proprie vecchie ricette. Il senso di quella scossa si percepisce nel fatto che ancora adesso, ad ogni anniversario, c’è sempre qualcuno che si mette a deprecare la neoavanguardia: è il segno che lo sconcerto non è stato ancora del tutto smaltito.
In quel famoso Gruppo ci fu anche un largo esercizio di una critica propositiva e non solo distruttiva, come ricordi era costume delle avanguardie precedenti. Perché avvenne quel fenomeno?
Rispetto alle avanguardie storiche, negli anni Sessanta avviene un cambio d’orizzonte. Il mito del “nuovo” esiste ancora, ma viene gestito in modalità meno enfatiche e più attente alla formazione del testo. L’importante non è più il manifesto, ma la tendenziosità insita nella scrittura. Quindi è necessario discutere di come e quanto i testi siano effettivamente contestativi. Ecco la necessità della presenza della critica e del suo aggiornamento alle metodologie europee (strutturalismo, psicoanalisi, eccetera). Qualcuno vide in questo una perdita dello spirito avventuroso delle avanguardie precedenti e una sorta di arroccamento accademico (Sanguineti e Eco erano già professori). Ma il punto è che la figura romantica dello scrittore outsider veniva sostituita dal lavoro in laboratorio. Si passava dal platonismo della ispirazione imperscrutabile alla logica della semiotica.
Rintracci, oggi, dell'eco di quel movimento? Se sì, da quale parte?È molto difficile rintracciare simili echi. Infatti, ai margini del sistema editoriale, ci sono forse più sperimentatori di quanto si immagini, ma sono non solo separati tra loro, sono anche per forza di cose sostanzialmente invisibili ai mezzi di comunicazione. E c’è di peggio: è stato sottratto al pubblico ogni strumento per riconoscerli come “alternativi”. Per questo ho sottotitolato il mio libro ‘Istruzioni per la lettura’. Bisogna ripartire da qui, tornare a imparare a leggere l’avanguardia. A chi si lamentasse che si fa fatica e che le istruzioni sono noiose, obietto che vi facciamo spesso ricorso: se sono necessarie per avviare un computer e per montare un mobile dell’Ikea, perché dobbiamo rifiutarle per leggere una poesia?
Perché la parola “avanguardia” da tanti adesso è considerata una parolaccia?
Curiosamente il postmoderno, che ammetteva qualsiasi riscrittura a piacere, escludeva però la possibilità dell’avanguardia. L’avanguardia non piace, è chiaro, perché mette in discussione le nostre maniere consolidate di avvicinarci alla letteratura e all’arte, costringe ad andare al di là delle attese, ci fa vedere che è possibile osare anche ben oltre alle direttive del mercato. In questo qualcuno vede un atteggiamento aggressivo e ricorda che il termine “avanguardia” ha un etimo militare. Faccio tuttavia notare che anche il pacifismo e il femminismo, se vogliono cambiare profondamente atteggiamenti radicati nei millenni, devono avere una pars destruens, una punta polemicamente combattiva. E non faccio questi esempi a caso: perché oggi abbiamo davanti la ricerca di identità solide, cui il mercato (anche letterario) tiene il sacco; l’avanguardia è al contrario una decostruzione delle identità, che arriva fino alla fondamentale autocritica del soggetto.
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Su Reti di Dedalus autorecensione di Francesco Muzzioli.
«Gli esseri umani sanno sempre per istinto di cosa hanno bisogno: quindi se oggi sono in circolazione solo scritture semplicistiche e soporifere, adatte alla fruizione immersiva e al rapido consumo, questo potrebbe essere il portato di un implicito pessimismo della specie. Affonderemo per forza, quindi tanto vale affondare senza rendersene conto. Doparsi di fiction per non pensare. La cultura del basso capitalismo è questa semiosfera tendente a costituire un “apparato mitico sognante”, una anestesia del condannato.»
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Lanfranco Palazzolo incalza Francesco Muzzioli su Radioradicale, qui.
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Felice Accame su Segnale 13. Sta anche qui
Felice Accame
Messaggi al grosso
1.
Agli inizi del Novecento, Paul Valery si rende conto che non è più possibile scrivere un romanzo che cominci con una frase tipo “La marchesa uscì alle cinque”. E’ l’anatema nei confronti della letteratura naturalistica e delle sue soluzioni narrative. Negli anni Sessanta, però, Alberto Arbasino, ancora in pieno afflato mistico con il Gruppo 63, riscopre la stessa identica consapevolezza e fa suo lo stigma.
Già da questo fatto si potrebbe dedurre tutta una serie di cose relativamente ai flussi letterari ed alle necessità sentite come urgenti dagli scrittori o, per essere più equi, da “certi” scrittori. C’è un momento in cui del linguaggio ordinario non se ne può più – non se ne può più della letteratura commerciale destinate a soddisfare le bocche buone, si sente forte un bisogno di iconoclastia – e, dunque, nasce una letteratura di opposizione – che, dall’Ottocento in avanti – con metafora militaresca – vien detta “d’avanguardia”. Tuttavia, questo periodo di opposizione dura poco se, poche decine di anni dopo, qualcun altro sente il bisogno di riaprire la piaga. Voglio dire che, se accade qualcosa di nuovo, questo nuovo dura poco o – si potrebbe anche metterla così – solo parzialmente questo nuovo vien fatto proprio successivamente e metabolizzato.
Sembrerebbe, comunque, così di poter vivere, se non nel migliore dei mondi, in un mondo in cui gli oggetti appaiono ben distinti fra loro – da una parte la tradizione, la letteratura dozzinale – consolatoria e intrattenitrice – e dall’altra la letteratura di rottura degli schemi prestabiliti – rivoluzionaria in quanto letteratura e rivoluzionaria per quanto la letteratura rappresenta del conflitto sociale in atto. Sembrerebbe. Perché se dicessi – come posso effettivamente dire – che, nel 2010, la prima frase del romanzo intitolato L’ora incerta tra il cane e il lupo di Hans Tuzzi è proprio “La marchesa uscì alle cinque”, cosa ne potrei dedurre ? Dovrei accoglierlo come un rigurgito del vecchio stampo ? Se lo facessi, presumibilmente – molto presumibilmente –, sbaglierei. E’ sì il romanzo un romanzo giallo – uno dei tanti, se vogliamo -, ma tutta una serie di elementi possono indurre il lettore a battere tutt’altra pista. A partire dal nome dell’autore – uno pseudonimo che si nasconde dietro un personaggio dell’Uomo senza qualità di Musil – in realtà un noto bibliofilo (Adriano Bon) e a concludere con la qualità complessiva della sua scrittura, tutto ci porta a interpretare la prima frase come una citazione – un’ironia – del problema delle avanguardie. Ed allora siamo costretti a correggere – a ricategorizzare – la nostra percezione di quella frase d’apertura.
2.
Un tratto comune delle avanguardie è il fatto di riflettere sul linguaggio – la scrittura che via via che si dipana è anche attenta a se stessa e non soltanto al suo referente. Anzi, in certe circostanze, il referente stesso è sé stessa. Come quando, per esempio, la soluzione formale, il marchingegno, prende il posto di qualsiasi contenuto. E’ il caso del Tape Mark I di Nanni Balestrini (1961) – dove i versi poetici sono il risultato di una combinatoria realizzata da un calcolatore elettronico. O il caso – doppio: francese e inglese – di Composizione n.1 (un titolo che pare rubato a Mondrian o a Klee) di Marc Saporta (1967) e di The Unfortunates di Brian Stanley Johnson (1969) – libri composti da fogli mobili mescolabili come carte da gioco e, dunque, leggibili (si fa per dire) in un numero di soluzioni pari alla combinatoria dei fogli da cui sono costituiti. O è il caso di Coazione a contare di Gian Pio Torricelli (1968) dove l’autore, in 75 pagine non numerate, snocciola in lettere tutti i numeri progressivi da 1 a 5132 (ponendo non pochi problemi all’interprete sul perché si fermi lì).
3.
Valery dopo l’avanguardia – nonostante l’avanguardia – finisce all’Accademie Française. Di Johnson e Saporta si sa più poco, come di Gian Pio Torricelli. Balestrini è scrittore di buona notorietà ed ha sempre manifestato una sua coerenza. Tuttavia, anche nelle loro avanguardie c’è stato chi ha finito con l’occupare prestigiosi posti analoghi a quello dell’Accademie Française – a condizione che l’avanguardia, beninteso, se la dimenticasse o, piuttosto, elaborasse una teoria che non ne sostenesse più l’indispensabilità.
In questi nostri anni – parlo del dopo Duemila –, dove di queste cose pochi mantengono perfino il ricordo, Massimiliano Monaco pubblica il suo romanzo, Tale e Quale – Un falso d’autore (Oèdipus, Salerno 2013). Monaco riflette sulla propria scrittura e sulla scrittura in genere. Ma non solo: la scrittura è per Monaco anche un mezzo per interrogarsi – sul proprio senso, sul vivere. Lo si vede, questo, dalle particolari spremiture cui sottopone il proprio linguaggio, parola per parola, raramente accontentandosi di un senso solo, facendo scaturire ambiguità e, dunque, impegnando il lettore su più fronti: il narrato, il commento al narrato, il linguaggio scelto per narrare, il commento al linguaggio scelto per narrare, il narratore in quanto narratore e il lettore stesso in quanto lettore, preso per il coppino quando si distrae e preso per il bavero quando non si distrae.
4.
Dicevo che Monaco, oggi, per scelta ideologica, predica in un deserto. Di avanguardie, nemmeno l’ombra e fin qualche sospetto sul concetto stesso. Eppure lui lo fa. Prende i termini di una vicenduola e ne sviscera i presupposti che scova nel linguaggio che usa e che deve usare per raccontarla. Ci si barocca dentro e, come lo fa, sa che ne chiude fuori un certo numero di interlocutori possibili e, anzi, la maggior parte. Si rende disponibile soltanto a quel lettore che abbia il coraggio di affrontare le impervie pareti del testo, che si dia da fare – che abbia il gusto di prendere una frase e leggerla una volta attribuendole un senso e rileggerla una seconda volta scoprendone non un altro ma anche un altro, ugualmente plausibile. C’è, nella scelta di Monaco – e vorrei fosse ben chiaro – e una scelta di ordine individuale – lo scrittore non sta facendo commercio dei suoi racconti, sta facendo i conti con se stesso – e, non alienabile, una scelta di ordine politico – lo scrittore sta facendo i conti in tasca alla società in cui vive: ne rileva le contraddizioni, ne arguisce l’insopprimibile urgenza di contestarne i modi, ne conclude per una rivolta contro i mezzi e i fini che questa società impone ai suoi membri. Che i conti non tornino è dunque ovvio – e lo sappiamo tutti, compreso lo scrittore che più e meno vanamente ha scelto di adeguarsi alla tradizione del commercio letterario –, non tornano né quelli che in tasca propria né quelli in tasca della società tutta. Che, allora, lo scrittore che ha fatto questa scelta sia, comunque, un martire, questo è meno ovvio. Truman Capote diceva che, allo scrittore, oltre al dono dello scrivere, Dio ha regalato anche una sferza – per autoflagellarsi.
5.
Se Monaco, allora, sembra andare controcorrente, va anche detto che proprio solo solo non lo è. Il suo libro esce in una collana che ha già ospitato L’urbana nettezza di Francesco Muzzioli, cui, tra il tanto d’altro, dobbiamo anche Quelli cui non piace (Meltemi, Roma 2009) – un’elaborata disintegrazione del racconto e del suo linguaggio: il primo è un’analisi spietata delle “pigrizie” e delle “viltà” della critica letteraria il secondo. Ma le coincidenze non si fermano lì. Nello stesso 2013, da Odradek, Muzzioli pubblica Il Gruppo ’63 - Istruzioni per la lettura. Bene. In un libro dove si rende conto del lavoro poetico-letterario dei principali protagonisti del Gruppo ’63 – dove di questo Gruppo viene riassunta utilmente la storia e dove si dànno anche precisi esempi di analisi del testo –, Francesco Muzzioli disegna le coordinate politiche essenziali per comprendere l’andamento di ogni avanguardia che meriti questo nome. Parte da una citazione del manifesto futurista del 1909 – «verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando carinamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche», una testimonianza di bella consapevolezza al di là di come può suonarci oggi il linguaggio usato per esprimerla – e, avanzando l’ipotesi interpretativa di una avanguardia che “non dovrebbe essere vista come un drappello trionfalmente avanzante nel vuoto di nemici ormai in rotta” – fatemeli individuare come gli eterni consumatori di “marchese che escono alle cinque” –, “bensì come un piccolo gruppo infiltrato nel territorio ostile, da cui manda frammentari e fortunosi messaggi a un ‘grosso’ da cui non riceve notizie e può anche darsi che sia in grande ritardo, se pure esiste ancora”, arriva alla conclusione che “le avanguardie, mostrando che si può scrivere diversamente, ci allenano alla agilità mentale e ci invitano alla dinamica testuale” che, insomma, “l’avanguardia è un valore” cui lui – fosse anche il solo a pensarla così, mi pare di capire – non ha nessuna intenzione di rinunciare.
6.
Sintomi ? Forse, chi lo sa, con l’avanguardia – sotto qualsiasi nome le toccherà d’incarnarsi – ci risiamo. Ma, appunto, perché no ? |
Federica Santini in “Autografo” 50 (2013) dedicato a Novissimi (e dintorni) tra due sponde.
Nel bel saggio Sviluppi e direzioni dello sperimentalismo letterario, pubblicato a metà degli anni ottanta, Francesco Muzzioli parlava, con la chiarezza che sempre ne contraddistingue i modi espressivi, di letteratura sperimentale nei seguenti termini:
Una letteratura di ricerca o sperimentale comincia innanzitutto col mettere in dubbio e rendere problematico il suo stesso statuto e ruolo sociale. La complicazione, quindi, non deriva da un gusto perverso per la difficoltà, ma piuttosto da una esigenza di ripensamento radicale di ogni elemento del testo. Niente deve essere lasciato all’assopimento dell’abitudine. Gli aspetti e i livelli testuali entrano tutti in attività, e la riflessione progettante ne elabora i rapporti in base ad idee strettamente connesse al fare.1
Una tale letteratura “di ricerca” (e Muzzioli usava una “categoria aperta”, intelligentemente evitando di usare definizioni categorizzanti quali “neoavanguardia”, “opposizione” e simili) sembra doversi necessariamente distaccare, per essere operativa, dai programmi precostituiti; come potrebbe, altrimenti, mettere in dubbio il proprio ruolo sociale a partire dall’adesione predeterminata a un certo statuto?
Con Il Gruppo 63. Istruzioni per la lettura (Odradek, 2013), Muzzioli riprende quest’idea ampia e articolata di letteratura sperimentale e torna a parlare, dopo oltre trent’anni dall’uscita del suo fondamentale saggio Teoria e critica della letteratura nelle avanguardie italiane degli anni sessanta, che ancora costituisce la base teorica più solida per chi voglia avvicinarsi allo studio della letteratura neoavanguardistica, di neoavanguardia e Gruppo 63. Nel volume presente come nel precedente, invece di perdersi nell’identificazione di gruppi e sottogruppi, di chi stava contro e di chi stava fuori, Muzzioli non si sofferma troppo sulle varie dichiarazioni programmatiche e, sebbene il primo dei quattro grandi segmenti del volume presenti una ricapitolazione molto chiara di quelli che furono i punti e momenti centrali della teoria letteraria neoavanguardistica, e in appendice sia presente una breve ma articolata cronologia del Gruppo 63, queste Istruzioni per la lettura si pongono soprattutto dalla parte dei testi, che mettono in luce con analisi chiare quanto accurate. «Ma, poi, cosa servono tante argomentazioni arzigogolate?», si chiede l’autore alla fine del primo capitolo, denso dei riferimenti teorici che sono alla base della teoria neoavanguardistica, da Bürger a Benjamin, da Greimas ad Adorno, e conclude: «Basti questo: l’avanguardia è un valore, se non altro perché è l’unica cosa che i cinesi non sono riusciti a rifare!» (p. 29).
Fin dalla prima riga del testo, d’altronde, l’autore si propone di «ragionare in modo non pregiudicato sulla nozione di avanguardia» (p. 7). Per fare ciò, Muzzioli sceglie una strada che è stata battuta molto raramente: nelle due macrosezioni che costituiscono il vero fulcro del libro (si tratta dei capitoli 4-11, raccolti sotto le diciture “Poesia” e “Narrativa”), il critico parte dai testi e ne rilegge molti, analizzandoli da vicino e mettendo in luce, così facendo, la gamma vastissima di differenze, stilistiche e di intenti, in cui si articolano gli scritti degli autori che costituirono il nucleo del Gruppo 63. E particolarmente rilevante, a questo proposito, il quarto capitolo del volume, che presenta una serie di brevissime analisi, un testo poetico ciascuna, di undici autori molto eterogenei, da Nanni Balestrini ad Adriano Spatola (e anche la scelta, qui, di mettere gli autori in ordine alfabetico indica una volontà precisa di non opporre, di non tornare a disquisire su appartenenze e defezioni, ma semplicemente di far parlare i testi).
Un esempio di questa grande apertura (d’altronde già Giuliani parlava, in riferimento alla poesia novissima, di «opening») alla sperimentazione non categorizzabile Muzzioli lo fornisce chiaramente nel paragrafo che apre il bel capitolo dedicato a Pagliarani, capitolo il cui primissimo nucleo era stato presentato in un simposio particolarmente tumultuoso tenutosi a Los Angeles all’inizio degli anni 2000:
C’è una logica corrente che considera l’avanguardia come una lotta della forma contro il contenuto, e su questa base, cerca di strappare all’ambito avanguardistico quegli autori nei quali è riscontrabile e riconoscibile un trattamento dei contenuti. Ma se s’intende l’avanguardia, come ho indicato nel primo capitolo, come lotta doppia nelle forme e nei contenuti, quella operazione di elisione viene a cadere e si tratta piuttosto di considerare dove e quanto il “senso comune” (formale e contenutistico insieme) venga attaccato e deformato. È quello che mi propongo di accertare riflettendo sul senso di una tecnica come quella del “montaggio”, che mi pare essenziale a caratterizzare il versante della modernità radicale,nozione ampia e alternativa al postmoderno,che corrisponde per molti versi a quella di avanguardia (p. 105).
È così che il libro delinea, senza pretese di sistematicità, una galleria affascinante di autori, dal Malerba «affiliato o affrancato» allo Spatola «resistente», passando per un Arbasino «in vena», un’Amelia Rosselli sperimentatrice tangenziale alla neoavanguardia, un Germano Lombardi «anomalo»: il gran pregio del volume è, allora, quello di dare l’opportunità di rileggere, o di leggere per la prima volta, un gran numero di testi eterogenei, e, grazie alle analisi testuali ravvicinate, di capirli e capire perché e come, nonostante la loro grande diversità, tutti questi testi facciano parte dell’orizzonte avanguardistico. |
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Odradek
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