Per
chi voglia conoscere che cosa sia stata la guerra
partigiana,
come sia stata organizzata e condotta, quali
uomini abbiano dato vita ai vari gruppi e brigate di combattimento,
quali aspetti umani, prima ancora che militari
e politici, la Resistenza abbia avuto, e
quali capacità abbia avuto un suo capo riconosciuto.
Più
che un diario, un mattinale – come lo definisce Giancarlo
Pajetta nella prefazione – scritto da uno dei capi più
amati della Resistenza italiana: il leggendario Bulow, in
cui si dà minuzioso conto delle attività politico-militari
che costituiscono la caratteristica di un capo partigiano:
intelligenza, non solo coraggio; arte diplomatica, non solo
guerra. Un testo fondamentale per comprendere le caratteristiche
della guerra partigiana di pianura, ma anche una restituzione
corale dell’apporto di migliaia di uomini e donne a
una battaglia durata quasi due anni in cui l’organizzazione
e la divisione di compiti avrebbe dovuto prefigurare l’Italia
avvenire. Infatti, proprio con la Resistenza «cominciò
il nuovo corso dell’Italia sancito poi dalla Costituzione
repubblicana. Questo deve essere il fondamentale messaggio
formativo per le generazioni future»: parole che sono
il messaggio più autentico del libro.
DALLA
PREFAZIONE
Chi
voglia conoscere che cosa sia stata la nostra guerra partigiana,
come l'abbiamo organizzata e condotta, che uomini abbiano
dato vita alle nostre formazioni e come, nel lavoro quotidiano
e nel combattimento, altri ancora siano stati formati come
uomini nuovi, capaci di essere guida ed esempio, deve leggere
questo libro.
Si tratta di un diario di guerra particolare, una sorta di
mattinale: giorno per giorno, o riassunti nel giro breve di
pochi giorni, ci vengono consegnati i fatti di una vita quotidiana
che forse è eroica proprio perché non è
fatta tutta di azioni che di per sé sono atti di eroismo,
né è fatta solo di sacrificio.
È il mattinale di un comandante partigiano, di un uomo
non soltanto di coraggio ma anche di intelligenza, per la
sua capacità di organizzare i primi gruppi, successivamente
i primi distaccamenti e raccoglierli in brigata. È
il diario secco, quasi volutamente arido, di un diplomatico
che dovete scoprire da soli, perché non sarà
mai lui a dirvi «ecco come sono stato bravo a trattare
con gli alleati, con il governo».
Giancarlo Pajetta
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Una recensione
Da
sempre la memorialistica, ed in particolare quella sulla Resistenza,
rappresenta allo stesso tempo croce e delizia della storia.
Il racconto e la lettura personale e individuale di eventi
storici complessi e di portata generale, infatti, porta spesso
con sé un carico emozionale che se è capace
di avvicinare chi legge al vissuto ed alla drammaticità
degli eventi di scrive non di rado assume, per la sua intrinseca
soggettività, un carattere quasi esclusivamente testimoniale,
relegando la collocazione storica dei fatti e la stessa metodologia
a fattori laterali del racconto. A questo assioma però
sembrano fare eccezione le memorie di guerra del comandante
partigiano Arrigo Boldrini raccolte nel suo “Diario
di Bulow. Pagine di lotta partigiana 1943-1945”, ripubblicato
a quasi un anno dalla sua scomparsa, era il 22 gennaio 2008,
dalla casa editrice Odradek.
Quella di Bulow, nome di battaglia di Boldrini, non si configura,
infatti, come semplice memorialistica ex-post ma come un vero
e proprio mattinale della lotta partigiana, come lo definì
Giancarlo Pajetta nella sua introduzione alla prima edizione
presente anche in questa seconda ristampa, che, redatto all'epoca
dei fatti, nella sua austera sintesi giornaliera restituisce
fuori dalla retorica celebrativa o dalla bassa polemica anti-resistenziale
la quotidianità di vissuto inedito per un Paese non
certo abituato a grandi rivoluzioni e moti emancipatori.
Nelle sue pagine ritroviamo le difficoltà, le durezze
e le umane paure della “guerra irregolare” che
sarà la genesi della nuova legalità repubblicana
e democratica e che verrà, non solo simbolicamente,
rappresentata dalla presenza di Boldrini all'Assemblea Costituente.
Nelle pagine del Diario si ritrovano gli iniziali rapporti
di diffidenza degli Alleati anglo-americani verso un comandante
comunista, superati progressivamente grazie al profilo dirigente
non solo militare ma anche politico assunto da Bulow durante
la guerra, per poi passare ai resoconti delle azioni di guerriglia
portate a termine con successo, quelle fallite per scarsità
di mezzi, fino ai racconti dei tesi confronti con le popolazioni
civili sfollate strette dai contrattacchi dei nazisti.
Boldrini, ideatore della guerriglia in pianura, liberatore
di Ravenna e prima medaglia d'oro al valor militare della
Resistenza conferita dal comandante della VIII° Armata
britannica nel febbraio 1945, non riserva per sé il
ruolo di protagonista collocando la sua esperienza e la sua
scelta di lotta entro un quadro più ampio, rivolto
piuttosto all'idea della costruzione di uno Stato nuovo, democratico
ed aperto all'ingresso delle masse nella vita pubblica costato
uno sforzo enorme ai combattenti della Resistenza. E proprio
a loro, ai compagni di lotta caduti per mano nemica Boldrini
dedica quelle poche asciutte righe che hanno la forza semantica
di restituire lo spirito entrato nel profondo dell'esperienza
partigiana “ Orsi (Antonio Carini) è stato arrestato
il 6-7 marzo dai fascisti [...] torturato [...] e gettato
nel fiume Ronco [...]di fronte alle dure perdite che ci vengono
inflitte dopo le prime reazioni di rabbia e commozione bisogna
subito provvedere alla sostituzione dei caduti”. Quello
rappresentato dalle pagine del Diario emerge come uno spirito
capace di proiettarsi verso il futuro e la costruzione della
società nuova nonostante, ed anzi proprio in loro nome,
le uccisioni di tutti quei resistenti che nel moto di rinnovamento
storico del Paese avevano trovato la morte.
Le memorie di guerra di Bulow non rifuggono i temi controversi
del dopo Liberazione, della difficoltà degli stessi
comandi partigiani di controllare la reazione popolare e dei
patrioti contro i fascisti e le annotazioni dei mesi di aprile
e maggio del 1945 non temono di riferire, come quelle del
24 e 25 aprile, che fu un problema difendere i 147 prigionieri
tedeschi dalle popolazioni intenzionate a linciarli dopo i
misfatti e le stragi da loro commesse.
Questi scritti non sono né pacificati né condivisi.
Sono, nel senso gramsciano del termine, scritti “partigiani”,
cioè di un cittadino che vivendo veramente non può
non parteggiare. Definiscono senza timore in modo chiaro ed
inequivocabile non solo la frattura non negoziabile tra libertà
e dittatura ma più ancora il senso della storia dell'Italia
di quei giorni. Nello stesso tempo, come ricorda il figlio
Carlo nella sua nota conclusiva, Boldrini era d'uso ribadire
come la Resistenza fosse stata una lotta condotta “per
la libertà di tutti: per chi era con noi, per chi non
c'era ed anche per chi era contro” non indugiando, quindi,
sulla figura dei vincitori come unici cittadini legittimi
della Repubblica democratica e richiamando soprattutto le
giovani generazioni alla diretta partecipazione alla vita
pubblica e politica ed alla responsabilità della costruzione
progressiva della società e dello Stato rinnovato.
In paese senza memoria e percorso da un profondo quanto pericoloso
disarmo culturale la descrizione della lotta partigiana vissuta
intorno ai fiumi, alle colline, nella pianura del ravennate
ha la forza di rappresentare come poche altre immagini la
necessità del pellegrinaggio civile evocato da Piero
Calamandrei “nelle montagne dove caddero i partigiani,
nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono
impiccati. [...] perché li è nata la nostra
Costituzione”.
Davide Conti
Una recensione più recente: qui.
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