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Sergio Giuntini
PUGNI CHIUSI E CERCHI OLIMPICI
Prefazione di Felice Accame

pp. 210 € 16,00

 

ESAURITO

L'idea della neutralità dello sport accompagna tutti quei processi di valorizzazione - prima voluti dagli stati totalitari, poi, visti i risultati, adottati entusiasticamente tali e quali dalle democrazie - in virtù dei quali lo sport è diventata una sovrastruttura ideologica fondamentale delle società del capitalismo globale.
Qualsiasi cosa accada si chiede che lo sportivo si astenga da un proprio giudizio politico. Lo si remunera - spesso bene - per il suo ruolo subordinato e subordinante e, in cambio, se ne esige lo scorporo dal tessuto sociale. Anche allorquando quel che accade implica scelte in rapporto all'autonomia dei comportamenti, alla partecipazione politica, alla coscienza di classe.
Sergio Giuntini, da storico, dedica uno sguardo preciso e pur affettuoso - lo sguardo di chi sa come, poi, sono andate a finire le cose - a chi, facendo parte del mondo dello sport, in nome di una soggettività collettiva, ha rifiutato la propria ghettizzazione per far parte a pieno diritto della storia: dai primi anni Sessanta e dai primi sintomi di una volontà di cambiamento ai nostri giorni.
Fra i protagonisti e i temi cruciali: George Best, Gigi Meroni, i Provos, il Che, Mao, Cassius Clay, Harry Edwards, il maggio francese, la primavera di Praga, il razzismo del Sudafrica, la politica sportiva delle sinistre italiane, le Olimpiadi di Città del Messico e di Monaco, il Cile di Pinochet e l'Argentina del generale Videla.

Sergio Giuntini (Milano, 1956) Membro del Consiglio Direttivo della "Società Italiana di Storia dello Sport" (SISS), è autore di svariati saggi storici. Tra i suoi volumi più recenti: Lo sport e la Grande Guerra, Roma, 2001; Scrittura e sport. Primi sondaggi Otto-Novecenteschi (con A. Brambilla), Verona, 2003; Sport e fascismo: il caso dell'atletica leggera, Palermo, 2003; Dorando Pietri dalla Via Emilia al West, Palermo, 2004; Compagni di squadra. Racconti non solo di sport, Milano, 2006; L'addestramento ginnico-militare nell'esercito italiano. 1946-1990 (con A. Teya), Roma, 2007; Due secoli di Arena e grande atletica a Milano, Milano, 2007.


Il '68 negato dallo sport italiano
Voce Repubblicana, 8 dicembre 2012
Lanfranco Palazzolo intervista Sergio Giuntini qui

Lanfranco Palazzolo di Radio Radicale intervista Sergio Giuntini qui. 12 novembre 2012

Giovanna Cracco su PaginaUno n. 16 febbraio/marzo 2010

De Coubertin gioirebbe, nel vedere il suo sogno realizzato non solo alle Olimpiadi ma in ogni competizione: lo sport falsamente universale, neutrale, apolitico, interclassista. Altri dopo di lui hanno compreso quanto potesse contribuire all’inquadramento dell’uomo-massa, divenire ‘oppio dei popoli’ al pari della religione, valvola di sfogo per la frustrazione sociale, strumento circenses. Il capitale ha capito che enorme macchina per far soldi potesse diventare quello professionista e quanto fosse più sano e produttivo un lavoratore-sportivo dilettante. Nella società capitalista, lo sport replica le stesse logiche lavorative: è selettivo, autoritario, mira al massimo rendimento e al costante superamento dei risultati raggiunti.
Sono aspetti che pochi analizzano, ormai dati per ontologici, eppure nel decennio che va dal ’68 al ’78 l’Italia e il mondo hanno vissuto un’ampia discussione e molti atleti hanno fatto parlare di sé. A essere messa in crisi era la funzione dello sport divenuto sovrastruttura, la pretesa che gli atleti fossero pupazzi privi di pensiero; rivendicato era lo sport come diritto, popolare, privo di record, antagonismo, classifiche. Giuntini percorre quegli anni, dalle Olimpiadi di Città del Messico ai Mondiali di calcio in Argentina; anche nel mondo dello sport è stata tentata una rivoluzione, e anche lì è stata sconfitta.

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da il manifesto del 26 Marzo 2008
Pugni chiusi e speranze, il lungo '68 dello sport


Dai protosessantottini Gigi Meroni e George Best al boicottaggio afroamericano alle Olimpiadi del Messico fino alle battaglie sindacali dello sport italiano in un bel libro di Sergio Giuntini dedicato all'anno fatidico


di Matteo Lunardini


Il 30 giugno 1968 a Los Angeles si svolsero i trials americani in vista delle Olimpiadi di Città del Messico. In palio c'era un posto per la lotteria della gloria celebrata da Pindaro. Per niente emozionati, alcuni atleti afro-americani si appartarono a confabulare sull'assassinio, avvenuto tre mesi prima, di Martin Luther King. Discussero (e animatamente) di Black Panthers e di alcuni libri del sociologo ex atleta Harry Edwards, che dalla cattedra di San Josè aveva lanciato il grido: why run in Mexico and crawl at home? (perché correre in Messico e strisciare a casa?). Dopo infiniti interventi, i 36 atleti decisero di mettere ai voti una risoluzione: il boicottaggio dei giochi da parte dei neri. Tra questi c'erano Tommy Smith, John Carlos, Bob Beamon, Lee Evans e Ralph Boston, praticamente il meglio dell'atletica leggera americana. Stranamente, però, quegli uomini «a un passo dalla leggenda» non si riunirono per discutere di tempi di qualificazione e di premi. Tutt'altro.
Assorti in altri problemi, votarono se accettare, oppure rifiutare in nome dei diritti della propria gente, quel palcoscenico che avrebbe sancito la loro consacrazione planetaria (per alcuni anche una condanna a vita). L'esito della tormentata decisione la conosciamo tutti: per una di quelle entusiasmanti sorti della Storia passò la linea morbida (per la cronaca... sportiva: 24-12). Sì, quindi, alle Olimpiadi ma a un patto: che si facesse qualcosa.
Quarant'anni dopo, la foto di Tommy Jet Smith e John Carlos sul podio a piedi nudi e pugno chiuso (entrambi avevano votato a favore del boicottaggio) è l'icona sportivamente più rappresentativa del '68. Per la prima volta nella storia l'atleta nero si libera del complesso dello zio Tom, l'accusa lanciata originariamente a Jesse Owens di essere uno strumento al servizio della gloria a stelle e strisce. E con la stessa arma, immaginifica, che lo sport spettacolarizzato usava per la propria celebrazione, si rivolta violentemente contro l'altro zio, quello di nome Sam, mettendone in luce il suo lato più ipocrita: «Oggi ho vinto. Ha vinto un americano. Se avessi perduto, avrebbe perduto un negro», dichiarò Smith.
Se la Storia degli storici è per necessità tributaria di un inizio e una fine, in Pugni chiusi e cerchi olimpici, il lungo '68 dello sport italiano (di Sergio Giuntini, Odradek Edizioni) l'aneddoto di Tommy Smith non è qu'un debut, il tentativo di utilizzare l'epifenomenologia sportiva per fornire una chiave di lettura del '68. Così, grazie a un forte corredo di dati e aneddoti - che guidano il lettore lungo un appassionante itinerario sportivo globale - da quegli anni emergono, preponderanti, tre sentimenti: la consapevolezza che un evento lontano può avere un impatto globale; l'idea che attraverso la discussione si può addivenire a una scelta positiva e che tutto, anche un gesto sportivo, può concorrere a migliorare condizioni collettive; la sensazione che ogni giorno può essere campale per il miglioramento del mondo (sensazione che fa sbiadire qualunque altra cosa, anche la vittoria a un'Olimpiade).
Solo cogliendo questo trait d'union d'intenti - che si estende ad est come a ovest, negli sport dal basso come in quelli d'élite, e che permeerà tutti gli anni Settanta - che si capisce perché il '68 dello sport italiano di Sergio Giuntini è «lungo». È lungo perché travalica il canonico quadriennio in cui si suddividono le kermesse mondiali e con esso i confini nazionali; è lungo perché comincia con i protosessantottini Gigi Meroni e George Best, passa per i testimoni involontari della strage di piazza delle Tre Culture Eddie Ottoz e Sergio Ottolina, e finisce con i postsessantottini Paolo Sollier ed Ezio Vendrame; è lungo perché interviene sull'assetto sportivo condiviso, proponendo un nuovo modello di atleta (l'atleta radicale di Jack Scott che si fa beffe dei risultati perché in palio c'è molto di più di qualche riconoscimento personale), e che partecipando al gioco rivoluziona la semantica, il significato dei gesti.
Oggi, di tutto quel tribolare non resta quasi niente. Nulla resta della semantica rivoluzionata, del tentativo in atto di cambiare il valore di divismo e campionismo dello sport, celebrando il vincente come il perdente (una risposta al retaggio antisportista degli anni Venti che intanto si riaffaccia sui giornali della sinistra extraparlamentare, insieme ai dibattiti sulla congruità della pratica sportiva con quella politica).
Oppure, sul lato della prassi, nulla resta delle azioni spettacolari tipiche di quegli anni. Come i sequestri a tempo degli studenti dell'Isef in lotta per il riconoscimento della laurea: toccò a Franco Liguori, mezzala della Ternana e «matricola» Isef, al nazionale di basket Paolo Bergonzoni e ai giocatori del Bologna Bulgarelli e Mujesan. O come il boicottaggio della tournée italiana degli Springboks, squadra del Sudafrica bianco, e le denunce delle infiltrazioni fasciste nel rugby italiano. Ma anche le reazioni crudeli del potere in scacco, come quella che per ritorsione toccò a Vera Càvlaska, che sul podio di Città del Messico, proprio come Smith e Carlos, «chiuse gli occhi e abbassò il capo in segno di tacita protesta» per la repressione seguita alla primavera di Praga.
Infine, un'articolata sezione è dedicata a fenomeni italiani. Il legame via via incrinatosi tra il Pci e la Uisp (Unione Italiana Sport Popolari, allora considerati i cinesi dello sport italiano, una realtà che quest'anno compie 60 anni) e le lotte per il riconoscimento degli enti di promozione sportiva, soggetti determinanti per lo sviluppo degli sport di massa. La felice esperienza romana del circolo Giovanni Castello (intitolato a un giovane atleta deceduto in allenamento) e della loro pubblicazione, il Ronzino: un giornale di «sport dal basso» che riprendeva i concetti di Calcio come ideologia di Vinnai (quello di: «Ogni gol su un campo di calcio è un autogol dei dominati») e di Olimpiadi dello spreco e dell'inganno di Prokop.
Nonché l'esperienza dei Crazy Runners Club di Roma, società anticampionista che prevedeva multe pecuniarie a chi migliorava il proprio primato.
Per chi non ha vissuto il '68 e si è sempre occupato di sport «da sinistra», occorre dirlo, leggere il libro di Giuntini non può che lasciare dell'amaro in bocca. Di quello che si respirava allora non rimane che un lontano afflato. Oggi le federazioni sono tutte in mano alla destra, i giornali che parlano di sport lo fanno appiattendosi sulle rituali e rincoglionenti beghe di campanile, lo sport dal basso è demandato all'organizzazione di manifestazioni iper-performative (come le lucrose, ma dannosissime, maratone aperte a tutti), e la questione del boicottaggio delle prossime Olimpiadi di Pechino, che da qualche giorno divampa sulle testate di tutto il mondo, pare non essere tra le priorità da dibattere di atleti e addetti ai lavori, che mai si priverebbero della fama proveniente dai giochi di Pechino per rivendicare un qualche interesse collettivo. Così ogni mattina ci si sveglia con la sensazione che non sarà una giornata campale per il miglioramento del mondo.

Matteo Lunardini

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lunedì 21 aprile 2008
Presentazione del libro
PUGNI CHIUSI E CERCHI OLIMPICI. IL LUNGO ’68 DELLO SPORT ITALIANO
di Sergio Giuntini
al Museo del Calcio di Coverciano di Firenze
con l'Autore e con
Felice Accame, Zeffiro Ciuffoletti, Claudio Del Bello,
Paolo Ignesti, Franco Morabito, Pippo Russo

 

Intervento di Claudio Del Bello

Mentre raccoglievo spunti per questa presentazione, mi è arrivato un invito dell'Accademia dei Lincei a una giornata di studio dedicata a "Il Calcio come segnale: sulle tracce di Setsuro Ebashi".
Ecco lo spunto, mi sono detto.
Ma il Calcio in oggetto – con l'iniziale maiuscola – era l'elemento chimico del gruppo dei metalli alcalino-terrosi, e Setsuro Ebashi un importante fisiologo e farmacologo giapponese; non così famoso per me, però, da non farmi pensare a un calciatore nipponico.
La metafora, in un mondo in cui tutto è metafora, non si sa come difendersene.
Un equivoco il mio, altamente giustificato dall'immersione totale in cui ormai ci troviamo nel gran brodo di metafore, in cui tutto sta per altro, in un vorticoso prestito continuo, in un fantasmagorico gioco di specchi.
Metafore che soprattutto lo sport in genere, e il calcio in particolare, implicano e suggeriscono. Sport e guerra, sport e politica, sport e religione. Per non parlare di sport e sesso – ricordate Amore e ginnastica di Edmondo de Amicis?
C'era un tempo in cui gli ambiti erano ben separati, anche quando lo sport ha cominciato a diventatare la prosecuzione della politica con altri mezzi, oppure business e società per azioni – da associazione amatoriale e cooperativa che era. Questo è il punto. Proprio negli anni intorno al '68, le associazioni amatoriali e cooperative, e anche i banchi di mutuo soccorso o si facevano assorbire, o si davano una struttura aziendale, diventando Spa.

Per la stessa casa editrice Odradek, che ha pubblicato questo libro di Giuntini, ho propiziato altri tre libri di sport: Lettere dalla curva sud, di Filippo Benfante e Piero Brunello; Profondo viola. Il caso Fiorentina, di Massimo Cervelli; e Sport e rivoluzione, di Aa.Vv. Belli, appassionanti, ma tutti e tre con il medesimo difetto, quello di lamentarsi per la purezza perduta.
Più ideologici, più partecipati. Critici, certo, ma in fondo compiaciuti.


C'è una retorica del pallone fatta di campetti rimediati e ordigni vagamente rotondi, ricavati da stracci e giornali appallottolati, poi legati strettamente da qualche giro di spago.
Sono abbastanza vecchio per averci giocato con quei palloni di stracci, da ragazzino a Roma, proprio a piazza Dante, la piazza in cui venti anni più tardi aprirà la sua sede il Circolo "Giovanni Castello", a cui il libro dedica un paragrafo.
La palla fatta con stracci e giornali è reale. La retorica inizia quando se ne magnificano le virtù. Quando si dice che chi inizia a giocare con quell'attrezzo, chissà dove arriva...
Da nessuna parte, non s'impara nulla. Certo non a stoppare, visto che quella palla è "autostoppante".

Per me non è retorica. Ho sempre abitato a non più di un chilometro dal Colosseo.
E prospiciente il Colosseo c'è la Domus aurea. Proprio sopra la quale c'è il campo della Polveriera. Un campo informale – senza recinzioni, senza custode – , così chiamato perché il rettangolo è polvere allo stato nascente, praticamente cipria. Era sempre affollato dagli studenti delle scuole vicine, ma anche da quelli della facoltà d'ingegneria di san Pietro in Vincoli.
Adesso i giovani preferiscono andare, magari in periferia, nei campi a pagamento, e poi farsi la doccia. Anche mio figlio, con l'approvazione della madre, così non torna a casa lurido. Ora, alla Polveriera ci vanno gli extracomunitari: indiani, del Bangladesh o sudamericani. Partite come quelle di una volta...


Avvicendamenti sociali, più che etnici. Un po' più in là, su via Labicana, nei giardini del Colle Oppio, c'è anche uno spiazzo completamente asfaltato, incrocio tra due vialetti, saranno una settantina di metri quadri. Da tempo immemorabile ci giocano i bambini dai sei ai dieci anni. È in pendenza, 8-10 gradi. Le porte sono monumentali, alla lettera, perché sono costituite dalle caratteristiche colonnette di travertino. Senza rete, per cui è il portiere ad andarsi a riprendere la palla rotolata in fondo alle scalette in via Labicana, facendo lo slalom tra le macchine – se era gol. Se era "fuori", ci andava il maldestro avversario. Senza discussioni. Ricordi. Fonte e risultato di ogni possibile alterazione e distorsione della memoria.

Ma Giuntini è uno storico. Il suo non è amarcord. Ricostruisce un rapporto in un processo, utilizzando fonti certe e documenti pubblici.
Goofus bird è l'animale fantastico immaginato da Borges nel suo Manuale di zoologia fantastica, e che a me piace riconoscere come simbolo degli storici. Definito come un uccello che vola all'indietro, perché non gli interessa sapere dove va, ma da dove viene. La funzione degli storici è fondamentale perché ricostruisce la stratificazione, le trasformazioni, costituendo il vero significato delle relazioni umane.
Il pericolo non è che vada perso il ricordo personale – poco male – il pericolo vero è che vada perso il processo, la successione delle forme.
Gli storici, però, hanno un grande difetto per la nostra società: costano troppo, rendono poco e finiscono per rendere critiche e dinamiche nozioni che il sistema di poteri, appunto, vorrebbe semplici e stabili. (Si può avere un brillante fisico teorico a venticinque anni; per avere un valido storico bisogna aspettare che abbia per lo meno quarant'anni. In questo senso, non sono un buon investimento).


Come storico dello sport, Giuntini è solito correlare sport e politica, sport e forme della vita sociale, sport e grandi avvenimenti storici. Questo ha fatto nei suoi libri.
Qui fa la storia di come la stagione del '68 incontra lo sport. Ebbene, ho apprezzato e goduto del libro, senza per questo condividere le pagine finali, che Giuntini mette come postfazione. Molto opportunamente, perché in esse è preponderante l'interpretazione, e prende il sopravvento sulla registrazione degli eventi.


Direi che, proprio questo libro sul '68 riguardante le vicende dello sport, è impietoso, oggettivamente impietoso – nonostante cioè le idee e la passione dell'Autore – perché documenta quanto le promesse di quella stagione non siano state mantenute, le idealità abbiano fallito.
Il '68, è uno spartiacque, un culmine, un flash accecante. Per paradossale che possa sembrare, un obiettivo parzialmente raggiunto è stato proprio quello dichiarato nello slogan più famoso: L'IMMAGINAZIONE AL POTERE. Infatti, creativi e pubblicitari, nonché gl'inventori di strumenti finanziari, la loro fantasia hanno potuto valorizzarla, e diventare ricchi.
Ma gli altri? La macelleria continua. Altro che secolo breve, quello trascorso, un secolo comunque cruento. E non parlo delle guerre ma delle istanze brevissime e compresse, le vite quotidiane, macinate nel tritacarne. Un mondo che se non fai sogni e se non li racconti, magari in tv, ti guardano male, ma che se li fai non durano, e c'è sempre qualcuno che ti scuote e ti ricorda che lo spettacolo deve continuare.
Illusioni, idealità – dicevo che L'IMMAGINAZIONE AL POTERE è uno slogan parzialmente verificato, ma l'altro, RIPRENDIAMOCI LA VITA, ha drammaticamente fallito.
E per quanto riguarda lo sport, a me sembra che da allora la separazione tra sport attivo e sport passivo sia stata consumata fino in fondo. Una separazione, guarda caso, contemporanea e connessa con la trasformazione delle associazioni amatoriali.
Come se qualcuno si fosse messo in mezzo a dirigere il traffico: chi fa lo sport, da questa parte, chi guarda dall'altra parte, please.
E forse, chi ci ha guadagnato è solo chi fa lo sport attivo, perché se opera con intelligenza e passione può dire di svolgere un lavoro dignitoso. Con molti rischi, certo.

Cominciarono nel Seicento a dire che l'uomo è in fondo una macchina. Il medico Andrea Baglivi, nel 1696, in Praxis medica, scriveva: «Si esamini con un po’ di attenzione l’economia fisica dell’uomo: che cosa vi si trova? Le mascelle fornite di denti che altro sono se non delle tenaglie? Lo stomaco non è altro che una storta; le vene, le arterie, l’intero sistema vascolare non sono che tubi idraulici; il cuore è una molla; i visceri non sono altro che filtri e setacci; i polmoni sono semplicemente dei mantici; che cosa sono i muscoli se non delle corde? Che altro è l’angolo ocularte se non una puleggia?».
Ma ben più perturbante è riconoscere che anche la macchina presenta aspetti umani.


Poi si è passati a riconoscere che lo sport è una metafora della vita, salvo poi accorgersi che la vita è diventata una metafora dello sport.
Giuntini è uno storico, e ha correlato sport e politica cercando di tenerle ben separate ma il materiale nel frattempo si è molto intrecciato. E la figura stessa dell'atleta presenta queste difficoltà.

A me l'atleta suggerisce la figura del robot, non più macchina perché si pretende da lui una certa autonomia se non addirittura fantasia e creatività (il "passaggio smarcante", che non lo deve capire nessuno salvo colui a cui è indirizzato), ma neppure uomo perché non gli si perdonano défaillances.
L'atleta-robot ha risolto e dissolto l'opposizione chiastica, tra uomo e macchina integrando lavoro e piacere, nello spettacolo.

Era questo nei voti del '68?

Claudio del Bello

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PROVOCAZIONE
Invito Sergio Giuntini, storico dello sport e autore di Pugni chiusi e cerchi olimpici, a commentare le recenti commistioni di sport e politica. Da una parte abbiamo avuto i pugni neroguantati di Smith e Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968 (!), dall'altra i "doni" al Dalai Lama, sollecitati dall'attuale nostro ministro della guerra, alle Olimpiadi di Pechino. A me sembra che la differenza stia tutta nel discrimine tra diritti civili e politici e diritti umani. O no? cdb


risponde Sergio Giuntini

DOPO PECHINO 2008: QUALCHE APPUNTO CRITICO“

 

A bocce ferme”, avendo avuto a disposizione una diecina di giorni per riprendersi dall'orgia d'immagini televisive - invero piuttosto affastellate e senza una chiara regia da parte di mamma-RAI, -, dai commenti banalmente scontati dei vari professor Dal Monte invece che del “destro”, innamoratosi improvvisamente della Cina attuale, Italo Cucci ecc., è ora possibile tentare un breve bilancio delle recenti Olimpiadi pechinesi. Una riflessione che, ovviamente, non intendiamo ridurre a mera analisi tecnica, contando col pallottoliere quanti ori, argenti, bronzi, abbiamo portato a casa rispetto ad Atene o Sidney, se l'atleta eponimo risponde al nome di Phelps o Bolt, bensì sforzandoci di abbozzare un minimo ragionamento politico su questi Giochi passati in archivio. Giochi che, più politici di così ancor prima di cominciare, non potevano essere. E da questo punto di vista, è necessario dire subito che particolari sorprese, novità eclatanti, rispetto a quanto ci si poteva attendere, dallo Stadio a forma di nido della capitale asiatica non ne sono venute. Quello che doveva essere è stato: con buona pace del Tibet e delle svariate minoranze etniche che in Cina non se la passano sicuramente bene. La “realpolitik”, come la si chiamava un volta, è apparsa la vera vincitrice dei Giochi. Di boicottaggi, secondo modalità particolarmente creative e da inventarsi al momento, nemmeno l'ombra. Soltanto qualche manifestante isolato e assolutamente pacifico, che, con altrettanta efficiente tranquillità e fermezza tipicamente orientali, le forze dell'ordine locali hanno rapidamente rispedito al mittente, imbarcandolo sul primo aereo diretto in Occidente. L'estenuante giochino dei possibili vado non vado alla cerimonia inaugurale, tanto strombazzato alla vigilia, si è dimostrato una penosa manfrina. Anzi, un'autentica “bufala” sapientemente orchestrata per molti mesi dal Circo mediatico. Nessuna fra le cosiddette grandi potenze, a iniziare dagli USA della “libertà infinita” (presentissimi con George Bush in tribuna-autorità l'8 agosto, mentre il nostro paese era rappresentanto ai più alti livelli dal suo ministro degli esteri nonché - qui sta il bello - presidente della Associazione italiana maestri di sci), aveva mai davvero pensato di disertare un'occasione simile, né tantomeno era nelle condizioni serie di farlo. Cioè d'inimicarsi economicamente la Cina, primo e più importante partner mondiale in questa fase storica caratterizzata dalla globalizzazione. Rispetto ad alcune edizioni del passato (Berlino 1936, Città del Messico 1968, Monaco di Baviera 1972, Montreal 1976, Mosca 1980, Los Angeles 1984), è stata l'economia politica a far aggio, stavolta, sulla politica tout court. E l'unica espressione che pare veramente calzante nel caso di questi Giochi, è quella di un'“Olimpiade economicamente non boicottabile”. Giochi olimpici dai quali, gioco-forza, è stata espunta ogni forma di “politicamente scorretto”, essendosi arresi tutti di fronte all'import-export mondiale dominati dal colosso demografico e commerciale d'Asia. In questo senso, sotto il profilo della protesta, il più era stato fatto in precedenza. Gli atti di insubordinazione avevano già avuto il loro apice durante il travagliato percorso della fiaccola olimpica, oggetto di numerosi “contrattempi” fin dall'accensione ad Atene (24 marzo) e in seguito nel corso del transito da Londra (6 aprile), Parigi (7 aprile) San Francisco (9 aprile). E a proposito di San Francisco, è significativo notare che tra i contestatori statunitensi scesi in strada per ostacolare il passaggio della fiaccola (tra l'altro questo rito aulico lo si deve a Hitler, che lo introdusse nei suoi Giochi casalinghi del '36), figurava anche un volto noto del '68 dello sport, uno che evidentemente continua a ribellarsi: John Carlos. Il terzo classificato sui 200 metri (20”10) a Città del Messico, che con la sua coraggiosa protesta sul podio, il suo guanto nero in un pugno chiuso alla maniera del “Black Power”, in coppia con il vincitore e compagno di lotta Tommie Smith (19”83) inferse un durissimo colpo alla sempre sbandierata - a parole - neutralità-apoliticità del Comitato Olimpico Internazionale (CIO). Il medesimo CIO che allora - rispetto alla strage studentesca di Piazza delle tre Culture in Messico - come oggi - relativamente alla repressione cinese praticata in Tibet nel marzo scorso - non è cambiato d'una virgola. Continua a “lavarsi le mani”, di fronte all'irrompere di qualsiasi accidente o dramma che minacci di funestare lo spettacolo e il fantastico business prodotto dalle Olimpiadi. E d'altronde, senza ombra di dubbio, proprio il CIO va considerato uno dei maggiori responsabili del decadimento di qualsiasi autentico valore o spirito olimpico? Giova infatti rammentare che la Cina dell'odierno spurio sistema politico-economico fondato su comunismo post-maoista e turbo capitalismo all'orientale, fin dal 2000 avrebbe voluto/potuto ospitare un'edizione dei Giochi. Era quello l'anno del “Drago”, l'anno dell'”Impero di Mezzo”, e presentandosi alla votazione decisiva di Montecarlo, il 24 settembre 1993, la delegazione cinese era convinta di farcela. Al primo turno l'Assemblea plenaria del CIO fece fuori Istanbul, e Pechino stava davanti a Sidney di 2 voti. Al secondo turno cadde Berlino, e la candidatura cinese accrebbe il suo vantaggio di 7 punti, con Manchester - altra candidata di prestigio - ferma a 13 preferenze. Alla terza votazione, poi, Manchester si ritirò, e la sfida Pechino-Sidney piegò a favore della prima per 40 a 37. Sembrava fatta, ma Manchester dirottò 8 consensi sulla città australiana e, così, finì che Pechino perse clamorosamente l'Olimpiade di fine millennio per 2 soli, miseri, voti: 45 a 43. Ricapitolando: qualora le fosse riuscito il colpo, la Cina avrebbe avuto assegnati dei suoi Giochi olimpici ad appena 4 anni di distanza dall'eccidio di Piazza Tien Amen; ed ergo, risulta parimenti evidente come il CIO la ritenesse già in quel frangente un Paese assolutamente normale, nel quale venivano pienamente garantiti i diritti umani. Per quale ragione stupirsi quindi se, pure in questo 2008, Rogge, il presidente del l'ex incontaminata creatura “decoubertiniana”, non si sia posto particolari problemi per il Tibet, né abbia valutato lo standard delle fondamentali libertà civili, politiche, sindacali, religiose assicurate ai cittadini cinesi nettamente inferiore rispetto a un minimo perlomeno decente? Insomma, di fronte alla fellonia del CIO, degli stati e capi di governo, dei vari organismi internazionali, le uniche speranze potevano riporsi negli atleti, i veri, straordinari protagonisti dell'evento olimpico. Gli unici che, se si fossero davvero esposti in prima persona, avrebbero potuto lasciare il segno senza rischiare - protetti dalla solida “corazza” dei media - obiettivamente granchè. Ma anche loro, è triste constatarlo, hanno sostanzialmente preferito voltare lo sguardo, far finta di niente. Gli sono mancati la coscienza, il coraggio, la volontà di opporsi. Hanno speso tutto l'agonismo che avevano dentro nelle gare, e non gli è restata in corpo e nell'anima neppura una piccola stilla di “antagonismo”. Peggio, dopo aver “protestato” esclusivamente per una questione di soldi, pretendendo (nella logica d'altro canto sempre teorizzata dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi) di pagar meno tasse (ossia di vedersi defiscalizzati i premi in denaro conseguiti a seconda del piazzamentro riportato fra i primi), i nostri “eroi” (Granbassi, Rossi, Idem, Russo), hanno, alla fine, fatto pure sfoggio di quel peculiare “machiavellismo” italico arcinoto in tutto il mondo. Avendo ormai concluso le loro competizioni, alcuni di loro essendo già rientrati in Italia, si sono risciacquata la coscienza offrendo in dono al Dalai Lama chi un paio di guantoni da pugilato, chi una maschera da scherma, chi dei body da canottiere. Un atto di iprocrisia, lodato “urbi et orbi” dalla stampa e TV più supine, di cui non si avvertiva alcun bisogno e che, francamente, ci potevano risparmiare. Probalmente però, l'evitarci questa “sceneggiata” era chiedere loro troppo. Un Paese così, come questo, ha anche gli atleti che si merita. La stagione presente dello sport (e non solo) rispecchia e talvolta supera la mediocrità umana dei tempi che ci troviamo a vivere. Di Smith e Carlos all'orrizonte, oggi, non se ne profilano. Tutt'altro. E concludendo, piace riportare un brano recente - pubblicato sul supplemento di Micromega n. 4, 2008, p. 30 - proprio di Tommie Smith; parole che da un lato riempiono di gioia e commozione, e dall'altro inducono, nello stesso tempo, a una certa malinconica nostalgia o, sarebbe meglio, a una robusta dose di rabbia non ancora repressa:
“Negli anni Sessanta, le cose che venivano al primo posto erano l'orgoglio, il prendersi cura degli altri, e l'ideale di fare di una persona un essere umano completo. Già gli atleti di una generazione successiva, atleti come Carl Lewis e Michael Johnson, erano invece meno consapevoli di quanto non lo fossimo noi, e più attratti dal denaro e dal diverimento. Certo, a tutti piace il denaro, ma l'amore per il denaro è anche la radice del male. Si tratta di grandi atleti e grandi uomini, ma sono diventati ricchi correndo; e in qualche caso il dollaro onnipotente ha la tendenza a far mettere da parte l'orgoglio. Darsi da fare negli anni Sessanta significava tracciare un sentiero su cui poi altri giovani hanno camminato: questo è orgoglio. Oggi invece è come se la gente fosse pagata per essere disonesta. Io non mi sento un militante. Semplicemente, quanto ho fatto a Città del Messico è quello che accade quando si decide di affrontare un problema molto evidente, nel momento in cui nessun altro aveva voglia di affrontarlo. Se persone come me iniziano ad affrontare un problema vanno dritto al cuore. E questo perchè crediamo che non sia importante come ci giudica la gente: la cosa più importante è agire secondo quella che ci sembra essere la natura umana, e non egoisticamente. Non mi sono mai pentito di quello che ho fatto”.SERGIO GIUNTINI

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Darwin Pastorin su Liberazione di domenica 11 maggio 2008

Ero un ragazzino e c'era tanta voglia di vivere
Quando a Torino
mi arrivò addosso il '68


Nel 1968 ero un ragazzino sognatore, innamorato delle ragazze, dei libri e della Juventus. Facevo la terza media, e mi portavo ancora addosso le memorie felici dell'infanzia brasiliana. Quel quartiere Cambuci dove giocavo a pallone con bambini mulatti, giapponesi, ebrei, musulmani, polacchi. Non contava il colore della nostra pelle, non contavano le idee o il lavoro dei nostri genitori, questa o quella religione: importava soltanto la nostra voglia di vivere. Il Sessantotto mi arrivò addosso con gli assassinii di Martin Luther King e di Bob Kennedy, con i carrarmati sovietici a Praga, con la garrota di Franco, la "sporca guerra" del Vietnam, con i ragazzi del Maggio francese e con gli operai e gli studenti di Torino, dove abitavo e abito. Tutto si confondeva, a quel tempo, nella mia mente e nel mio cuore: le fidanzatine... i gol di Anastasi e Riva contro la Jugoslavia nella finale-bis di Roma... la strage degli studenti a Città del Messico prima delle Olimpiadi... Che Guevara non è morto, vivrà per sempre... devi leggere Cesare Pavese, i romanzi, le poesie... mi piace Bob Dylan... io sento Fabrizio De André... mi piacerebbe andare in California...
Quarant'anni dopo, riecco il Sessantotto riempire la televisione, i giornali, le librerie, le nostalgie, le rabbie, i rifiuti. Di certo, fu una stagione indimenticabile. Una stagione di lotte personali e collettive, di fuochi non soltanto di barricate, ma di ideali, di utopie, di immaginazione al potere, alla ricerca di un Uomo Nuovo, giusto libero tollerante.
Tanti i saggi dedicati a quel periodo. Sergio Giuntini, per Odradek, ha scritto un testo fondamentale: Pugni chiusi e cerchi olimpici, il lungo '68 dello sport italiano . Rigiocano, la partita di calcio e della vita, George Best e Gigi Meroni, risale sul ring Alì: tra politica, rivolta, università occupate, la nascita del sindacato giocatori e i prodromi del movimento ultrà.

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