Il '68 negato dallo sport italiano
Voce Repubblicana, 8 dicembre 2012
Lanfranco Palazzolo intervista Sergio Giuntini qui
Lanfranco Palazzolo di Radio Radicale intervista Sergio Giuntini qui. 12 novembre 2012
Giovanna
Cracco su PaginaUno
n. 16 febbraio/marzo 2010
De Coubertin gioirebbe, nel vedere il suo sogno realizzato
non solo alle Olimpiadi ma in ogni competizione: lo sport
falsamente universale, neutrale, apolitico, interclassista.
Altri dopo di lui hanno compreso quanto potesse contribuire
all’inquadramento dell’uomo-massa, divenire ‘oppio
dei popoli’ al pari della religione, valvola di sfogo
per la frustrazione sociale, strumento circenses. Il capitale
ha capito che enorme macchina per far soldi potesse diventare
quello professionista e quanto fosse più sano e produttivo
un lavoratore-sportivo dilettante. Nella società capitalista,
lo sport replica le stesse logiche lavorative: è selettivo,
autoritario, mira al massimo rendimento e al costante superamento
dei risultati raggiunti.
Sono aspetti che pochi analizzano, ormai dati per ontologici,
eppure nel decennio che va dal ’68 al ’78 l’Italia
e il mondo hanno vissuto un’ampia discussione e molti
atleti hanno fatto parlare di sé. A essere messa in
crisi era la funzione dello sport divenuto sovrastruttura,
la pretesa che gli atleti fossero pupazzi privi di pensiero;
rivendicato era lo sport come diritto, popolare, privo di
record, antagonismo, classifiche. Giuntini percorre quegli
anni, dalle Olimpiadi di Città del Messico ai Mondiali
di calcio in Argentina; anche nel mondo dello sport è
stata tentata una rivoluzione, e anche lì è
stata sconfitta.
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da
il manifesto del 26 Marzo 2008
Pugni chiusi e speranze, il lungo '68
dello sport
Dai protosessantottini Gigi Meroni e George
Best al boicottaggio afroamericano alle Olimpiadi del Messico
fino alle battaglie sindacali dello sport italiano in un bel
libro di Sergio Giuntini dedicato all'anno fatidico
di Matteo Lunardini
Il 30 giugno 1968 a Los Angeles si svolsero i trials americani
in vista delle Olimpiadi di Città del Messico. In palio
c'era un posto per la lotteria della gloria celebrata da Pindaro.
Per niente emozionati, alcuni atleti afro-americani si appartarono
a confabulare sull'assassinio, avvenuto tre mesi prima, di
Martin Luther King. Discussero (e animatamente) di Black Panthers
e di alcuni libri del sociologo ex atleta Harry Edwards, che
dalla cattedra di San Josè aveva lanciato il grido:
why run in Mexico and crawl at home? (perché correre
in Messico e strisciare a casa?). Dopo infiniti interventi,
i 36 atleti decisero di mettere ai voti una risoluzione: il
boicottaggio dei giochi da parte dei neri. Tra questi c'erano
Tommy Smith, John Carlos, Bob Beamon, Lee Evans e Ralph Boston,
praticamente il meglio dell'atletica leggera americana. Stranamente,
però, quegli uomini «a un passo dalla leggenda»
non si riunirono per discutere di tempi di qualificazione
e di premi. Tutt'altro.
Assorti in altri problemi, votarono se accettare, oppure rifiutare
in nome dei diritti della propria gente, quel palcoscenico
che avrebbe sancito la loro consacrazione planetaria (per
alcuni anche una condanna a vita). L'esito della tormentata
decisione la conosciamo tutti: per una di quelle entusiasmanti
sorti della Storia passò la linea morbida (per la cronaca...
sportiva: 24-12). Sì, quindi, alle Olimpiadi ma a un
patto: che si facesse qualcosa.
Quarant'anni dopo, la foto di Tommy Jet Smith e John Carlos
sul podio a piedi nudi e pugno chiuso (entrambi avevano votato
a favore del boicottaggio) è l'icona sportivamente
più rappresentativa del '68. Per la prima volta nella
storia l'atleta nero si libera del complesso dello zio Tom,
l'accusa lanciata originariamente a Jesse Owens di essere
uno strumento al servizio della gloria a stelle e strisce.
E con la stessa arma, immaginifica, che lo sport spettacolarizzato
usava per la propria celebrazione, si rivolta violentemente
contro l'altro zio, quello di nome Sam, mettendone in luce
il suo lato più ipocrita: «Oggi ho vinto. Ha
vinto un americano. Se avessi perduto, avrebbe perduto un
negro», dichiarò Smith.
Se la Storia degli storici è per necessità tributaria
di un inizio e una fine, in Pugni chiusi e cerchi olimpici,
il lungo '68 dello sport italiano (di Sergio Giuntini, Odradek
Edizioni) l'aneddoto di Tommy Smith non è qu'un debut,
il tentativo di utilizzare l'epifenomenologia sportiva per
fornire una chiave di lettura del '68. Così, grazie
a un forte corredo di dati e aneddoti - che guidano il lettore
lungo un appassionante itinerario sportivo globale - da quegli
anni emergono, preponderanti, tre sentimenti: la consapevolezza
che un evento lontano può avere un impatto globale;
l'idea che attraverso la discussione si può addivenire
a una scelta positiva e che tutto, anche un gesto sportivo,
può concorrere a migliorare condizioni collettive;
la sensazione che ogni giorno può essere campale per
il miglioramento del mondo (sensazione che fa sbiadire qualunque
altra cosa, anche la vittoria a un'Olimpiade).
Solo cogliendo questo trait d'union d'intenti - che si estende
ad est come a ovest, negli sport dal basso come in quelli
d'élite, e che permeerà tutti gli anni Settanta
- che si capisce perché il '68 dello sport italiano
di Sergio Giuntini è «lungo». È
lungo perché travalica il canonico quadriennio in cui
si suddividono le kermesse mondiali e con esso i confini nazionali;
è lungo perché comincia con i protosessantottini
Gigi Meroni e George Best, passa per i testimoni involontari
della strage di piazza delle Tre Culture Eddie Ottoz e Sergio
Ottolina, e finisce con i postsessantottini Paolo Sollier
ed Ezio Vendrame; è lungo perché interviene
sull'assetto sportivo condiviso, proponendo un nuovo modello
di atleta (l'atleta radicale di Jack Scott che si fa beffe
dei risultati perché in palio c'è molto di più
di qualche riconoscimento personale), e che partecipando al
gioco rivoluziona la semantica, il significato dei gesti.
Oggi, di tutto quel tribolare non resta quasi niente. Nulla
resta della semantica rivoluzionata, del tentativo in atto
di cambiare il valore di divismo e campionismo dello sport,
celebrando il vincente come il perdente (una risposta al retaggio
antisportista degli anni Venti che intanto si riaffaccia sui
giornali della sinistra extraparlamentare, insieme ai dibattiti
sulla congruità della pratica sportiva con quella politica).
Oppure, sul lato della prassi, nulla resta delle azioni spettacolari
tipiche di quegli anni. Come i sequestri a tempo degli studenti
dell'Isef in lotta per il riconoscimento della laurea: toccò
a Franco Liguori, mezzala della Ternana e «matricola»
Isef, al nazionale di basket Paolo Bergonzoni e ai giocatori
del Bologna Bulgarelli e Mujesan. O come il boicottaggio della
tournée italiana degli Springboks, squadra del Sudafrica
bianco, e le denunce delle infiltrazioni fasciste nel rugby
italiano. Ma anche le reazioni crudeli del potere in scacco,
come quella che per ritorsione toccò a Vera Càvlaska,
che sul podio di Città del Messico, proprio come Smith
e Carlos, «chiuse gli occhi e abbassò il capo
in segno di tacita protesta» per la repressione seguita
alla primavera di Praga.
Infine, un'articolata sezione è dedicata a fenomeni
italiani. Il legame via via incrinatosi tra il Pci e la Uisp
(Unione Italiana Sport Popolari, allora considerati i cinesi
dello sport italiano, una realtà che quest'anno compie
60 anni) e le lotte per il riconoscimento degli enti di promozione
sportiva, soggetti determinanti per lo sviluppo degli sport
di massa. La felice esperienza romana del circolo Giovanni
Castello (intitolato a un giovane atleta deceduto in allenamento)
e della loro pubblicazione, il Ronzino: un giornale di «sport
dal basso» che riprendeva i concetti di Calcio come
ideologia di Vinnai (quello di: «Ogni gol su un campo
di calcio è un autogol dei dominati») e di Olimpiadi
dello spreco e dell'inganno di Prokop.
Nonché l'esperienza dei Crazy Runners Club di Roma,
società anticampionista che prevedeva multe pecuniarie
a chi migliorava il proprio primato.
Per chi non ha vissuto il '68 e si è sempre occupato
di sport «da sinistra», occorre dirlo, leggere
il libro di Giuntini non può che lasciare dell'amaro
in bocca. Di quello che si respirava allora non rimane che
un lontano afflato. Oggi le federazioni sono tutte in mano
alla destra, i giornali che parlano di sport lo fanno appiattendosi
sulle rituali e rincoglionenti beghe di campanile, lo sport
dal basso è demandato all'organizzazione di manifestazioni
iper-performative (come le lucrose, ma dannosissime, maratone
aperte a tutti), e la questione del boicottaggio delle prossime
Olimpiadi di Pechino, che da qualche giorno divampa sulle
testate di tutto il mondo, pare non essere tra le priorità
da dibattere di atleti e addetti ai lavori, che mai si priverebbero
della fama proveniente dai giochi di Pechino per rivendicare
un qualche interesse collettivo. Così ogni mattina
ci si sveglia con la sensazione che non sarà una giornata
campale per il miglioramento del mondo.
Matteo
Lunardini
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lunedì
21 aprile 2008
Presentazione del libro
PUGNI CHIUSI E CERCHI OLIMPICI. IL LUNGO ’68 DELLO
SPORT ITALIANO
di Sergio Giuntini
al Museo del Calcio di Coverciano di Firenze
con l'Autore e con
Felice Accame, Zeffiro Ciuffoletti, Claudio Del Bello,
Paolo Ignesti, Franco Morabito, Pippo Russo
Intervento
di Claudio Del Bello
Mentre
raccoglievo spunti per questa presentazione, mi è arrivato
un invito dell'Accademia dei Lincei a una giornata di studio
dedicata a "Il Calcio come segnale: sulle tracce di Setsuro
Ebashi".
Ecco lo spunto, mi sono detto.
Ma il Calcio in oggetto – con l'iniziale maiuscola
– era l'elemento chimico del gruppo dei metalli alcalino-terrosi,
e Setsuro Ebashi un importante fisiologo e farmacologo
giapponese; non così famoso per me, però, da
non farmi pensare a un calciatore nipponico.
La metafora, in un mondo in cui tutto è metafora, non
si sa come difendersene.
Un equivoco il mio, altamente giustificato dall'immersione
totale in cui ormai ci troviamo nel gran brodo di metafore,
in cui tutto sta per altro, in un vorticoso prestito continuo,
in un fantasmagorico gioco di specchi.
Metafore che soprattutto lo sport in genere, e il calcio in
particolare, implicano e suggeriscono. Sport e guerra, sport
e politica, sport e religione. Per non parlare di sport e
sesso – ricordate Amore e ginnastica di Edmondo
de Amicis?
C'era un tempo in cui gli ambiti erano ben separati, anche
quando lo sport ha cominciato a diventatare la prosecuzione
della politica con altri mezzi, oppure business e società
per azioni – da associazione amatoriale e cooperativa
che era. Questo è il punto. Proprio negli anni intorno
al '68, le associazioni amatoriali e cooperative, e anche
i banchi di mutuo soccorso o si facevano assorbire, o si davano
una struttura aziendale, diventando Spa.
Per
la stessa casa editrice Odradek, che ha pubblicato questo
libro di Giuntini, ho propiziato altri tre libri di sport:
Lettere dalla curva sud, di Filippo Benfante e Piero
Brunello; Profondo viola. Il caso Fiorentina, di
Massimo Cervelli; e Sport e rivoluzione, di Aa.Vv.
Belli, appassionanti, ma tutti e tre con il medesimo difetto,
quello di lamentarsi per la purezza perduta.
Più ideologici, più partecipati. Critici, certo,
ma in fondo compiaciuti.
C'è una retorica del pallone fatta di campetti rimediati
e ordigni vagamente rotondi, ricavati da stracci e giornali
appallottolati, poi legati strettamente da qualche giro di
spago.
Sono abbastanza vecchio per averci giocato con quei palloni
di stracci, da ragazzino a Roma, proprio a piazza Dante, la
piazza in cui venti anni più tardi aprirà la
sua sede il Circolo "Giovanni Castello", a cui il
libro dedica un paragrafo.
La palla fatta con stracci e giornali è reale. La retorica
inizia quando se ne magnificano le virtù. Quando si
dice che chi inizia a giocare con quell'attrezzo, chissà
dove arriva...
Da nessuna parte, non s'impara nulla. Certo non a stoppare,
visto che quella palla è "autostoppante".
Per
me non è retorica. Ho sempre abitato a non più
di un chilometro dal Colosseo.
E prospiciente il Colosseo c'è la Domus aurea.
Proprio sopra la quale c'è il campo della Polveriera.
Un campo informale – senza recinzioni, senza custode
– , così chiamato perché il rettangolo
è polvere allo stato nascente, praticamente cipria.
Era sempre affollato dagli studenti delle scuole vicine, ma
anche da quelli della facoltà d'ingegneria di san Pietro
in Vincoli.
Adesso i giovani preferiscono andare, magari in periferia,
nei campi a pagamento, e poi farsi la doccia. Anche mio figlio,
con l'approvazione della madre, così non torna a casa
lurido. Ora, alla Polveriera ci vanno gli extracomunitari:
indiani, del Bangladesh o sudamericani. Partite come quelle
di una volta...
Avvicendamenti sociali, più che etnici. Un po' più
in là, su via Labicana, nei giardini del Colle Oppio,
c'è anche uno spiazzo completamente asfaltato, incrocio
tra due vialetti, saranno una settantina di metri quadri.
Da tempo immemorabile ci giocano i bambini dai sei ai dieci
anni. È in pendenza, 8-10 gradi. Le porte sono monumentali,
alla lettera, perché sono costituite dalle caratteristiche
colonnette di travertino. Senza rete, per cui è il
portiere ad andarsi a riprendere la palla rotolata in fondo
alle scalette in via Labicana, facendo lo slalom tra le macchine
– se era gol. Se era "fuori", ci andava il
maldestro avversario. Senza discussioni. Ricordi. Fonte e
risultato di ogni possibile alterazione e distorsione della
memoria.
Ma Giuntini è uno storico. Il suo non è amarcord.
Ricostruisce un rapporto in un processo, utilizzando fonti
certe e documenti pubblici.
Goofus bird è l'animale fantastico immaginato
da Borges nel suo Manuale di zoologia fantastica,
e che a me piace riconoscere come simbolo degli storici. Definito
come un uccello che vola all'indietro, perché non
gli interessa sapere dove va, ma da dove viene. La funzione
degli storici è fondamentale perché ricostruisce
la stratificazione, le trasformazioni, costituendo il vero
significato delle relazioni umane.
Il pericolo non è che vada perso il ricordo personale
– poco male – il pericolo vero è che vada
perso il processo, la successione delle forme.
Gli storici, però, hanno un grande difetto per la nostra
società: costano troppo, rendono poco e finiscono per
rendere critiche e dinamiche nozioni che il sistema di poteri,
appunto, vorrebbe semplici e stabili. (Si può avere
un brillante fisico teorico a venticinque anni; per avere
un valido storico bisogna aspettare che abbia per lo meno
quarant'anni. In questo senso, non sono un buon investimento).
Come storico dello sport, Giuntini è solito correlare
sport e politica, sport e forme della vita sociale, sport
e grandi avvenimenti storici. Questo ha fatto nei suoi libri.
Qui fa la storia di come la stagione del '68 incontra lo sport.
Ebbene, ho apprezzato e goduto del libro, senza per questo
condividere le pagine finali, che Giuntini mette come postfazione.
Molto opportunamente, perché in esse è preponderante
l'interpretazione, e prende il sopravvento sulla registrazione
degli eventi.
Direi che, proprio questo libro sul '68 riguardante le vicende
dello sport, è impietoso, oggettivamente impietoso
– nonostante cioè le idee e la passione dell'Autore
– perché documenta quanto le promesse di quella
stagione non siano state mantenute, le idealità abbiano
fallito.
Il '68, è uno spartiacque, un culmine, un flash accecante.
Per paradossale che possa sembrare, un obiettivo parzialmente
raggiunto è stato proprio quello dichiarato nello slogan
più famoso: L'IMMAGINAZIONE AL POTERE. Infatti,
creativi e pubblicitari, nonché gl'inventori di strumenti
finanziari, la loro fantasia hanno potuto valorizzarla, e
diventare ricchi.
Ma gli altri? La macelleria continua. Altro che secolo breve,
quello trascorso, un secolo comunque cruento. E non parlo
delle guerre ma delle istanze brevissime e compresse, le vite
quotidiane, macinate nel tritacarne. Un mondo che se non fai
sogni e se non li racconti, magari in tv, ti guardano male,
ma che se li fai non durano, e c'è sempre qualcuno
che ti scuote e ti ricorda che lo spettacolo deve continuare.
Illusioni, idealità – dicevo che L'IMMAGINAZIONE
AL POTERE è uno slogan parzialmente verificato, ma
l'altro, RIPRENDIAMOCI LA VITA, ha drammaticamente
fallito.
E per quanto riguarda lo sport, a me sembra che da allora
la separazione tra sport attivo e sport passivo
sia stata consumata fino in fondo. Una separazione, guarda
caso, contemporanea e connessa con la trasformazione delle
associazioni amatoriali.
Come se qualcuno si fosse messo in mezzo a dirigere il traffico:
chi fa lo sport, da questa parte, chi guarda
dall'altra parte, please.
E forse, chi ci ha guadagnato è solo chi fa lo sport
attivo, perché se opera con intelligenza e passione
può dire di svolgere un lavoro dignitoso. Con molti
rischi, certo.
Cominciarono
nel Seicento a dire che l'uomo è in fondo una macchina.
Il medico Andrea Baglivi, nel 1696, in Praxis medica,
scriveva: «Si esamini con un po’ di attenzione
l’economia fisica dell’uomo: che cosa vi si trova?
Le mascelle fornite di denti che altro sono se non delle tenaglie?
Lo stomaco non è altro che una storta; le vene, le
arterie, l’intero sistema vascolare non sono che tubi
idraulici; il cuore è una molla; i visceri non sono
altro che filtri e setacci; i polmoni sono semplicemente dei
mantici; che cosa sono i muscoli se non delle corde? Che altro
è l’angolo ocularte se non una puleggia?».
Ma ben più perturbante è riconoscere che anche
la macchina presenta aspetti umani.
Poi si è passati a riconoscere che lo sport è
una metafora della vita, salvo poi accorgersi che la vita
è diventata una metafora dello sport.
Giuntini è uno storico, e ha correlato sport e politica
cercando di tenerle ben separate ma il materiale nel frattempo
si è molto intrecciato. E la figura stessa dell'atleta
presenta queste difficoltà.
A
me l'atleta suggerisce la figura del robot, non più
macchina perché si pretende da lui una certa
autonomia se non addirittura fantasia e creatività
(il "passaggio smarcante", che non lo deve capire
nessuno salvo colui a cui è indirizzato), ma neppure
uomo perché non gli si perdonano défaillances.
L'atleta-robot ha risolto e dissolto l'opposizione chiastica,
tra uomo e macchina integrando lavoro e piacere, nello spettacolo.
Era
questo nei voti del '68?
Claudio
del Bello
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PROVOCAZIONE
Invito Sergio Giuntini, storico dello sport e autore di Pugni
chiusi e cerchi olimpici, a commentare le recenti commistioni
di sport e politica. Da una parte abbiamo avuto i pugni neroguantati
di Smith e Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico
del 1968 (!), dall'altra i "doni" al Dalai Lama,
sollecitati dall'attuale nostro ministro della guerra, alle
Olimpiadi di Pechino. A me sembra che la differenza stia tutta
nel discrimine tra diritti civili e politici e diritti umani.
O no? cdb
risponde Sergio Giuntini
DOPO
PECHINO 2008: QUALCHE APPUNTO CRITICO“
A
bocce ferme”, avendo avuto a disposizione una diecina
di giorni per riprendersi dall'orgia d'immagini televisive
- invero piuttosto affastellate e senza una chiara regia da
parte di mamma-RAI, -, dai commenti banalmente scontati dei
vari professor Dal Monte invece che del “destro”,
innamoratosi improvvisamente della Cina attuale, Italo Cucci
ecc., è ora possibile tentare un breve bilancio delle
recenti Olimpiadi pechinesi. Una riflessione che, ovviamente,
non intendiamo ridurre a mera analisi tecnica, contando col
pallottoliere quanti ori, argenti, bronzi, abbiamo portato
a casa rispetto ad Atene o Sidney, se l'atleta eponimo risponde
al nome di Phelps o Bolt, bensì sforzandoci di abbozzare
un minimo ragionamento politico su questi Giochi passati in
archivio. Giochi che, più politici di così ancor
prima di cominciare, non potevano essere. E da questo punto
di vista, è necessario dire subito che particolari
sorprese, novità eclatanti, rispetto a quanto ci si
poteva attendere, dallo Stadio a forma di nido della capitale
asiatica non ne sono venute. Quello che doveva essere è
stato: con buona pace del Tibet e delle svariate minoranze
etniche che in Cina non se la passano sicuramente bene. La
“realpolitik”, come la si chiamava un volta, è
apparsa la vera vincitrice dei Giochi. Di boicottaggi, secondo
modalità particolarmente creative e da inventarsi al
momento, nemmeno l'ombra. Soltanto qualche manifestante isolato
e assolutamente pacifico, che, con altrettanta efficiente
tranquillità e fermezza tipicamente orientali, le forze
dell'ordine locali hanno rapidamente rispedito al mittente,
imbarcandolo sul primo aereo diretto in Occidente. L'estenuante
giochino dei possibili vado non vado alla cerimonia inaugurale,
tanto strombazzato alla vigilia, si è dimostrato una
penosa manfrina. Anzi, un'autentica “bufala” sapientemente
orchestrata per molti mesi dal Circo mediatico. Nessuna fra
le cosiddette grandi potenze, a iniziare dagli USA della “libertà
infinita” (presentissimi con George Bush in tribuna-autorità
l'8 agosto, mentre il nostro paese era rappresentanto ai più
alti livelli dal suo ministro degli esteri nonché -
qui sta il bello - presidente della Associazione italiana
maestri di sci), aveva mai davvero pensato di disertare un'occasione
simile, né tantomeno era nelle condizioni serie di
farlo. Cioè d'inimicarsi economicamente la Cina, primo
e più importante partner mondiale in questa fase storica
caratterizzata dalla globalizzazione. Rispetto ad alcune edizioni
del passato (Berlino 1936, Città del Messico 1968,
Monaco di Baviera 1972, Montreal 1976, Mosca 1980, Los Angeles
1984), è stata l'economia politica a far aggio, stavolta,
sulla politica tout court. E l'unica espressione che pare
veramente calzante nel caso di questi Giochi, è quella
di un'“Olimpiade economicamente non boicottabile”.
Giochi olimpici dai quali, gioco-forza, è stata espunta
ogni forma di “politicamente scorretto”, essendosi
arresi tutti di fronte all'import-export mondiale dominati
dal colosso demografico e commerciale d'Asia. In questo senso,
sotto il profilo della protesta, il più era stato fatto
in precedenza. Gli atti di insubordinazione avevano già
avuto il loro apice durante il travagliato percorso della
fiaccola olimpica, oggetto di numerosi “contrattempi”
fin dall'accensione ad Atene (24 marzo) e in seguito nel corso
del transito da Londra (6 aprile), Parigi (7 aprile) San Francisco
(9 aprile). E a proposito di San Francisco, è significativo
notare che tra i contestatori statunitensi scesi in strada
per ostacolare il passaggio della fiaccola (tra l'altro questo
rito aulico lo si deve a Hitler, che lo introdusse nei suoi
Giochi casalinghi del '36), figurava anche un volto noto del
'68 dello sport, uno che evidentemente continua a ribellarsi:
John Carlos. Il terzo classificato sui 200 metri (20”10)
a Città del Messico, che con la sua coraggiosa protesta
sul podio, il suo guanto nero in un pugno chiuso alla maniera
del “Black Power”, in coppia con il vincitore
e compagno di lotta Tommie Smith (19”83) inferse un
durissimo colpo alla sempre sbandierata - a parole - neutralità-apoliticità
del Comitato Olimpico Internazionale (CIO). Il medesimo CIO
che allora - rispetto alla strage studentesca di Piazza delle
tre Culture in Messico - come oggi - relativamente alla repressione
cinese praticata in Tibet nel marzo scorso - non è
cambiato d'una virgola. Continua a “lavarsi le mani”,
di fronte all'irrompere di qualsiasi accidente o dramma che
minacci di funestare lo spettacolo e il fantastico business
prodotto dalle Olimpiadi. E d'altronde, senza ombra di dubbio,
proprio il CIO va considerato uno dei maggiori responsabili
del decadimento di qualsiasi autentico valore o spirito olimpico?
Giova infatti rammentare che la Cina dell'odierno spurio sistema
politico-economico fondato su comunismo post-maoista e turbo
capitalismo all'orientale, fin dal 2000 avrebbe voluto/potuto
ospitare un'edizione dei Giochi. Era quello l'anno del “Drago”,
l'anno dell'”Impero di Mezzo”, e presentandosi
alla votazione decisiva di Montecarlo, il 24 settembre 1993,
la delegazione cinese era convinta di farcela. Al primo turno
l'Assemblea plenaria del CIO fece fuori Istanbul, e Pechino
stava davanti a Sidney di 2 voti. Al secondo turno cadde Berlino,
e la candidatura cinese accrebbe il suo vantaggio di 7 punti,
con Manchester - altra candidata di prestigio - ferma a 13
preferenze. Alla terza votazione, poi, Manchester si ritirò,
e la sfida Pechino-Sidney piegò a favore della prima
per 40 a 37. Sembrava fatta, ma Manchester dirottò
8 consensi sulla città australiana e, così,
finì che Pechino perse clamorosamente l'Olimpiade di
fine millennio per 2 soli, miseri, voti: 45 a 43. Ricapitolando:
qualora le fosse riuscito il colpo, la Cina avrebbe avuto
assegnati dei suoi Giochi olimpici ad appena 4 anni di distanza
dall'eccidio di Piazza Tien Amen; ed ergo, risulta parimenti
evidente come il CIO la ritenesse già in quel frangente
un Paese assolutamente normale, nel quale venivano pienamente
garantiti i diritti umani. Per quale ragione stupirsi quindi
se, pure in questo 2008, Rogge, il presidente del l'ex incontaminata
creatura “decoubertiniana”, non si sia posto particolari
problemi per il Tibet, né abbia valutato lo standard
delle fondamentali libertà civili, politiche, sindacali,
religiose assicurate ai cittadini cinesi nettamente inferiore
rispetto a un minimo perlomeno decente? Insomma, di fronte
alla fellonia del CIO, degli stati e capi di governo, dei
vari organismi internazionali, le uniche speranze potevano
riporsi negli atleti, i veri, straordinari protagonisti dell'evento
olimpico. Gli unici che, se si fossero davvero esposti in
prima persona, avrebbero potuto lasciare il segno senza rischiare
- protetti dalla solida “corazza” dei media -
obiettivamente granchè. Ma anche loro, è triste
constatarlo, hanno sostanzialmente preferito voltare lo sguardo,
far finta di niente. Gli sono mancati la coscienza, il coraggio,
la volontà di opporsi. Hanno speso tutto l'agonismo
che avevano dentro nelle gare, e non gli è restata
in corpo e nell'anima neppura una piccola stilla di “antagonismo”.
Peggio, dopo aver “protestato” esclusivamente
per una questione di soldi, pretendendo (nella logica d'altro
canto sempre teorizzata dal presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi) di pagar meno tasse (ossia di vedersi defiscalizzati
i premi in denaro conseguiti a seconda del piazzamentro riportato
fra i primi), i nostri “eroi” (Granbassi, Rossi,
Idem, Russo), hanno, alla fine, fatto pure sfoggio di quel
peculiare “machiavellismo” italico arcinoto in
tutto il mondo. Avendo ormai concluso le loro competizioni,
alcuni di loro essendo già rientrati in Italia, si
sono risciacquata la coscienza offrendo in dono al Dalai Lama
chi un paio di guantoni da pugilato, chi una maschera da scherma,
chi dei body da canottiere. Un atto di iprocrisia, lodato
“urbi et orbi” dalla stampa e TV più supine,
di cui non si avvertiva alcun bisogno e che, francamente,
ci potevano risparmiare. Probalmente però, l'evitarci
questa “sceneggiata” era chiedere loro troppo.
Un Paese così, come questo, ha anche gli atleti che
si merita. La stagione presente dello sport (e non solo) rispecchia
e talvolta supera la mediocrità umana dei tempi che
ci troviamo a vivere. Di Smith e Carlos all'orrizonte, oggi,
non se ne profilano. Tutt'altro. E concludendo, piace riportare
un brano recente - pubblicato sul supplemento di Micromega
n. 4, 2008, p. 30 - proprio di Tommie Smith; parole che da
un lato riempiono di gioia e commozione, e dall'altro inducono,
nello stesso tempo, a una certa malinconica nostalgia o, sarebbe
meglio, a una robusta dose di rabbia non ancora repressa:
“Negli anni Sessanta, le cose che venivano al primo
posto erano l'orgoglio, il prendersi cura degli altri, e l'ideale
di fare di una persona un essere umano completo. Già
gli atleti di una generazione successiva, atleti come Carl
Lewis e Michael Johnson, erano invece meno consapevoli di
quanto non lo fossimo noi, e più attratti dal denaro
e dal diverimento. Certo, a tutti piace il denaro, ma l'amore
per il denaro è anche la radice del male. Si tratta
di grandi atleti e grandi uomini, ma sono diventati ricchi
correndo; e in qualche caso il dollaro onnipotente ha la tendenza
a far mettere da parte l'orgoglio. Darsi da fare negli anni
Sessanta significava tracciare un sentiero su cui poi altri
giovani hanno camminato: questo è orgoglio. Oggi invece
è come se la gente fosse pagata per essere disonesta.
Io non mi sento un militante. Semplicemente, quanto ho fatto
a Città del Messico è quello che accade quando
si decide di affrontare un problema molto evidente, nel momento
in cui nessun altro aveva voglia di affrontarlo. Se persone
come me iniziano ad affrontare un problema vanno dritto al
cuore. E questo perchè crediamo che non sia importante
come ci giudica la gente: la cosa più importante è
agire secondo quella che ci sembra essere la natura umana,
e non egoisticamente. Non mi sono mai pentito di quello che
ho fatto”.SERGIO GIUNTINI
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Darwin
Pastorin su Liberazione di domenica 11 maggio
2008
Ero
un ragazzino e c'era tanta voglia di vivere
Quando a Torino
mi arrivò addosso il '68
Nel 1968 ero un ragazzino sognatore, innamorato delle ragazze,
dei libri e della Juventus. Facevo la terza media, e mi portavo
ancora addosso le memorie felici dell'infanzia brasiliana.
Quel quartiere Cambuci dove giocavo a pallone con bambini
mulatti, giapponesi, ebrei, musulmani, polacchi. Non contava
il colore della nostra pelle, non contavano le idee o il lavoro
dei nostri genitori, questa o quella religione: importava
soltanto la nostra voglia di vivere. Il Sessantotto mi arrivò
addosso con gli assassinii di Martin Luther King e di Bob
Kennedy, con i carrarmati sovietici a Praga, con la garrota
di Franco, la "sporca guerra" del Vietnam, con i
ragazzi del Maggio francese e con gli operai e gli studenti
di Torino, dove abitavo e abito. Tutto si confondeva, a quel
tempo, nella mia mente e nel mio cuore: le fidanzatine...
i gol di Anastasi e Riva contro la Jugoslavia nella finale-bis
di Roma... la strage degli studenti a Città del Messico
prima delle Olimpiadi... Che Guevara non è morto, vivrà
per sempre... devi leggere Cesare Pavese, i romanzi, le poesie...
mi piace Bob Dylan... io sento Fabrizio De André...
mi piacerebbe andare in California...
Quarant'anni dopo, riecco il Sessantotto riempire la televisione,
i giornali, le librerie, le nostalgie, le rabbie, i rifiuti.
Di certo, fu una stagione indimenticabile. Una stagione di
lotte personali e collettive, di fuochi non soltanto di barricate,
ma di ideali, di utopie, di immaginazione al potere, alla
ricerca di un Uomo Nuovo, giusto libero tollerante.
Tanti i saggi dedicati a quel periodo. Sergio Giuntini, per
Odradek, ha scritto un testo fondamentale: Pugni chiusi e
cerchi olimpici, il lungo '68 dello sport italiano . Rigiocano,
la partita di calcio e della vita, George Best e Gigi Meroni,
risale sul ring Alì: tra politica, rivolta, università
occupate, la nascita del sindacato giocatori e i prodromi
del movimento ultrà.
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