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Davide Conti
L'OCCUPAZIONE ITALIANA DEI BALCANI. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943)

pp. 272 € 18,00

ISBN 978-88-96487-92-6

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PREZZO SPEDIZIONE COMPRESA
 

Alla fine della seconda guerra mondiale il giudizio sui militari del Regio Esercito era diviso tra un'opinione pubblica internazionale che li considerava criminali di guerra e un'opinione pubblica interna incline a considerarli vittime della guerra fascista e “buoni italiani”.
Quali furono le cause che determinarono una percezione tanto difforme della realtà degli eventi legati alle guerre di aggressione dell'Italia fascista?
Dalla documentazione ricavata, in gran parte inedita, dall'Archivio Centrale dello Stato e da quello del Ministero degli Affari Esteri è emersa come la condotta delle truppe del Regio Esercito durante l'occupazione in Jugoslavia, Grecia ed Albania, negli anni 1940-’43 sia stata caratterizzata dalla snazionalizzazione, dalle repressioni contro i civili, dagli internamenti, dalle esecuzioni sommarie: crimini di guerra, appunto. Ciononostante essa rappresenta da sempre un tema sul quale l'opinione pubblica italiana si è misurata con difficoltà, se non con aperta reticenza. All'elaborazione critica del passato fascista è stato sostituito un generale processo di rimozione e autoassoluzione coniugato sul falso mito del “buon italiano”.
Le ragioni che hanno permesso l'affermazione di un tale paradigma trovano origine nella particolare situazione internazionale del dopoguerra, quando le necessità di riorganizzare il blocco occidentale in chiave anticomunista evitò l'estradizione ed il processo ai numerosi criminali di guerra italiani, richiesti dai governi albanese, jugoslavo e greco al fine di favorire un rapido riarmo dell'Italia e la sua inclusione all'interno dell'Alleanza Atlantica. L'opinione pubblica italiana, sostenuta dallo schieramento conservatore dei partiti antifascisti, si mostrò immediatamente disponibile alla ricezione di tali istanze internazionali assumendo ed introiettando una narrazione che, svincolandola dalle responsabilità storiche del consenso al fascismo, ha rappresentato uno dei fattori principali che hanno concorso a determinare quella “continuità dello Stato” che ha rappresentato fin dalla nascita della Repubblica un ostacolo e un’ipoteca sullo sviluppo democratico della società italiana.
Davide Conti (Roma 1977), dottorando di ricerca in Storia Contemporanea all’Universita di Roma “La Sapienza” e ricercatore della Fondazione Basso - sezione internazionale; ha curato per Odradek Le brigate Matteotti a Roma e nel Lazio (2006).

PRESENTAZIONI

-7 marzo 2008 Casa della Storia e della
Memoria, via San Francesco di Sales 5, Roma.
Interventi di Massimo Rendina, Merco Clementi,
Pierluigi Pallante
-18 aprile 2008 Centro Popolare Autogestito,
via Villamagna 27/a Firenze.
-9 maggio Libreria
"Rinascita", Viale Agosta 36 Roma. Interventi di
Rosario Bentivegna, Claudio Del Bello
-3 giugno 2008 "Circolo Cultura Omosessuale Mario
Mieli" Via Efeso 2/a Roma (a cura di Corrispondenze Metropolitane,
Collettivo Comunista via Efeso, Villa Mirafiori in Movimento).
- Lunedì 26 gennaio ore 21, Circolo Agorà via Bovio 48/50 Pisa
"I giorni di tutta la memoria. Contro il revisionismo storico. Crimini di
guerra e mito della brava gente".
- Mercoledì 28 gennaio ore 17.30
Sala del Consiglio Comunale di Poggibonsi (SI) mostra sul campo di concentramento di Jasenovac "Erano solo bambini"

- Lunedì 9 febbraio 2009, ore 17:00
Roma, Baffo della Gioconda, via degli Aurunci 40

- Mercoledì 11 febbraio 2009, ore 16:00
Roma, Aula grande di Storia, Facoltà di Lettere
La Sapienza
NOI RICORDIAMO TUTTO
Sandi Volk, Nicola Tranfaglia,
Davide Conti, Bianca Bracci Torsi

-21 febbraio 2009 Caldarola (Macerata) a
cura dell'Anpi della Regione Marche.

-27 Marzo 2009, presso la Sala
Conferenze della Provincia di Viterbo.

-28 Marzo 2009 presso l'aula
consiliare del Comune di Tarquinia.

-29 aprile 2009, Bologna, presso l'Associazione culturale marxista.

31 Gennaio 2009, Circolo Agorà di Pisa, intervista a Davide Conti

http://documentiamoci.wordpress.com/2009/01/31/loccupazione-italiana-dei-balcani-intervista-a-davide-conti/

 

Margherita Amatruda su www.bottegascriptamanent.it


Quando l’Italia occupava e massacrava: i Balcani negli anni 1940-43


Un paese che non conosce la propria storia è destinato a ripetere gli stessi errori.
La nostra editoria è piena di saggi che ricostruiscono gli eventi della Seconda guerra mondiale. Quelle che spesso mancano sono le opere di descrizione degli accadimenti storici che indeboliscano le certezze consolidate e che permettano al lettore di rivedere le proprie convinzioni per capire e conoscere i momenti che, nel corso del Secondo conflitto mondiale, videro la partecipazione dell’Italia nel ruolo di aggressore e di occupante.
Il saggio di Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della brava gente (1940-1943), pubblicato da Odradek (pp. 278, € 18,00), offre una ricostruzione storica molto dettagliata di quella che durante la Seconda guerra mondiale, e ancor prima, fu l’invasione italiana dei Balcani, la conseguente opera di “snazionalizzazione” effettuata dal regio esercito e dalle milizie fasciste, la repressione nei confronti dei partigiani e della popolazione e il successivo atteggiamento di generale rimozione dei fatti accaduti e dei crimini commessi nella perpetua e autoassolutoria riproposizione del mito degli “italiani brava gente”.
Gli italiani si distinsero, come sempre accade nelle guerre di conquista, per ferocia e sopraffazione. L’autore mira ad evidenziare le atrocità perpetrate contro la popolazione civile delle zone conquistate e contro i partigiani che operavano sul territorio. Si tenga presente come: «il mito del “buon italiano” non solo abbia nel passato assolto [...] il suo compito di rimozione e autoassoluzione degli italiani rispetto alle responsabilità della Seconda guerra mondiale e della guerra di aggressione coloniale, ma anche come mantenga ancora nel presente [...] una funzione di organizzazione del consenso rispetto alle politiche militari».
I dati e le citazioni che spesso l’autore propone come inciso nel corpo del testo, la ricchezza di note e la presenza di accurati indici fanno di questo saggio un’opera interessante e completa, destinata a un pubblico di lettori esperti e appassionati di storia.

«Palikuca»
Proprio l’intervista a un partigiano italiano, Rosario Bentivegna, apre e contemporaneamente racchiude il senso di questa opera. Bentivegna, unitosi come combattente alle brigate partigiane che operavano in Montenegro durante la Seconda guerra mondiale, racconta, nelle prime pagine, della diffidenza che, comunque, i montenegrini nutrivano nei confronti degli italiani: «Tanto da portare la popolazione civile a ribattezzare il soldato italiano palikuc´a cioè incendiario, bruciatetti».
Basta questo incipit crudo a far cogliere al lettore quella che è stata la vera natura dell’occupazione italiana dei Balcani, simile a quella di tutte le guerre di conquista. Tale occupazione si caratterizza per la medesima ferocia dimostrata dai nazisti in tutta Europa. L’unica cosa che differenziava i due eserciti era la migliore organizzazione della milizia tedesca nelle operazioni belliche e nella sistematica opera di “snazionalizzazione” e repressione che seguiva alla conquista dei territori.

Antefatto
Premessa per le invasioni militari dei Balcani della Seconda guerra mondiale fu la medesima opera di progressiva “snazionalizzazione” anche di Istria e Slovenia per mezzo del governo fascista a partire dagli anni Venti: «Nell’ottobre del 1925 un decreto legge vietò definitivamente l’uso della lingua slovena [...] mentre nel 1927 fu imposta l’italianizzazione di tutti i cognomi».
Si pensi poi all’appoggio, neanche tanto velato, fornito da Mussolini e dal regime fascista agli Ustascia croati [da ustas¹, “insorto”, o “ribelle”, Ndr] fuoriusciti che risiedevano, si riorganizzavano e operavano in Italia o dall’Italia: «i contatti tra Ante Paveliç [leader nazionalista degli Ustascia, criminale di guerra, Ndr] e il regime fascista sono ormai accertati [...]. Paveliç venne sostenuto [...] in tutte le sue attività da Mussolini che vedeva nella sua azione uno strumento di disgregazione e indebolimento dello Stato jugoslavo funzionale alla politica di espansione italiana dei Balcani [...]. Lo Stato croato diverrà, una volta occupata la Jugoslavia [...] una spietata macchina di repressione antipartigiana e di pulizia etnica».
Perfino i tedeschi ebbero a lamentarsi della violenza delle truppe croate: «I massacri che le milizie croate operarono in danno della popolazione [...] furono tanto frequenti e feroci da spingere diplomatici, politici e militari nazisti presenti in loco a inviare in Germania resoconti di biasimo della condotta degli Ustascia», se questo non sembra paradossale.

La notte dei Balcani
Successivamente all’invasione italotedesca del Regno di Jugoslavia (supportata anche da divisioni ungheresi e bulgare) del 6 aprile 1941, all’Italia viene assegnata la Slovenia meridionale. È da questo punto che l’opera di Davide Conti diventa, nella ricostruzione storica degli eventi, un susseguirsi di dati relativi ai crimini commessi dall’esercito italiano di occupazione. Scrive l’autore: «la repressione del movimento partigiano divenne, dunque, il fattore centrale della politica d’occupazione italiana, in quanto coniugava in sé due elementi fondamentali della strategia fascista: da un lato il completo controllo economico della regione [...], dall’altro il programma di snazionalizzazione delle terre slave occupate, attraverso eliminazioni fisiche e deportazioni di civili fiancheggiatori o meno con i partigiani – e ancora – per colpire la resistenza jugoslava, le autorità italiane puntarono sulla deportazione di intere zone popolate da civili».
Tale logica di “fare terra bruciata” attorno ai resistenti jugoslavi che operavano nelle zone occupate dagli italiani, unita alla logica di “snazionalizzare” i territori sostituendo slavi con italiani, comportò la necessità di realizzare campi di concentramento in Italia. Al termine della guerra, gli internati raggiunsero la stima complessiva di circa centomila persone, tra militari e civili. Il campo più grande venne costruito in Toscana, a Renicci d’Anghiari, e poteva ospitare fino a novemila reclusi.
L’idea che campi di concentramento così vasti siano stati presenti sul nostro territorio è un dato, non molto noto, che sconcerta il lettore.
Le ricostruzioni relative a fucilazioni, “soppressioni” di prigionieri ammalati, rappresaglie e uccisioni varie misurano quella che è stata l’occupazione e sono un pugno nello stomaco di chi, degli eventi accaduti e che qui vengono ricostruiti, non sapeva nulla: «la favola del bono italiano deve cessare [...] per ogni camerata caduto paghino con la vita dieci ribelli». Erano questi i toni dei proclami.
Tale condotta ci rese, successivamente alla caduta del regime fascista e ancora per lunghi anni, invisi alle popolazioni locali: «Durante e dopo la guerra in Jugoslavia la parola italiano divenne sinonimo di fascista».

Al termine della guerra si prova a presentare il conto
I crimini di guerra, commessi in Jugoslavia, furono oggetto di inchiesta da parte italiana alla fine della guerra.
Il piano di “snazionalizzazione” che il regime di allora tentò di realizzare nei territori occupati divenne il primo capo d’accusa denunciato, davanti alla Commissione delle Nazioni Unite, dalla Commissione di Stato per l’accertamento dei crimini degli occupanti e dei collaborazionisti, voluta da Tito nella Jugoslavia “liberata”.
La strategia difensiva – riproposta anche per i misfatti commessi in Grecia, Montenegro, Albania e Africa – fu quella di addossare l’intera responsabilità al passato regime, dissociando da questo l’Italia postbellica e cercando di giustificare il comportamento dei militari nel senso del “dovere di obbedire agli ordini impartiti” e circoscrivendo ai singoli la responsabilità delle violenze: «una dissociazione politica e morale», insomma. A Norimberga o nel processo intentato al criminale nazista Adolf Eichmann nel 1961, l’atteggiamento degli imputati fu sostanzialmente simile.

La giustizia si piega alle ragioni politiche e volge lo sguardo altrove
Le mutate condizioni politiche in Europa, il gravitare della nostra nazione nell’orbita di quella che sarà poi l’Alleanza Atlantica, il clima di sostanziale “Preguerra fredda” che già si viveva, aiutò non poco le autorità italiane della rinnovata democrazia a respingere le pretese jugoslave sull’estradizione dei militari accusati di reati e dei criminali e collaborazionisti jugoslavi rifugiati sul nostro territorio.
La ragione politica prevalse, dunque, sulla giustizia.
La necessità e la strategia di non indebolire il nascente blocco anticomunista, in cui l’Italia rappresentava una pedina preziosa, agevolò il nuovo mondo libero a girare la testa verso un’altra direzione. I partiti “antifascisti” si opposero con forza alle estradizioni (eccezion fatta per il Pci), gli organi di stampa sostennero questa linea (eccetto l’Unità prima e l’Avanti poi). La cesura tra il nostro paese e il Fascismo doveva essere netta e l’eventuale giudizio sarebbe stato (e così non fu) della giustizia italiana. Nessuno dei nostri militari – secondo i dossier dell’Onu – venne mai processato dai tribunali internazionali che si occuparono di crimini di guerra e tantomeno da quelli locali dei paesi che subirono le occupazioni. Resta l’amaro.
Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, quella italiana, uscita perdente ma paradossalmente anche vincente dalla Seconda guerra mondiale, risulta evidentemente scritta da più mani che, come spesso accade, mentre scrivevano volgevano gli occhi e il pensiero altrove.
Qualcuno scrisse o sostenne “l’opera civilizzatrice” del nostro esercito nelle colonie, molti difesero la differenza con la brutalità nazista, altri, infine, si spinsero a: «Controaccusare l’esercito di Tito di ferocia e spietatezza». Unici responsabili dei reati eventualmente commessi sarebbero stati Benito Mussolini e i fascisti; regio esercito e popolo italiano erano da considerarsi vittime anch’essi. Sembra veramente troppo.
Poi sui fatti calò il silenzio. Interrotto negli anni da qualche spirito libero – si pensi al documentario della Bbc «Fascist Legacy» [«L’eredità fascista», di cui si torna a parlare in questi giorni, Ndr], o agli studi di Angelo Del Boca e alla querelle che lo contrappose, negli anni passati, a Indro Montanelli – che al mito della “brava gente ad ogni costo” proprio non si adegua.

Margherita Amatruda
, www.bottegascriptamanent.it, III, n. 21, maggio 2009

Liberazione del 5 settembre 2008, pp.10-11

Paolo Persichetti intervista Davide Conti

Italiani brava gente, anche la sinistra c'è caduta

Nel Sergente nella neve Mario Rigoni Stern descrive la disastrosa ritirata dell'Armir dell'inverno 1942-43 come una tragica epopea umana dove non c'è odio ma rispetto per i nemici, dove i soldati italiani fraternizzano con i contadini delle pianure del Don. Nel racconto traspare la consapevolezza per la condizione comune vissuta dagli uomini contro che bivaccavano nelle trincee scavate sulle linee opposte del fronte. Pubblicato nel 1953, il racconto di Rigoni Stern è divenuto una sorta di libro di testo per generazioni di scolari, una pedagogia pacificata piuttosto che pacifista della nostra memoria. Le avventure coloniali e le guerre d'aggressione del regio esercito e delle milizie fasciste scolorano fino a cancellarsi in una narrazione addolcita, nostalgica, senza rivalse e rancori ma anche senza gli orrori della guerra di conquista, gli eccidi, gli sterminii dei civili, la pulizia etnica, le politiche di snazionalizzazione delle popolazioni autoctone condotte da Mussolini in Africa, nei Balcani e in Russia. Il conflitto bellico sembra seguire le regole non scritte d'un galateo cavalleresco d'altri tempi. Il «generale inverno», la fame, i topi e le «cordate di pidocchi» che risalgono il collo dei nostri alpini appaiono i soli veri nemici da combattere. Questo libro ci ha aiutato a odiare la guerra sui banchi di scuola, a capirne tutta la sua insensatezza, ma ha anche riassunto e divulgato il mito del "bravo italiano", del nostro «colonialismo straccione» e quindi dal volto umano, privo di ferocia, esente da crimini bestiali. Un'epica degli ultimi che troviamo anche in Italiani brava gente , film di Giuseppe De Santis uscito nel 1964. L'internazionalismo, la divisione per classi e non per nazionalità, l'antieroismo, la solidarietà tra russi e italiani poveri, la critica feroce degli stati maggiori fino a rappresentare i soldati italiani come vittime inconsapevoli delle loro gerarchie, nutrono un racconto didascalico che nel tentativo di educare al rifiuto della guerra, all'antimilitarismo e ai valori della fratellanza tra i popoli, getta un velo ideologico sulla condotta reale delle nostre truppe. È singolare che la cultura di sinistra, sia pur giustificata da intenti lodevoli, abbia contribuito con la sua narrazione nazionalpopolare alla rimozione delle responsabilità italiane nella seconda guerra mondiale, facilitando quel rovesciamento di paradigma storiografico che l'attuale egemonia culturale della destra erede del fascismo sta portando a termine con successo. Affrontiamo la questione con Davide Conti, giovane storico ricercatore della Fondazione Basso, che ha recentemente pubblicato per le edizioni Odradek (prima edizione già esaurita), L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943) , (2008, pp. 275, euro 18). p.p.

- Nei Balcani le truppe italiane hanno lasciato alle loro spalle una scia orribile di massacri. «Qui si ammazza troppo poco», disse una volta il generale Mario Robotti. Com'è possibile che i palikuca, i «bruciatetti», così le popolazioni civili chiamavano gli italiani, siano diventati nel dopoguerra «brava gente»?

In realtà l'immagine autoassolutoria del "bravo italiano" è rimasta una rappresentazione nazionale ben poco condivisa all'estero. Al termine del secondo conflitto mondiale tutti i paesi occupati dal regime fascista, Jugoslavia, Grecia, Albania, Urss, Francia ed Etiopia, chiesero alla commissione internazionale per i crimini di guerra l'estradizione dei militari italiani accusati di violenze. Gli Usa e l'Inghilterra condannarono a morte alcuni militari del regio esercito responsabili di crimini contro i prigionieri alleati. La leggenda degli italiani "brava gente" emerse solo in un secondo tempo, nel quadro dei nuovi equilibri provocati dalla Guerra Fredda. Quest'immagine, sostenuta poi dagli stessi Alleati, fu utilizzata per legittimare il rapido riarmo dell'Italia e la sua integrazione nell'Alleanza Atlantica.

- Non crede che insieme ad una rimozione dei crimini dei militari ascrivibile alla cultura della destra, vi sia stata anche una involontaria omissione da parte della sinistra?

Tra il 1944 ed il 1945 tutti i partiti della sinistra sostennero la necessità di estradare i responsabili italiani delle violenze nei paesi occupati. Successivamente il coinvolgimento nei governi di unità nazionale e la presenza di socialisti e comunisti all'interno della Commissione d'inchiesta sui crimini di guerra rese problematico mantenere una linea intransigente. Il biennio '46-'47 fu un momento decisivo. La sconfitta delle posizioni più avanzate in termini di rinnovamento dello Stato e l'arresto delle epurazioni ebbe ripercussioni anche sull'apertura dei processi per crimini di guerra. Dopo l'esclusione dal governo e la sconfitta elettorale del 1948, la questione assunse un peso prevalentemente polemico-propagandistico fino a dissolversi nella "normalizzazione" post-bellica.

- Il fatto che il nostro paese abbia subito una dura occupazione militare e una feroce guerra civile non ha forse contribuito alla rimozione delle spedizioni coloniali e dei loro crimini. Il dolore di casa nostra non ha forse oscurato quello altrui?

Di fronte alla commissione che venne istituita dal ministero della Guerra, un alto esponente del regio esercito utilizzò a sua discolpa proprio quest'argomento per attenuare le responsabilità italiane nei bombardamenti dei villaggi jugoslavi. Disse che le distruzioni di abitati civili non erano diverse dai bombardamenti subiti dalle città italiane. In sostanza sosteneva che in guerra i crimini contro le popolazioni civili trovavano un senso e una giustificazione nell'eccezionalità della situazione storica.

- Quale è l'odierno utilizzo del mito del bravo italiano?

Fatte salve le ovvie differenze con le forze armate attuali, credo che il perdurare del mito risieda nell'assoluta attualità e funzionalità che la rappresentazione dell'italiano brava gente assume oggi nelle cosiddette "missioni di pace" dei nostri militari. Domandiamoci quanto abbia inciso nel consenso dell'opinione pubblica, soprattutto quella di sinistra più sensibile ai temi della pace, la retorica del "bravo italiano", della "Missione Arcobaleno" durante la guerra in Kosovo, dell'intervento "umanitario e di ricostruzione" in Afghanistan, per poi finire con l'Iraq? In queste operazioni militari tutti i governi hanno utilizzato a piene mani l'immagine del soldato italiano elemento di "pace" e "normalizzazione" delle aree di crisi internazionale, marginalizzando il ruolo militare e di combattimento delle nostre truppe anche in contesti di aperta violazione del diritto internazionale.

- Non ritiene che il discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica Napolitano nel febbraio 2007, in occasione del "Giorno del ricordo", appartenga a quel modello di narrazione storica costruita attorno al paradigma del vittimismo memoriale?

Il discorso di Napolitano si colloca all'interno di un vero e proprio "corto circuito della memoria". Ne parlo nell'ultimo capitolo del libro. Sulle foibe Napolitano parlò di "pulizia etnica" contro gli italiani. Gli rispose il presidente croato Mesic ricordando la ferocia e gli eccidi dell'occupante fascista. Quando lo storico Raul Pupo intervenne sulla rivista dell'Anpi di Roma, Persona e Società , del giugno 2006, spiegò che i fattori alla base delle uccisioni del 1943 e poi del 1945 dovevano essere ricercati non tanto nella relazione causa-effetto, innescata dall'occupazione italiana e successiva reazione jugoslava, quanto nelle particolari dinamiche della storia della Jugoslavia del tempo. Questo cambio di prospettiva analitica, che pone al centro la storia jugoslava e non la sola lettura italiana, potrebbe consentire una comprensione reale degli eventi.

- Quali sono le novità documentali presenti nel suo libro rispetto alle ricerche precedenti?

I documenti sono in larga parte inediti e certificano, attraverso resoconti dettagliati delle operazioni militari, che le truppe del regio esercito commisero stragi, rappresaglie, internamenti, deportazioni e distruzioni in danno di civili, partigiani e militari di altri paesi. Inoltre si palesa l'intento programmatico del governo fascista e delle alte gerarchie militari di realizzare politiche di "snazionalizzazione" dei territori occupati e di terrore programmato per il controllo dell'ordine pubblico. Si riportano lunghi elenchi di presunti criminali di guerra italiani di cui i paesi occupati chiedono l'estradizione (circa 1200). Si menzionano luoghi, tempi e modalità in cui vennero svolte operazioni militari contro le popolazioni locali e si individua la catena di comando. Il fatto che tali documentazioni provengano da fonti militari e ministeriali e da relazioni dirette di soldati italiani e non siano solo accuse di provenienza jugoslava rafforza l'elemento di verità storica e a mio avviso lo pone come fattore non marginale di impegno pubblico rispetto ai conti con la nostra storia nazionale.

- Perché il ministero della Difesa rende ancora inaccessibili quei documenti che possono fare luce sui comportamenti delle forze armate nelle imprese coloniali italiane?


L'allargamento del dibattito e una maggiore sollecitazione dell'opinione pubblica potrebbe rappresentare un grimaldello efficace per ottenere finalmente l'accesso alle fonti militari. Nel febbraio 1996, al termine di una lunga disputa tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli sull'uso dei gas in Africa, il ministro della Difesa dell'allora governo Dini, il generale Domenico Corcione, intervenne in Parlamento per confermare ciò che sosteneva Del Boca, sancendo una verità storica fino ad allora negata.

- Nelle polemiche rivolte alla vicenda delle foibe o del "triangolo rosso" emiliano non vi è il tentativo di confondere quella che è stata la «guerra civile» con la «guerra sistematica ai civili» condotta dai nazifascisti dentro e fuori il territorio italiano?

Confondere la guerra civile con la "guerra ai civili" significa dare adito alle forme peggiori di revisionismo. Uniformando sotto il criterio di una indefinita "violenza" elementi completamente diversi per natura, origine e sviluppo, porta alla conclusione che da una parte e dall'altra vi fu lo stesso grado di crudeltà e che in sostanza le due parti contendenti abbiano una uguale moralità e dignità storica. Le diversità tra nazifascisti e antifascisti vengono in questo modo cancellate favorendo la costruzione di quel "senso comune" che ha permesso in questi ultimi anni un vero e proprio processo mediatico alla Resistenza, ridefinendo in termini di egemonia nella società il primato di una cultura di destra anche nell'ambito della lettura della storia nazionale. La "guerra ai civili" fu una strategia militare adottata dalle truppe nazifasciste nei territori occupati dell'Europa per mantenere il controllo dei paesi invasi dalle truppe dell'Asse ed in Italia le stragi tedesche ne rappresentano la più triste conferma.

- Sui crimini di guerra commessi dal nostro esercito nei Balcani è tornata ad indagare anche la magistratura militare dopo che, nel 2002, è venuta meno la clausola della reciprocità sancita dall'art. 165 cp. Ma gli eventuali processi non avranno comunque un esito penale effettivo poiché i responsabili sono scomparsi. Non c'è il rischio di delegare all'ambito giudiziario la ricerca storica?

Quella clausola venne utilizzata per negare le estradizioni dei nostri militari, mettendo sullo stesso piano aggressori e aggrediti. La "scoperta" dei fascicoli riguardanti le stragi tedesche e le responsabilità dei collaborazionisti salotini rappresenta un elemento di grande importanza dal punto di vista storico e civile. Ritengo molto importante che il procuratore militare Intelisano abbia riaperto il caso dei crimini di guerra italiani all'estero. Credo che forme di sanzione giuridica siano in questo caso specifico assolutamente importanti. Sarebbe mai stato possibile costruire il mito del "bravo italiano" se si fossero celebrati i procedimenti giudiziari contro i nostri criminali di guerra? Ciò non avrebbe favorito un ricambio quantomeno dei vertici militari e dell'alta burocrazia rendendo percorribile e più incisiva la strada dell'epurazione e del rinnovamento delle istituzioni? In sostanza quella tara storica della "continuità dello Stato" patita nel dopoguerra dalla stessa Repubblica democratica e antifascista avrebbe trovato terreno meno fertile per radicarsi nel tessuto nazionale. L'immagine evocativa, utilizzata da Filippo Focardi, della mancata "Norimberga italiana" rappresenta in questo senso un elemento centrale della storia dell'Italia post-fascista.

- Ma il processo di Norimberga non ha affatto denazificato la Germania. Non è una tragica illusione credere che i processi nei tribunali possano compensare ciò che non è riuscito ai processi storici? Così non si rischia di scadere dal tribunale della storia alla storia dei tribunali?

Naturalmente il lavoro giudiziario è diverso da quello storico cui competono altre funzioni rispetto alla ricerca sul piano penale e di responsabilità individuali che sono proprie dell'ambito giuridico. Sta alla ricerca storica non subordinare esclusivamente il proprio lavoro alla dimensione giudiziaria. Il problema risiede poi nella capacità di sedimentare nella coscienza dell'opinione pubblica ciò che emerge dalle carte e dai documenti. È poi ovvio che un processo di generale rinnovamento sociale, politico e culturale di un paese non possa essere delegato in toto ad un ambito giuridico o soltanto storico. Sono processi che per riuscire nel loro compito necessitano della attiva ed ansiosa spinta di rinnovamento delle società.

 

La prima recensione, apparsa sul sito www.nuovaalabarda.org


Qualcuno potrebbe chiedersi cosa ci sia di nuovo in un ennesimo studio sull’occupazione italiana dei Balcani: ebbene, questo libro dice davvero qualcosa di nuovo. L’autore non si limita a citare studi già pubblicati (che spesso però fa bene rileggere per ricordarci che, lungi dal luogo comune del “buon italiano”, l’esercito italiano fu occupatore feroce nelle zone da lui sottomesse) ma cita documenti finora non conosciuti ed analizzati, conservati soprattutto nell’Archivio centrale dello Stato e nell’Archivio storico del Ministero affari esteri, tra i quali anche documenti provenienti dagli archivi delle prefetture delle province di occupazione.
La parte più interessante del materiale è però, a parer nostro, quella costituita dagli interrogatori fatti dai Servizi a singoli militari (graduati o semplici soldati) che avevano partecipato alle operazioni in Jugoslavia. Lo scopo di queste testimonianze era quello di dimostrare che l’esercito italiano non era responsabile di crimini di guerra in quanto struttura, ma che le colpe erano attribuibili solo ad alcuni singoli, fascisti esasperati e che lo stesso fascismo era un incidente di percorso nella storia di un paese civile come l’Italia. Queste testimonianze dovevano essere portate ai colloqui di pace per ridurre le responsabilità collettive, scagionare l’Italia dall’accusa di aver programmato la distruzione della Jugoslavia e minimizzare i vari crimini di guerra commessi anche in Albania, Grecia e Montenegro; in questo modo si riuscì anche a ridurre di molto le richieste di debiti di guerra, in quanto le responsabilità furono fatte ricadere su singoli individui piuttosto che sulla nazione intera.
Oggi invece queste testimonianze servono a dimostrare la continua, feroce e organizzata azione di repressione e distruzione sistematica operata dall’Italia di un paese e delle sue popolazioni, in quanto la maggior parte degli intervistati non dice “io feci”, bensì “altri fecero”. Sarebbe interessante prendere visione in forma integrale di tutte le testimonianze raccolte, per comprendere meglio l’entità del fenomeno, ma già da quanto riportato nel testo esce una realtà agghiacciante di quella che fu l’occupazione italiana. Vi sono ad esempio documenti che dimostrano che le autorità italiane, sia militari che civili, non aiutarono gli ebrei in fuga dalla Croazia, ma anzi li concentrarono in posti di frontiera, a disposizione dei tedeschi, sapendo benissimo che sarebbero andati incontro ad una morte terribile. Per non parlare delle disposizioni sulle uccisioni di ostaggi, sull’internamento dei civili, sull’incendio di villaggi. Tutto ciò con buona pace di coloro che ribadiscono ad ogni piè sospinto il “mito” dell’italiano “buono”, dei militari italiani e degli stessi fascisti che si sarebbero comportati umanamente con i prigionieri ed avrebbero aiutato gli ebrei a sfuggire alla deportazione.
Del resto si preferisce non parlare a scuola del colonialismo e delle occupazioni italiane, né delle repressioni compiute dal nostro Paese sui popoli assoggettati; e che ancora oggi la censura blocca film come “Il leone del deserto” o il documentario “Fascist Legacy”.
Mentre vengono proposti al pubblico testi di “divulgazione” storica, spesso disinformativi o di mera propaganda, tesi da una parte a minimizzare le colpe del fascismo e del colonialismo e dall’altra ad alimentare la colpevolizzazione della Resistenza, sia italiana, sia quella dei popoli occupati dall’esercito italiano (come la jugoslava), libri come questo di Conti, pur accurati e ben documentati, circolano solo in una ristretta nicchia di ricercatori e non riescono a farsi recensire dalla grande stampa.
Lo studio di Conti ha anche un altro pregio di non poco conto, in un periodo in cui si tenta di convincere il grande pubblico che la storia debba essere raccontata attraverso i libri “divulgativi”, cioè privi di note, di citazioni e senza documenti, in quanto questi renderebbero, secondo molti “divulgatori” (ma anche storici), la lettura noiosa e di difficile comprensione. Perché questo testo, pur ricco di citazioni e di documenti, risulta invece di lettura scorrevole e la sua coerenza “narrativa” è data proprio dalle citazioni dei documenti inserite nel testo.
Una particolare menzione merita l’editore, da sempre impegnato nella divulgazione di testi che pongono l’accento su fatti ed avvenimenti controversi o poco noti, sia italiani che internazionali. È grazie anche a case editrici piccole ma combattive come questa che il pensiero unico dei vari riscrittori della storia non è ancora riuscito a trionfare del tutto, pur avendo causato purtroppo enormi danni tra gli italiani.
In conclusione, questo di Conti è un testo che consigliamo a tutti coloro che vogliono approfondire la conoscenza della tragica partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale, e lo possono fare leggendo un libro ben scritto, agile e nello stesso tempo approfondito.
Marzo 2008.

 

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