PRESENTAZIONI
-7
marzo 2008 Casa della Storia e della
Memoria, via San Francesco di Sales 5, Roma.
Interventi di Massimo Rendina, Merco Clementi,
Pierluigi Pallante
-18 aprile 2008 Centro Popolare Autogestito,
via Villamagna 27/a Firenze.
-9 maggio Libreria
"Rinascita", Viale Agosta 36 Roma. Interventi di
Rosario Bentivegna, Claudio Del Bello
-3 giugno 2008 "Circolo Cultura Omosessuale Mario
Mieli" Via Efeso 2/a Roma (a cura di Corrispondenze Metropolitane,
Collettivo Comunista via Efeso, Villa Mirafiori in Movimento).
- Lunedì 26 gennaio ore 21, Circolo Agorà via
Bovio 48/50 Pisa
"I giorni di tutta la memoria. Contro il revisionismo
storico. Crimini di
guerra e mito della brava gente".
- Mercoledì 28 gennaio ore 17.30
Sala del Consiglio Comunale di Poggibonsi (SI) mostra sul
campo di concentramento di Jasenovac "Erano solo bambini"
-
Lunedì 9 febbraio 2009, ore 17:00
Roma, Baffo della Gioconda, via degli Aurunci 40
- Mercoledì 11 febbraio 2009, ore 16:00
Roma, Aula grande di Storia, Facoltà di Lettere
La Sapienza
NOI RICORDIAMO TUTTO
Sandi Volk, Nicola Tranfaglia,
Davide Conti, Bianca Bracci Torsi
-21 febbraio 2009 Caldarola (Macerata) a
cura dell'Anpi della Regione Marche.
-27 Marzo 2009, presso la Sala
Conferenze della Provincia di Viterbo.
-28 Marzo 2009 presso l'aula
consiliare del Comune di Tarquinia.
-29
aprile 2009, Bologna, presso l'Associazione culturale marxista.
Margherita
Amatruda su www.bottegascriptamanent.it
Quando l’Italia occupava e massacrava:
i Balcani negli anni 1940-43
Un paese che non conosce la propria storia è destinato
a ripetere gli stessi errori.
La nostra editoria è piena di saggi che ricostruiscono
gli eventi della Seconda guerra mondiale. Quelle che spesso
mancano sono le opere di descrizione degli accadimenti storici
che indeboliscano le certezze consolidate e che permettano
al lettore di rivedere le proprie convinzioni per capire e
conoscere i momenti che, nel corso del Secondo conflitto mondiale,
videro la partecipazione dell’Italia nel ruolo di aggressore
e di occupante.
Il saggio di Davide Conti, L’occupazione italiana dei
Balcani. Crimini di guerra e mito della brava gente (1940-1943),
pubblicato da Odradek (pp. 278, € 18,00), offre una ricostruzione
storica molto dettagliata di quella che durante la Seconda
guerra mondiale, e ancor prima, fu l’invasione italiana
dei Balcani, la conseguente opera di “snazionalizzazione”
effettuata dal regio esercito e dalle milizie fasciste, la
repressione nei confronti dei partigiani e della popolazione
e il successivo atteggiamento di generale rimozione dei fatti
accaduti e dei crimini commessi nella perpetua e autoassolutoria
riproposizione del mito degli “italiani brava gente”.
Gli italiani si distinsero, come sempre accade nelle guerre
di conquista, per ferocia e sopraffazione. L’autore
mira ad evidenziare le atrocità perpetrate contro la
popolazione civile delle zone conquistate e contro i partigiani
che operavano sul territorio. Si tenga presente come: «il
mito del “buon italiano” non solo abbia nel passato
assolto [...] il suo compito di rimozione e autoassoluzione
degli italiani rispetto alle responsabilità della Seconda
guerra mondiale e della guerra di aggressione coloniale, ma
anche come mantenga ancora nel presente [...] una funzione
di organizzazione del consenso rispetto alle politiche militari».
I dati e le citazioni che spesso l’autore propone come
inciso nel corpo del testo, la ricchezza di note e la presenza
di accurati indici fanno di questo saggio un’opera interessante
e completa, destinata a un pubblico di lettori esperti e appassionati
di storia.
«Palikuca»
Proprio l’intervista a un partigiano italiano, Rosario
Bentivegna, apre e contemporaneamente racchiude il senso di
questa opera. Bentivegna, unitosi come combattente alle brigate
partigiane che operavano in Montenegro durante la Seconda
guerra mondiale, racconta, nelle prime pagine, della diffidenza
che, comunque, i montenegrini nutrivano nei confronti degli
italiani: «Tanto da portare la popolazione civile a
ribattezzare il soldato italiano palikuc´a cioè
incendiario, bruciatetti».
Basta questo incipit crudo a far cogliere al lettore quella
che è stata la vera natura dell’occupazione italiana
dei Balcani, simile a quella di tutte le guerre di conquista.
Tale occupazione si caratterizza per la medesima ferocia dimostrata
dai nazisti in tutta Europa. L’unica cosa che differenziava
i due eserciti era la migliore organizzazione della milizia
tedesca nelle operazioni belliche e nella sistematica opera
di “snazionalizzazione” e repressione che seguiva
alla conquista dei territori.
Antefatto
Premessa per le invasioni militari dei Balcani della Seconda
guerra mondiale fu la medesima opera di progressiva “snazionalizzazione”
anche di Istria e Slovenia per mezzo del governo fascista
a partire dagli anni Venti: «Nell’ottobre del
1925 un decreto legge vietò definitivamente l’uso
della lingua slovena [...] mentre nel 1927 fu imposta l’italianizzazione
di tutti i cognomi».
Si pensi poi all’appoggio, neanche tanto velato, fornito
da Mussolini e dal regime fascista agli Ustascia croati [da
ustas¹, “insorto”, o “ribelle”, Ndr]
fuoriusciti che risiedevano, si riorganizzavano e operavano
in Italia o dall’Italia: «i contatti tra Ante
Paveliç [leader nazionalista degli Ustascia, criminale
di guerra, Ndr] e il regime fascista sono ormai accertati
[...]. Paveliç venne sostenuto [...] in tutte le sue
attività da Mussolini che vedeva nella sua azione uno
strumento di disgregazione e indebolimento dello Stato jugoslavo
funzionale alla politica di espansione italiana dei Balcani
[...]. Lo Stato croato diverrà, una volta occupata
la Jugoslavia [...] una spietata macchina di repressione antipartigiana
e di pulizia etnica».
Perfino i tedeschi ebbero a lamentarsi della violenza delle
truppe croate: «I massacri che le milizie croate operarono
in danno della popolazione [...] furono tanto frequenti e
feroci da spingere diplomatici, politici e militari nazisti
presenti in loco a inviare in Germania resoconti di biasimo
della condotta degli Ustascia», se questo non sembra
paradossale.
La notte dei Balcani
Successivamente all’invasione italotedesca del Regno
di Jugoslavia (supportata anche da divisioni ungheresi e bulgare)
del 6 aprile 1941, all’Italia viene assegnata la Slovenia
meridionale. È da questo punto che l’opera di
Davide Conti diventa, nella ricostruzione storica degli eventi,
un susseguirsi di dati relativi ai crimini commessi dall’esercito
italiano di occupazione. Scrive l’autore: «la
repressione del movimento partigiano divenne, dunque, il fattore
centrale della politica d’occupazione italiana, in quanto
coniugava in sé due elementi fondamentali della strategia
fascista: da un lato il completo controllo economico della
regione [...], dall’altro il programma di snazionalizzazione
delle terre slave occupate, attraverso eliminazioni fisiche
e deportazioni di civili fiancheggiatori o meno con i partigiani
– e ancora – per colpire la resistenza jugoslava,
le autorità italiane puntarono sulla deportazione di
intere zone popolate da civili».
Tale logica di “fare terra bruciata” attorno ai
resistenti jugoslavi che operavano nelle zone occupate dagli
italiani, unita alla logica di “snazionalizzare”
i territori sostituendo slavi con italiani, comportò
la necessità di realizzare campi di concentramento
in Italia. Al termine della guerra, gli internati raggiunsero
la stima complessiva di circa centomila persone, tra militari
e civili. Il campo più grande venne costruito in Toscana,
a Renicci d’Anghiari, e poteva ospitare fino a novemila
reclusi.
L’idea che campi di concentramento così vasti
siano stati presenti sul nostro territorio è un dato,
non molto noto, che sconcerta il lettore.
Le ricostruzioni relative a fucilazioni, “soppressioni”
di prigionieri ammalati, rappresaglie e uccisioni varie misurano
quella che è stata l’occupazione e sono un pugno
nello stomaco di chi, degli eventi accaduti e che qui vengono
ricostruiti, non sapeva nulla: «la favola del bono italiano
deve cessare [...] per ogni camerata caduto paghino con la
vita dieci ribelli». Erano questi i toni dei proclami.
Tale condotta ci rese, successivamente alla caduta del regime
fascista e ancora per lunghi anni, invisi alle popolazioni
locali: «Durante e dopo la guerra in Jugoslavia la parola
italiano divenne sinonimo di fascista».
Al termine della guerra si prova a presentare il conto
I crimini di guerra, commessi in Jugoslavia, furono oggetto
di inchiesta da parte italiana alla fine della guerra.
Il piano di “snazionalizzazione” che il regime
di allora tentò di realizzare nei territori occupati
divenne il primo capo d’accusa denunciato, davanti alla
Commissione delle Nazioni Unite, dalla Commissione di Stato
per l’accertamento dei crimini degli occupanti e dei
collaborazionisti, voluta da Tito nella Jugoslavia “liberata”.
La strategia difensiva – riproposta anche per i misfatti
commessi in Grecia, Montenegro, Albania e Africa – fu
quella di addossare l’intera responsabilità al
passato regime, dissociando da questo l’Italia postbellica
e cercando di giustificare il comportamento dei militari nel
senso del “dovere di obbedire agli ordini impartiti”
e circoscrivendo ai singoli la responsabilità delle
violenze: «una dissociazione politica e morale»,
insomma. A Norimberga o nel processo intentato al criminale
nazista Adolf Eichmann nel 1961, l’atteggiamento degli
imputati fu sostanzialmente simile.
La giustizia si piega alle ragioni politiche e volge lo sguardo
altrove
Le mutate condizioni politiche in Europa, il gravitare della
nostra nazione nell’orbita di quella che sarà
poi l’Alleanza Atlantica, il clima di sostanziale “Preguerra
fredda” che già si viveva, aiutò non poco
le autorità italiane della rinnovata democrazia a respingere
le pretese jugoslave sull’estradizione dei militari
accusati di reati e dei criminali e collaborazionisti jugoslavi
rifugiati sul nostro territorio.
La ragione politica prevalse, dunque, sulla giustizia.
La necessità e la strategia di non indebolire il nascente
blocco anticomunista, in cui l’Italia rappresentava
una pedina preziosa, agevolò il nuovo mondo libero
a girare la testa verso un’altra direzione. I partiti
“antifascisti” si opposero con forza alle estradizioni
(eccezion fatta per il Pci), gli organi di stampa sostennero
questa linea (eccetto l’Unità prima e l’Avanti
poi). La cesura tra il nostro paese e il Fascismo doveva essere
netta e l’eventuale giudizio sarebbe stato (e così
non fu) della giustizia italiana. Nessuno dei nostri militari
– secondo i dossier dell’Onu – venne mai
processato dai tribunali internazionali che si occuparono
di crimini di guerra e tantomeno da quelli locali dei paesi
che subirono le occupazioni. Resta l’amaro.
Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, quella
italiana, uscita perdente ma paradossalmente anche vincente
dalla Seconda guerra mondiale, risulta evidentemente scritta
da più mani che, come spesso accade, mentre scrivevano
volgevano gli occhi e il pensiero altrove.
Qualcuno scrisse o sostenne “l’opera civilizzatrice”
del nostro esercito nelle colonie, molti difesero la differenza
con la brutalità nazista, altri, infine, si spinsero
a: «Controaccusare l’esercito di Tito di ferocia
e spietatezza». Unici responsabili dei reati eventualmente
commessi sarebbero stati Benito Mussolini e i fascisti; regio
esercito e popolo italiano erano da considerarsi vittime anch’essi.
Sembra veramente troppo.
Poi sui fatti calò il silenzio. Interrotto negli anni
da qualche spirito libero – si pensi al documentario
della Bbc «Fascist Legacy» [«L’eredità
fascista», di cui si torna a parlare in questi giorni,
Ndr], o agli studi di Angelo Del Boca e alla querelle che
lo contrappose, negli anni passati, a Indro Montanelli –
che al mito della “brava gente ad ogni costo”
proprio non si adegua.
Margherita Amatruda, www.bottegascriptamanent.it,
III, n. 21, maggio 2009
Liberazione
del 5 settembre 2008, pp.10-11
Paolo
Persichetti intervista Davide
Conti
Italiani
brava gente, anche la sinistra c'è
caduta
Nel Sergente nella neve Mario Rigoni Stern descrive la
disastrosa ritirata dell'Armir dell'inverno 1942-43 come una
tragica epopea umana dove non c'è odio ma rispetto
per i nemici, dove i soldati italiani fraternizzano con i
contadini delle pianure del Don. Nel racconto traspare la
consapevolezza per la condizione comune vissuta dagli uomini
contro che bivaccavano nelle trincee scavate sulle linee opposte
del fronte. Pubblicato nel 1953, il racconto di Rigoni Stern
è divenuto una sorta di libro di testo per generazioni
di scolari, una pedagogia pacificata piuttosto che pacifista
della nostra memoria. Le avventure coloniali e le guerre d'aggressione
del regio esercito e delle milizie fasciste scolorano fino
a cancellarsi in una narrazione addolcita, nostalgica, senza
rivalse e rancori ma anche senza gli orrori della guerra di
conquista, gli eccidi, gli sterminii dei civili, la pulizia
etnica, le politiche di snazionalizzazione delle popolazioni
autoctone condotte da Mussolini in Africa, nei Balcani e in
Russia. Il conflitto bellico sembra seguire le regole non
scritte d'un galateo cavalleresco d'altri tempi. Il «generale
inverno», la fame, i topi e le «cordate di pidocchi»
che risalgono il collo dei nostri alpini appaiono i soli veri
nemici da combattere. Questo libro ci ha aiutato a odiare
la guerra sui banchi di scuola, a capirne tutta la sua insensatezza,
ma ha anche riassunto e divulgato il mito del "bravo
italiano", del nostro «colonialismo straccione»
e quindi dal volto umano, privo di ferocia, esente da crimini
bestiali. Un'epica degli ultimi che troviamo anche in Italiani
brava gente , film di Giuseppe De Santis uscito nel 1964.
L'internazionalismo, la divisione per classi e non per nazionalità,
l'antieroismo, la solidarietà tra russi e italiani
poveri, la critica feroce degli stati maggiori fino a rappresentare
i soldati italiani come vittime inconsapevoli delle loro gerarchie,
nutrono un racconto didascalico che nel tentativo di educare
al rifiuto della guerra, all'antimilitarismo e ai valori della
fratellanza tra i popoli, getta un velo ideologico sulla condotta
reale delle nostre truppe. È singolare che la cultura
di sinistra, sia pur giustificata da intenti lodevoli, abbia
contribuito con la sua narrazione nazionalpopolare alla rimozione
delle responsabilità italiane nella seconda guerra
mondiale, facilitando quel rovesciamento di paradigma storiografico
che l'attuale egemonia culturale della destra erede del fascismo
sta portando a termine con successo. Affrontiamo la questione
con Davide Conti, giovane storico ricercatore della Fondazione
Basso, che ha recentemente pubblicato per le edizioni Odradek
(prima edizione già esaurita), L'occupazione italiana
dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente"
(1940-1943) , (2008, pp. 275, euro 18). p.p.
-
Nei Balcani le truppe italiane hanno lasciato alle loro
spalle una scia orribile di massacri. «Qui si ammazza
troppo poco», disse una volta il generale Mario Robotti.
Com'è possibile che i palikuca, i «bruciatetti»,
così le popolazioni civili chiamavano gli italiani,
siano diventati nel dopoguerra «brava gente»?
In realtà l'immagine autoassolutoria del "bravo
italiano" è rimasta una rappresentazione nazionale
ben poco condivisa all'estero. Al termine del secondo conflitto
mondiale tutti i paesi occupati dal regime fascista, Jugoslavia,
Grecia, Albania, Urss, Francia ed Etiopia, chiesero alla commissione
internazionale per i crimini di guerra l'estradizione dei
militari italiani accusati di violenze. Gli Usa e l'Inghilterra
condannarono a morte alcuni militari del regio esercito responsabili
di crimini contro i prigionieri alleati. La leggenda degli
italiani "brava gente" emerse solo in un secondo
tempo, nel quadro dei nuovi equilibri provocati dalla Guerra
Fredda. Quest'immagine, sostenuta poi dagli stessi Alleati,
fu utilizzata per legittimare il rapido riarmo dell'Italia
e la sua integrazione nell'Alleanza Atlantica.
-
Non crede che insieme ad una rimozione dei crimini dei
militari ascrivibile alla cultura della destra, vi sia stata
anche una involontaria omissione da parte della sinistra?
Tra
il 1944 ed il 1945 tutti i partiti della sinistra sostennero
la necessità di estradare i responsabili italiani delle
violenze nei paesi occupati. Successivamente il coinvolgimento
nei governi di unità nazionale e la presenza di socialisti
e comunisti all'interno della Commissione d'inchiesta sui
crimini di guerra rese problematico mantenere una linea intransigente.
Il biennio '46-'47 fu un momento decisivo. La sconfitta delle
posizioni più avanzate in termini di rinnovamento dello
Stato e l'arresto delle epurazioni ebbe ripercussioni anche
sull'apertura dei processi per crimini di guerra. Dopo l'esclusione
dal governo e la sconfitta elettorale del 1948, la questione
assunse un peso prevalentemente polemico-propagandistico fino
a dissolversi nella "normalizzazione" post-bellica.
-
Il fatto che il nostro paese abbia subito una dura occupazione
militare e una feroce guerra civile non ha forse contribuito
alla rimozione delle spedizioni coloniali e dei loro crimini.
Il dolore di casa nostra non ha forse oscurato quello altrui?
Di
fronte alla commissione che venne istituita dal ministero
della Guerra, un alto esponente del regio esercito utilizzò
a sua discolpa proprio quest'argomento per attenuare le responsabilità
italiane nei bombardamenti dei villaggi jugoslavi. Disse che
le distruzioni di abitati civili non erano diverse dai bombardamenti
subiti dalle città italiane. In sostanza sosteneva
che in guerra i crimini contro le popolazioni civili trovavano
un senso e una giustificazione nell'eccezionalità della
situazione storica.
-
Quale è l'odierno utilizzo del mito del bravo italiano?
Fatte
salve le ovvie differenze con le forze armate attuali, credo
che il perdurare del mito risieda nell'assoluta attualità
e funzionalità che la rappresentazione dell'italiano
brava gente assume oggi nelle cosiddette "missioni di
pace" dei nostri militari. Domandiamoci quanto abbia
inciso nel consenso dell'opinione pubblica, soprattutto quella
di sinistra più sensibile ai temi della pace, la retorica
del "bravo italiano", della "Missione Arcobaleno"
durante la guerra in Kosovo, dell'intervento "umanitario
e di ricostruzione" in Afghanistan, per poi finire con
l'Iraq? In queste operazioni militari tutti i governi hanno
utilizzato a piene mani l'immagine del soldato italiano elemento
di "pace" e "normalizzazione" delle aree
di crisi internazionale, marginalizzando il ruolo militare
e di combattimento delle nostre truppe anche in contesti di
aperta violazione del diritto internazionale.
-
Non ritiene che il discorso pronunciato dal Presidente
della Repubblica Napolitano nel febbraio 2007, in occasione
del "Giorno del ricordo", appartenga a quel modello
di narrazione storica costruita attorno al paradigma del vittimismo
memoriale?
Il
discorso di Napolitano si colloca all'interno di un vero e
proprio "corto circuito della memoria". Ne parlo
nell'ultimo capitolo del libro. Sulle foibe Napolitano parlò
di "pulizia etnica" contro gli italiani. Gli rispose
il presidente croato Mesic ricordando la ferocia e gli eccidi
dell'occupante fascista. Quando lo storico Raul Pupo intervenne
sulla rivista dell'Anpi di Roma, Persona e Società
, del giugno 2006, spiegò che i fattori alla base delle
uccisioni del 1943 e poi del 1945 dovevano essere ricercati
non tanto nella relazione causa-effetto, innescata dall'occupazione
italiana e successiva reazione jugoslava, quanto nelle particolari
dinamiche della storia della Jugoslavia del tempo. Questo
cambio di prospettiva analitica, che pone al centro la storia
jugoslava e non la sola lettura italiana, potrebbe consentire
una comprensione reale degli eventi.
-
Quali sono le novità documentali presenti nel suo
libro rispetto alle ricerche precedenti?
I
documenti sono in larga parte inediti e certificano, attraverso
resoconti dettagliati delle operazioni militari, che le truppe
del regio esercito commisero stragi, rappresaglie, internamenti,
deportazioni e distruzioni in danno di civili, partigiani
e militari di altri paesi. Inoltre si palesa l'intento programmatico
del governo fascista e delle alte gerarchie militari di realizzare
politiche di "snazionalizzazione" dei territori
occupati e di terrore programmato per il controllo dell'ordine
pubblico. Si riportano lunghi elenchi di presunti criminali
di guerra italiani di cui i paesi occupati chiedono l'estradizione
(circa 1200). Si menzionano luoghi, tempi e modalità
in cui vennero svolte operazioni militari contro le popolazioni
locali e si individua la catena di comando. Il fatto che tali
documentazioni provengano da fonti militari e ministeriali
e da relazioni dirette di soldati italiani e non siano solo
accuse di provenienza jugoslava rafforza l'elemento di verità
storica e a mio avviso lo pone come fattore non marginale
di impegno pubblico rispetto ai conti con la nostra storia
nazionale.
-
Perché il ministero della Difesa rende ancora inaccessibili
quei documenti che possono fare luce sui comportamenti delle
forze armate nelle imprese coloniali italiane?
L'allargamento del dibattito e una maggiore sollecitazione
dell'opinione pubblica potrebbe rappresentare un grimaldello
efficace per ottenere finalmente l'accesso alle fonti militari.
Nel febbraio 1996, al termine di una lunga disputa tra Angelo
Del Boca e Indro Montanelli sull'uso dei gas in Africa, il
ministro della Difesa dell'allora governo Dini, il generale
Domenico Corcione, intervenne in Parlamento per confermare
ciò che sosteneva Del Boca, sancendo una verità
storica fino ad allora negata.
-
Nelle polemiche rivolte alla vicenda delle foibe o del
"triangolo rosso" emiliano non vi è il tentativo
di confondere quella che è stata la «guerra civile»
con la «guerra sistematica ai civili» condotta
dai nazifascisti dentro e fuori il territorio italiano?
Confondere
la guerra civile con la "guerra ai civili" significa
dare adito alle forme peggiori di revisionismo. Uniformando
sotto il criterio di una indefinita "violenza" elementi
completamente diversi per natura, origine e sviluppo, porta
alla conclusione che da una parte e dall'altra vi fu lo stesso
grado di crudeltà e che in sostanza le due parti contendenti
abbiano una uguale moralità e dignità storica.
Le diversità tra nazifascisti e antifascisti vengono
in questo modo cancellate favorendo la costruzione di quel
"senso comune" che ha permesso in questi ultimi
anni un vero e proprio processo mediatico alla Resistenza,
ridefinendo in termini di egemonia nella società il
primato di una cultura di destra anche nell'ambito della lettura
della storia nazionale. La "guerra ai civili" fu
una strategia militare adottata dalle truppe nazifasciste
nei territori occupati dell'Europa per mantenere il controllo
dei paesi invasi dalle truppe dell'Asse ed in Italia le stragi
tedesche ne rappresentano la più triste conferma.
-
Sui crimini di guerra commessi dal nostro esercito nei Balcani
è tornata ad indagare anche la magistratura militare
dopo che, nel 2002, è venuta meno la clausola della
reciprocità sancita dall'art. 165 cp. Ma gli eventuali
processi non avranno comunque un esito penale effettivo poiché
i responsabili sono scomparsi. Non c'è il rischio di
delegare all'ambito giudiziario la ricerca storica?
Quella
clausola venne utilizzata per negare le estradizioni dei nostri
militari, mettendo sullo stesso piano aggressori e aggrediti.
La "scoperta" dei fascicoli riguardanti le stragi
tedesche e le responsabilità dei collaborazionisti
salotini rappresenta un elemento di grande importanza dal
punto di vista storico e civile. Ritengo molto importante
che il procuratore militare Intelisano abbia riaperto il caso
dei crimini di guerra italiani all'estero. Credo che forme
di sanzione giuridica siano in questo caso specifico assolutamente
importanti. Sarebbe mai stato possibile costruire il mito
del "bravo italiano" se si fossero celebrati i procedimenti
giudiziari contro i nostri criminali di guerra? Ciò
non avrebbe favorito un ricambio quantomeno dei vertici militari
e dell'alta burocrazia rendendo percorribile e più
incisiva la strada dell'epurazione e del rinnovamento delle
istituzioni? In sostanza quella tara storica della "continuità
dello Stato" patita nel dopoguerra dalla stessa Repubblica
democratica e antifascista avrebbe trovato terreno meno fertile
per radicarsi nel tessuto nazionale. L'immagine evocativa,
utilizzata da Filippo Focardi, della mancata "Norimberga
italiana" rappresenta in questo senso un elemento centrale
della storia dell'Italia post-fascista.
-
Ma il processo di Norimberga non ha affatto denazificato la
Germania. Non è una tragica illusione credere che i
processi nei tribunali possano compensare ciò che non
è riuscito ai processi storici? Così non si
rischia di scadere dal tribunale della storia alla storia
dei tribunali?
Naturalmente
il lavoro giudiziario è diverso da quello storico cui
competono altre funzioni rispetto alla ricerca sul piano penale
e di responsabilità individuali che sono proprie dell'ambito
giuridico. Sta alla ricerca storica non subordinare esclusivamente
il proprio lavoro alla dimensione giudiziaria. Il problema
risiede poi nella capacità di sedimentare nella coscienza
dell'opinione pubblica ciò che emerge dalle carte e
dai documenti. È poi ovvio che un processo di generale
rinnovamento sociale, politico e culturale di un paese non
possa essere delegato in toto ad un ambito giuridico o soltanto
storico. Sono processi che per riuscire nel loro compito necessitano
della attiva ed ansiosa spinta di rinnovamento delle società.
La
prima recensione,
apparsa sul sito www.nuovaalabarda.org
Qualcuno potrebbe chiedersi cosa ci sia di nuovo in un ennesimo
studio sull’occupazione italiana dei Balcani: ebbene,
questo libro dice davvero qualcosa di nuovo. L’autore
non si limita a citare studi già pubblicati (che spesso
però fa bene rileggere per ricordarci che, lungi dal
luogo comune del “buon italiano”, l’esercito
italiano fu occupatore feroce nelle zone da lui sottomesse)
ma cita documenti finora non conosciuti ed analizzati, conservati
soprattutto nell’Archivio centrale dello Stato e nell’Archivio
storico del Ministero affari esteri, tra i quali anche documenti
provenienti dagli archivi delle prefetture delle province
di occupazione.
La parte più interessante del materiale è però,
a parer nostro, quella costituita dagli interrogatori fatti
dai Servizi a singoli militari (graduati o semplici soldati)
che avevano partecipato alle operazioni in Jugoslavia. Lo
scopo di queste testimonianze era quello di dimostrare che
l’esercito italiano non era responsabile di crimini
di guerra in quanto struttura, ma che le colpe erano attribuibili
solo ad alcuni singoli, fascisti esasperati e che lo stesso
fascismo era un incidente di percorso nella storia di un paese
civile come l’Italia. Queste testimonianze dovevano
essere portate ai colloqui di pace per ridurre le responsabilità
collettive, scagionare l’Italia dall’accusa di
aver programmato la distruzione della Jugoslavia e minimizzare
i vari crimini di guerra commessi anche in Albania, Grecia
e Montenegro; in questo modo si riuscì anche a ridurre
di molto le richieste di debiti di guerra, in quanto le responsabilità
furono fatte ricadere su singoli individui piuttosto che sulla
nazione intera.
Oggi invece queste testimonianze servono a dimostrare la continua,
feroce e organizzata azione di repressione e distruzione sistematica
operata dall’Italia di un paese e delle sue popolazioni,
in quanto la maggior parte degli intervistati non dice “io
feci”, bensì “altri fecero”. Sarebbe
interessante prendere visione in forma integrale di tutte
le testimonianze raccolte, per comprendere meglio l’entità
del fenomeno, ma già da quanto riportato nel testo
esce una realtà agghiacciante di quella che fu l’occupazione
italiana. Vi sono ad esempio documenti che dimostrano che
le autorità italiane, sia militari che civili, non
aiutarono gli ebrei in fuga dalla Croazia, ma anzi li concentrarono
in posti di frontiera, a disposizione dei tedeschi, sapendo
benissimo che sarebbero andati incontro ad una morte terribile.
Per non parlare delle disposizioni sulle uccisioni di ostaggi,
sull’internamento dei civili, sull’incendio di
villaggi. Tutto ciò con buona pace di coloro che ribadiscono
ad ogni piè sospinto il “mito” dell’italiano
“buono”, dei militari italiani e degli stessi
fascisti che si sarebbero comportati umanamente con i prigionieri
ed avrebbero aiutato gli ebrei a sfuggire alla deportazione.
Del resto si preferisce non parlare a scuola del colonialismo
e delle occupazioni italiane, né delle repressioni
compiute dal nostro Paese sui popoli assoggettati; e che ancora
oggi la censura blocca film come “Il leone del deserto”
o il documentario “Fascist Legacy”.
Mentre vengono proposti al pubblico testi di “divulgazione”
storica, spesso disinformativi o di mera propaganda, tesi
da una parte a minimizzare le colpe del fascismo e del colonialismo
e dall’altra ad alimentare la colpevolizzazione della
Resistenza, sia italiana, sia quella dei popoli occupati dall’esercito
italiano (come la jugoslava), libri come questo di Conti,
pur accurati e ben documentati, circolano solo in una ristretta
nicchia di ricercatori e non riescono a farsi recensire dalla
grande stampa.
Lo studio di Conti ha anche un altro pregio di non poco conto,
in un periodo in cui si tenta di convincere il grande pubblico
che la storia debba essere raccontata attraverso i libri “divulgativi”,
cioè privi di note, di citazioni e senza documenti,
in quanto questi renderebbero, secondo molti “divulgatori”
(ma anche storici), la lettura noiosa e di difficile comprensione.
Perché questo testo, pur ricco di citazioni e di documenti,
risulta invece di lettura scorrevole e la sua coerenza “narrativa”
è data proprio dalle citazioni dei documenti inserite
nel testo.
Una particolare menzione merita l’editore, da sempre
impegnato nella divulgazione di testi che pongono l’accento
su fatti ed avvenimenti controversi o poco noti, sia italiani
che internazionali. È grazie anche a case editrici
piccole ma combattive come questa che il pensiero unico dei
vari riscrittori della storia non è ancora riuscito
a trionfare del tutto, pur avendo causato purtroppo enormi
danni tra gli italiani.
In conclusione, questo di Conti è un testo che consigliamo
a tutti coloro che vogliono approfondire la conoscenza della
tragica partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale,
e lo possono fare leggendo un libro ben scritto, agile e nello
stesso tempo approfondito.
Marzo 2008.
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