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Mauro
Valeri
Negro
Ebreo Comunista. Alessandro
Sinigaglia, venti anni in lotta contro il fascismo
con immagini
pp. 304 € 20,00
ISBN: 978-88-96487-09-9
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dalla
quarta di copertina
Negro
Ebreo Comunista, ma si potrebbe continuare: ardito
del popolo, sommergibilista, operaio, rivoluzionario di professione,
agente segreto, miliziano, partigiano, gappista. La banda
Carità non poteva uccidere di meglio. Non l'hanno
potuto torturare, ma gli hanno strappato due denti d'oro,
da morto. Con tanti nomi: Sinigaglia, Verga, Gallone, Epoca,
Garroni... personalità multipla, per essere unicamente
comunista.
Mauro Valeri disseppellisce questa storia dimenticata, occultata
intanto dal partito che si è cibato dei suoi figli
migliori, sempre disposto a “migliorare” i rapporti
con i nemici di classe. Solo medaglia d'argento, a disonore
anche della Repubblica. Quel partito è scomparso, nell'ignominia.
Rimangono le storie dei suoi figli.
A narrare le quali si ricompone il quadro dell’antagonismo,
molto composito, dagli incerti contorni, perché alimentato
da linfe meticce, da apporti eterogenei, parlante lingue diverse,
dilaniato tra il bisogno di libertà e l’esigenza
di organizzazione.
Fiorentino e russo, svizzero e spagnolo, uomo dalle tante
culture, dalle molte lingue e qualche dialetto, come uno Zelig
lo troviamo accanto a Secchia, Longo, Colorni e pure Igor
Markevitch – per la gioia di qualche dietrologo –
defilato ma sempre al posto giusto, meno l’ultimo. Ma,
a ben guardare, anche all’ultima stazione ha scelto
lui come scrivere la parola fine: non l’ha lasciata
ai suoi carnefici.
Istruzioni
per l'uso
Il libro
racconta la storia, racconta la vita di Alessandro Sinigaglia,
negro ebreo comunista, uomo dai tanti nomi e dalle molte lingue.
Una personalità multipla, si direbbe oggi.
Ma lui non lo sapeva, e nessuno glielo ha detto.
Il libro
è un'opera aperta, nel senso che non appartiene a nessun
genere, anche se molti ne attraversa: è una biografia,
è un romanzo, è un libro di storia.
L'Autore
ci mette del suo a complicare il quadro. Insegna Sociologia
alla Sapienza, è psicoterapeuta, studia le diversità
culturali, è attivista antirazzista. S'imbatte in Alessandro
Sinigaglia, ne ricostruisce la storia, e poi la racconta.
Con affetto, con sensibilità, con sensibilità
multiple, si potrebbe dire. Ma con assoluto rispetto delle
fonti e dei documenti.
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Mauro
Valeri (Vittorito 1960), sociologo e psicoterapeuta,
ha diretto l’Osservatorio Nazionale sulla Xenofobia dal
1992 al 1997 e dal 2005 dirige l’Osservatorio sul
razzismo e l’antirazzismo nel calcio. Ha curato diverse
voci del Dictionary of Race, Ethnicity & Culture,
Sage 2003, e del Dizionario delle diversità,
Edup 2004, oltre a saggi sul tema delle comunità migranti
e delle seconde generazioni. Sul legame tra sport, razzismo
e “meticciato”, ha pubblicato La razza in campo.
Per una storia della rivoluzione nera nel calcio, Edup
2005; Black Italians. Atleti neri in maglia azzurra,
Palombi 2006; Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile
mulatto italico, Palombi 2006. Collabora con la cattedra
di Sociologia delle Relazioni Etniche dell’Università
“La Sapienza” di Roma. |
È uscita l'edizione tedesca presso Zambon verlag, Frankfurt am Mein trad. Johanna Loquai
JUDE, KOMMUNIST UND NEGER
Alessandro Sinigaglia Held des Widerstands
ISBN: 978 3 88975 209 3
** ** **
Una intervista a Mauro Valeri di Lanfranco Palazzolo per Radio Radicale. qui
RECENSIONI
Daniele
Barbieri sul suo sito
...
«Non aggiungo altro perchè gli intrecci sono
molti e vale scoprirli con la lettura. Se questo libro cattura
dalle prime righe metà del merito è di una vicenda
appassionante ed esemplare ma certo l’altra metà
è delle minuziose ricerche di Valeri e del suo piglio
narrativo. Da anni si ascolta il mantra che in Italia non
c’è pubblico per i saggi o per i libri seri di
storia: le ragioni sono molte (in testa il nuovo analfabetismo
sociale) ma certo dipende anche da chi scrive. Fra tanti pedanti
– che annoierebbero pure se avessero i retroscena del
Big Bang – purtroppo di Valeri ce ne son pochi»...
Paolo
Ferrari sul sito
Acli
«In
un tempo in cui - forse con scarsa convinzione - ci accingiamo
a celebrare i centocinquanta anni dell'Unità d'Italia,
può essere utile ricordare che questo nostro Paese
è anche frutto del lavoro e del sacrificio di persone
che tendenzialmente - a motivo di una insuperabile restrittiva
concezione della nostra identità nazionale - siamo
tentati ancora di considerare "stranieri".»...
Dino
Erba scrive
recensioni per i suoi venticinque lettori - dice lui - e le
affida alla Rete. Questa sta su Il pane e le rose.
LETTURE
DI CLASSE
Se non fosse per la lapide di via Pandolfini, a Firenze, quasi
nessuno
saprebbe chi fu Alessandro Sinigaglia. Eppure di cose da dire
ce ne
sono molte, come ci mostra Mauro Valeri nel suo pregevole
libro.
Ma forse Alessandro non aveva santi in paradiso, che perorassero
la
sua causa presso istituti storici e case editrici …
E sì che aveva frequentato
i Secchia e i Longo e altri papaveri del futuro partitone
…
Infine, chi lo ricorda, tra cui il buon compagno Gino Tagliaferri,
non
ci dice che fosse un "negro", quasi volesse rimuovere
il lato "oscuro" della vicenda.
Alessandro nacque a Fiesole il 2 gennaio 1902. La madre, Cynthia
White, era una nera americana, nata schiava, giunta in Italia
come
cameriera, al seguito dei ricchi padroni di Saint Louis (Missouri).
Il
padre, David, era un ebreo di origini mantovane, trasferitosi
a Firenze
con la famiglia dopo l’unità d’Italia.
Alessandro ebbe la possibilità
di ricevere una discreta istruzione, frequentando corsi di
formazione
tecnica. Negli anni caldi del dopoguerra, si schierò
decisamente
sul fronte proletario. Dopo il servizio militare in marina,
tra i
sommergibilisti, nel 1924 si iscrisse al Partito comunista
d’Italia e,
come tutti i giovani militanti, sostenne le posizioni della
sinistra di
Bordiga, ed ebbe anche qualche problema con i centristi di
Gramsci-
Togliatti. La sua attività comunista lo mise presto
nell’occhio del ciclone
statal-fascista, costringendolo, nel 1928, a rifugiarsi in
Unione Sovietica,
dove avvenne la sua "conversione" all’ormai
dominante "linea generale",
grazie anche alla scuola "leninista", ma c’era
poco da sfogliar verze. Alessandro assunse presto significativi impegni di partito, che lo portarono
in giro per l’Europa. Nel 1936 fu in Spagna e operò
come silurista nella marina repubblicana. Nel febbraio 1939, rifugiatosi in Francia, fu
internato
nei bestiali campi di concentramento democratici, dai quali
uscì solo
nell’aprile 1941, per finire nel confino fascista nell’isola
di Ventotene. Fu
liberato alla fine di agosto 1943, un mese dopo la caduta
del fascismo.
Questi lunghi soggiorni in prigionia mostrano che Alessandro
di santi in
paradiso non ne aveva neppure allora, malgrado il suo notevole
impegno
politico. L’ultimo capitolo della sua storia si svolse
a Firenze, che lo vide
in prima linea nella lotta contro i nazi-fascisti: dal settembre
1943 fu infaticabile organizzatore dei Gruppi di Azione Patriottica, finché,
il 13 febbraio 1943, cadde sotto i colpi degli sbirri fascisti
della Banda Carità, in via Pandolfini, dove poi fu
posta una lapide.
Narrando le vicende che accompagnarono la vita di Alessandro,
Valeri traccia una panoramica su quel periodo assai documentata,
tranne qualche peccato veniale (Amedeo invece che Amadeo Bordiga
…), che ha il pregio di ricostruire con grande correttezza
il clima di quegli anni, sondando anche aspetti particolari. Non si capirebbe, altrimenti, l’impegno
e la passione profusa da militanti come Alessandro.
E furono tanti, come leggiamo in quarta di copertina: «Mauro
Valeri disseppellisce questa storia dimenticata, occultata
intanto dal partito che si è cibato dei suoi figli
migliori, sempre disposto a “migliorare” i rapporti
con i nemici di classe. Solo medaglia d'argento, a disonore
anche della Repubblica. Quel partito è scomparso, nell'ignominia.
Rimangono le storie dei suoi figli».
Dino
Erba
Firenze. La lapide di via Pandolfini |
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a
FIRENZE, Giovedì
10 giugno, presso l'ISTITUTO STORICO DELLA
RESISTENZA IN TOSCANA, via
Carducci 5/37 Sala della Biblioteca
Felice
Accame, Giovanni Contini, Simone Neri Serneri, Lionella Viterbo
e Franco Morabito
hanno presentano il volume di
Mauro Valeri
Negro ebreo comunista.
Alessandro Sinigaglia, venti anni in lotta contro il fascismo
Da sinistra, Mauro Valeri, Giovanni
Contini, Simone Neri Serneri, Franco Morabito,
Lionella Viterbo e
Felice Accame.
Dopo
l'appassionata ed esaltante presentazione all'Istituto storico
vien quasi da pensare che il sottotitolo più adeguato
avrebbe potuto essere: L'avventurosa vita di Alessandro
Sinigaglia, fiorentino.
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Felice
Accame
Intervento presso l’Istituto per la storia della Resistenza
in Toscana, 10 giugno 2010
1.
E’ noto come il linguaggio costituisca uno dei problemi
più ardui per lo storico. Di quelle operazioni mentali
che sono state designate dalle parole nel momento in cui sono
state usate non ci può essere traccia alcuna. Lo storico
può soltanto farsene un’idea con gran fatica
– un’idea piuttosto vaga e comunque cauta –
perché, spesso, mantenendo a termine di confronto i
rapporti semantici della propria attualità può
essere indotto a gravi errori.
Qualche esempio – scelto non a caso – servirà
a restituirci la dimensione di questo problema.
2.
Negro, ebreo e comunista. Quale significato attribuire alle
tre singole categorie ?
Con “negro” – una parola che oggi sembrerebbe
talmente bandita dal nostro vocabolario dal richiedere o il
corsivo o le virgolette per scriverne - ci si riferisce forse
a quell’individuo che avrebbe una capacità cranica
manifestamente inferiore – come recitava un’Enciclopedia
pubblicata in Italia sul finire degli anni Trenta del secolo
scorso ? Oppure a quell’individuo di cui parla lo psichiatra
americano Benjamin Rush (1745-1813), l’efferato inventore
della “sedia tranquillante” – quello che
soffrirebbe di una forma latente di lebbra – da ciò
le sue labbra grosse e la sua limitazione mentale. Oppure
a quello di cui parla il medico Cartwright, nel 1851, caratterizzato
da un cervello che riceverebbe minor apporto di ossigeno del
necessario – tanto che soltanto grazie a duro lavoro
e a severe sferzate somministrate sotto la sorveglianza della
classe medica avrebbero potuto cambiare in meglio il proprio
sviluppo mentale ?
3.
Con ebreo ci si riferisce forse a “quello che viene
dall’altra parte”, o alla “gente al di là
del fiume”, come la ricerca etimologica avrebbe appurato
? O al membro di quel “popolo deicida” di cui,
ancora nel primo Novecento, parlava padre Agostino Gemelli,
il commemoratissimo fondatore dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano ? Oppure, ancora –
e, tagliando la testa al toro, più semplicemente –
a chiunque sia autore di un delitto – come spiega Ernesto
Ferrero nel suo Dizionario del gergo della malavita ?
4.
E con comunista a cosa ci si riferisce ? A chi vuol mettere
in pratica quel comunismo auspicato da Platone nella Repubblica:
quel comunismo in cui per due classi – quella degli
esecutori delle decisioni e quella di coloro che possono prendere
le decisioni – e soltanto per queste due classi era
abolita la proprietà privata – senza neppure
porsi il problema dell’esistenza di una quarta classe
– quella degli schiavi ? Oppure al comunismo degli Atti
degli Apostoli (2, 44-45 – 4,32), laddove si dice che
“tutti coloro che credevano erano insieme, ed aveano
ogni cosa comune”, “vendevano le possessioni ed
i beni; e li distribuivano a tutti, secondo che ciascuno ne
avea bisogno”. Ribadendo che “la moltitudine di
coloro che aveano creduto avea uno stesso cuore, ed una stessa
anima; e niuno diceva alcuna cosa, di ciò che egli
aveva, esser sua; ma tutte le cose erano loro comuni”.
Oppure si tratta del comunismo della Città del sole
di Tommaso Campanella: “E’ bello a vedere, che
tra loro non ponno donarsi cosa alcuna, perché tutto
hanno del commune, e molto guardano gli offiziali (il “Partito”,
gli “intellettuali” ?) che nullo abbia più
che merita” ?
Oppure, ci si riferisce al comunismo di Marx e Engels, quello
che, come scrivono nel Manifesto del Partito Comunista, può
essere riassunto in un’unica espressione: “l’abolizione
della proprietà privata”. O non ci si riferirà,
invece, al comunismo del secondo e ultimo tempo di Mussolini,
quello che definiva sbrigativamente come “dittatura
terroristica” ? O ci si riferisce, infine, a quello
di Berlusconi nel 1995, quello ridotto a mera parola –
una parola “che ci ha fatto tanta paura” e che,
udite udite, “esiste ancora” ?
5.
Di fronte ad un pur sommario catalogo di tali e tante incertezze,
allora, mi sembra di poter affermare che, più che designazioni
di qualcosa di circoscrivibile, queste parole funzionano come
valori di scambio nel mercato ideologico. Nella comunicazione
svolgono la funzione di stigmi – nel senso proprio di
“bollatura”, di “marchio” –
e, mantenendo ampia la prospettiva storica, vanno ad annoverarsi
con altri – come lo stigma dei capelli rossi per Aristotele
– che indicherebbero “uomini invidiosi, malvagi,
disonesti, boriosi e calunniosi” (mentre il biondo,
invece, sarebbe “lodevolmente ambizioso e desideroso
di gloria”).
6.
Possiamo considerare lo stigma come il risultato di una complessa
costruzione sociale in cui uno o più elementi perlopiù
di ordine fisico ma spesso anche di ordine culturale sono
chiamati a designare condizioni morali valorizzandole in negativo.
Il colore della pelle, la grandezza delle labbra, la forma
di un naso – per i comunisti Guareschi provvide con
il trinariciuto – una specificità biologica qualsiasi.
Lo scopo – come nota Goffman – è quello
di screditare nell’identità sociale fino a negarla
del tutto – soprattutto, allorché, la massa necessita
di un capro espiatorio per rimanere tale. Perlopiù,
uno basta. Ma storia c’insegna che, in certi casi, si
è preferito abbondare.
Tra i casi cruciali per le sventure del secolo scorso, andrebbe
ricordato in proposito, allora, lo straordinario virtuosismo
di Otto Weininger che, nel 1903, con Sesso e carattere, riesce
a integrare in una sola unità tutti e tre i nostri
stigmi con un quarto – laddove afferma le donne (“genere”,
spesso, stigmatizzabile di principio, con “omosessuali”)
come negri ed ebrei sarebbero caratterizzate da una “tendenza
al comunismo”.
7.
Il problema del linguaggio, poi, non è soltanto un
problema di ordine semantico. Il titolo del libro di Valeri
– un libro attento alla ricostruzione dei contesti,
un libro in cui ciascun elemento è rinviato ad un contesto
che ne consente la decifrazione - propone un ordine tra i
tre stigmi e, come tale, pone un problema di ordine sintattico:
negro, ebreo, comunista – prima negro, poi ebreo, infine
comunista, secondo una precisa gerarchia. Checché ne
dica Chomsky, la sintassi fa parte della semantica; l’ordine
delle parole ha un significato.
L’evoluzione del libro – l’evoluzione di
una biografia, l’evoluzione di una vita –, infatti,
arriva a scombussolare quest’ordine (pag. 199): perché
ricostruisce un contesto in cui il termine precipuo è
“negro” e insegue i contorni tragici di una vicenda
umana – quella di Alessandro Sinigaglia – in cui
– senza mai uscire dalla stigmatizzazione – il
termine precipuo diventa “comunista”. Dall’America
razzista e schiavista al fascismo – di guerra in guerra,
di persecuzione in persecuzione, di atrocità in atrocità
– passando per brevi fasi di incubazione: per nuovi
stigmi, per riattivarne di vecchi, per rimodellarne le gerarchie.
Sembra quasi che il tempo per farcene consapevoli e politicamente
responsabile non debba giungere mai.
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Odradek
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