Dalla
Quarta di copertina:
A
tanti anni dal “sacco di Roma” delle amministrazioni
di destra, molti del “mali della città”
sopravvivono a questa presunta modernità. Sacche di
povertà, miseria, abbandono, privazioni, sofferenze
e disagi sociali. Una modernità incompiuta o tradita?
Oppure sono questi gli effetti collaterali di ogni modernità
che si svincola dalle sue premesse e promesse originarie di
coniugare libertà individuale e solidarietà
sociale?
Una modernità che travalica le storie delle singole
persone, le loro sofferenze, le loro vite quotidiane di affetti,
di bisogno di relazioni. Gli autori del libro contestano l’ossessione
competitiva che spinge le città all’omologazione,
alla perdita di memoria e identità e a vendere sul
mercato globale il proprio patrimonio di beni comuni. Gli
autori del libro propongono l’apertura di un dibattito
pubblico sul “modello Roma” che non è esente
dai richiami delle sirene di un modernismo che abbandona al
proprio destino tutti coloro che non ce la fanno a tenere
il passo veloce dell’innovazione continua indotta dalla
competizione internazionale.
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RECENSIONI
e INTERVENTI in ordine
demporale decrescente
«Modello
Roma», perché non ha funzionato
di
Bruno Amoruso e Enzo Scandurra
il
manifesto, 13 maggio 2008
Lasciano
increduli e sbigottiti le riflessioni di Sandro Medici (“Spaventata,
Roma si fa piccola”, “Il Manifesto” del
3 maggio) a proposito della tragica creatura veltroniana chiamata
“Modello Roma”.
Si chiede Medici come sia stato possibile che un “modello
in apparenza solidissimo sia franato tanto improvvisamente”.
Appunto, il termine giusto è proprio quello invocato
da Medici: “in apparenza”. Poiché nella
sostanza esso è stato la causa principale, o almeno
una delle concause, della disfatta elettorale di Veltroni
a livello nazionale e del suo designato successore Rutelli,
a scala romana. Nei casi di sconfitta non prevista, si sa,
la formula più semplificata è quella di inventarsi
un “nemico”, meglio se traditore. E per Medici
la bocciatura del modello Roma è stata la “vendetta
contro la città veltroniana che si voleva proiettata
nel firmamento internazionale, prestigiosa e competitiva”.
Paradossalmente Medici dice il vero; ad essere bocciata è
stata proprio la “città veltroniana”, la
città dell'Eletto che non risponde a nessuno, che guida
un popolo da lui stesso inventato.
E così l'articolo di Medici finisce con una sorta di
visione apocalittica di una città (immaginiamo alemanniana)
“intristita e arcigna, dove si privilegiano le dentiere
e i pannoloni per gli anziani piuttosto che la produzione
culturale”. Bel concetto di cultura questo che si contrappone
ai bisogni materiali! Ora se a scrivere questo articolo fosse
stato un nostalgico veltroniano, pazienza, ma Medici è
un personaggio noto e pubblico della sinistra romana che ha
guidato e guida con successo un importante municipio e, dunque,
è d'obbligo prendere sul serio le sue affermazioni.
La morale dell'articolo sembrerebbe dunque quella di lottare
per riportare in gloria il famigerato “modello Roma”,
di ridare continuità all'esperienza veltroniana che,
intanto, ha impedito, come dice De Rita, che si formasse un
centro e che si costituisse una sinistra. Ma gli elettori
hanno bocciato Veltroni e il suo vice. Sandro dovrebbe riflettere
su una ironica, quanto amara frase di Brecht che dice che
in democrazia una sola cosa è impossibile: chiedere
le dimissioni del popolo: non si può.
Cerchiamo piuttosto di capire perché gli elettori hanno
così clamorosamente bocciato quel modello. Molti di
noi lo avevano detto: Veltroni da anni cavalca un modernismo
effimero, ossessionato dalla ricerca di futili riferimenti
esterni (da Blair a Clinton a Obama “I care”,
“We can” e via dicendo), teso ad eliminare ogni
conflitto sociale (siamo tutti uguali, ricchi e poveri, padroni
e lavoratori), un modello paternalistico quanto autoritario
(guai a criticarlo), apparentemente buonista, irenico e riformista
fuori tempo. E' per questo che ha perso voti al centro (hanno
preferito l'”originale” della destra) e a sinistra,
nonostante il soccorso rosso della sinistra l'arcobaleno.
Ha dato una spallata al governo Prodi, ha cancellato la storia
(“non sono mai stato comunista”) e ha ricalcato,
negli ultimi mesi, la propaganda di Berlusconi arrivando,
più di lui, a promettere agli italiani il ritorno del
boom economico degli anni Sessanta! Un modello, quello di
Veltroni, improntato all'imitazione acritica di modelli stranieri,
condito di effimere feste: notti bianche e festival del cinema,
trasferimento notturno di rom da una parte all'altra di Roma
(di notte per non turbare le coscienze) e poi tante feste,
tanti ecumenici discorsi, tanti tagli di nastrini, come fosse
un salvatore venuto ad annunciarci un'alba che nessuno vedeva.
Ma anche a sinistra le cose non sono andate così bene:
siamo stati arroganti, saccenti, abbiamo pensato e presunto
che fossimo i “migliori”, abbiamo pensato che
potessimo fare qualsiasi cosa, che il consenso del popolo
plebeo fosse scontato, che gli elettori non avrebbero potuto
che ringraziarci e pregarci di rimanere al comando. Beh, non
era così, è cresciuto il risentimento verso
una sinistra sorda e opaca che non è mai (vedi la cosiddetta
questione securitaria) riuscita ad elaborare un progetto di
autentica modernità. Né è servita la
“minaccia” - tutta ideologica - forse comprensibile
emotivamente ma di scarsa efficacia politica che se non si
fosse votato Veltroni avrebbe vinto Berlusconi così
come se non si fosse votato Rutelli avremmo consegnato la
città ad Alemanno. E' una musica ascoltata troppe volte
e che irrita gli elettori trattati come fossero irresponsabili.
Il mondo è davvero cambiato e la sinistra sembra rispondere
a questo cambiamento o imitando effimere mode straniere o
richiudendosi a riccio su un mitico passato ideologico vissuto
e ricordato piuttosto come rituale, culto, reliquia. Giacomo
Marramao sostiene che uno dei drammi della nostra epoca è
la frattura tra la dimensione materiale e quella simbolica:
come possiamo rappresentarci oggi in questa epoca post-ideologica
che vede la dismissione di tutti i valori simbolici che avevamo
presi a riferimento nel Novecento? Veltroni ha pensato di
farlo inventandosi un modello pasticciato e improvvisato che
non ha radici né sul territorio romano né intercetta
i veri problemi dell'epoca che stiamo vivendo. Gli elettori,
meno scemi di quello che pensano gli eletti, se ne sono accorti.
Poi, il come e cosa hanno votato è un'altra storia,
tutta da raccontare.
***
***
***
Agli
occhi della maggior parte delle persone Roma rappresenta l'immagine
di una città efficiente, moderna, una capitale europea
a tutto tondo, governata da un sindaco capace e competente
che l'ha resa un esempio, un modello, per le altre città
italiane. Eppure il libro "Modello Roma. L'ambigua modernità"
(AA.VV., ed. Odradek, pagg. 188, 15,00 euro) ci presenta una
diversa visione di questa realtà, che risulta contraddittoria
rispetto all'immagine che il "Modello Roma" si è
fatto in Italia e nel mondo. Gli autori (E. Scandurra, docente
di Urbanistica; B. Amoroso, economista; A. Castagnola, economista;
R. Troisi, economista; P. Berdini, ingegnere urbanista; A.
Castronovi, dirigente Cgil; G. Caudo, ricercatore di Urbanistica;
V. Sartogo, studioso di problemi ecologici; G. Ricoveri, studiosa
dei problemi dello sviluppo; C. Cellammare, docente di Urbanistica;
B. Rossi Doria, docente di Urbanistica), prendendo in esame
temi fondamentali come i trasporti, la questione abitativa,
lo sviluppo urbanistico, il problema del lavoro, dipingono
il quadro di una città che, presenta molte problematiche,
irrisolte e irrisolvibili, in cui la modernità tanto
apprezzata e decantata, diventa "ambigua", e cioè
va a vantaggio di pochi ed a discapito del resto dei cittadini.
Una città dal centro storico oramai precluso ai suoi
residenti, ma in mano ai capitali stranieri che investono
nel turismo, l'emarginazione delle periferie, la povertà
culturale e sociale; una città in mano ai costruttori,
capaci di dettare il bello e il cattivo tempo dello sviluppo
urbanistico, sempre subordinato ai poteri forti del consumismo
e dell'economia più estrema. Una città dove
il cittadino è isolato, abbandonato ai suoi problemi,
in cui i disagi sociali devono essere "coperti"
e non risolti. Ecco perché questo libro di denuncia
risulta, oggi, più che mai dovuto, distogliendo gli
occhi dalle luci e dai fasti delle Notti bianche e della Festa
del Cinema, per farci vedere l'immagine cruda di un contesto
urbano oramai insostenibile. Prima che, come espresso nell'Introduzione,
il "modello Roma" diventi anche il "modello
Italia".
Paolo
Bischetti su
La voce democratica, gennaio 2008, quindicinale romano
molto attento
***
E'
stato presentato a Roma, sabato
21 luglio ore 20,30
alla
Festa nazionale di Liberazione
Parco
della Resistenza dell'8 Settembre
(Piazza Albania - Piramide Roma)
Ne
hanno discusso:
Angela
Azzaro - Liberazione, Massimo
Ilardi - Università di Camerino,
Laura Marchetti - Sottosegretaria
Ministero dell’Ambiente, Giacomo Schettini
- Prc e Massimiliano Smeriglio -
Prc. |
SANDRO
ROGGIO su LA NUOVA SARDEGNA di GIOVEDÌ,
27 SETTEMBRE
Il
libro edito da Odradek «Modello Roma. L’ambigua
modernità» è
tempestivo. Il lavoro collettaneo arriva al momento giusto,
non solo
per la straordinaria visibilità del sindaco Walter
Veltroni, ma perché
il dibattito sulle grandi città si è fatto stringente
con le domande
che si pongono sui modelli di organizzazione e sulla vivibilità
nelle
metropoli sempre più difficili da governare.
In questo quadro il modello Roma è stato spesso indicato
come
avanzato: moderno e innovativo, addirittura libero da vincoli
della
politica partitica. Gli autori dei saggi nel volume, (B. Amoroso,
P.
Berdini, A. Castagnola, A. Castronovi, G. Caudo, C. Cellamare,
G.
Ricoveri, B. Rossi-Doria, V. Sartogo, E. Scandurra, R. Troisi)
hanno
indagato oltre il racconto agiografico, d’accordo nel
ritenere che vi
siano molte ombre, situazioni accortamente sottratte alla
vista, grazie
ad una buona regia, e che nei resoconti si tenda alla semplificazione
di una realtà più variegata e con contraddizioni
notevoli. La tesi che
emerge dalle riflessioni è che dietro il modello di
successo, il
buonismo esibito, vi sia una sostanziale subordinazione dello
sviluppo
urbanistico allo strapotere dell’economia e del consumismo
più estremo,
con disagi e privazioni notevoli per i soggetti più
svantaggiati.
Gli scenari splendidi della più suggestiva città
del mondo, illuminati
ciclicamente da eventi festosi che richiamano milioni di persone,
servono anche, secondo gli autori, a lasciare in ombra le
sfortune di
corpi sociali emarginati, che si accentuano per via di scelte
insostenibili (è in corso «un sacco urbanistico
silenzioso», ha scritto
Paolo Berdini, complice la disattenzione della politica che
ha smesso
il suo ruolo di denuncia).
È un processo che viene da lontano e gli errori non
sono ovviamente
imputabili al sindaco in carica (del quale si evidenzia piuttosto
il
modo sempre assai accomodante). Il saccheggio di Roma si è
ripetuto
tante volte producendo smisurate ricchezze per alcuni, abbandonando
al proprio destino quelli che non ce la fanno, davvero tanti,
a stare
dietro ai tempi veloci dei mutamenti che la concorrenza tra
città
induce (e non si tratta oggi solo dei poveri assistiti emersi,
come
dicono recenti rapporti della Caritas romana).
La finalità del libro è quella di aprire un
dibattito nel merito
della crescita della città, magari sotto i riflettori
del mondo, nello
sfondo i temi dell’accoglienza e della solidarietà,
per capire come
stia l’idea di comunità urbana affermata tra
l’altro da sindaci come
Petroselli e Argan.
Il
3 luglio, su www.diario21.net
http://www.diario21.net/ReadWeeklyBook.asp?BookID=105
è
apparsa questa recensione di Filippo
Benedetto
Roma è una città complessa sia sotto il profilo
demografico che per quanto riguarda lo sviluppo urbanistico.
E’ una città in forte espansione che necessita
di una continua elaborazione di politiche urbanistiche, ambientali
e sociali in grado di reggere l’onda d’urto di
una crescita costante e inesorabile. Da anni è oggetto
di studi di settore, compiuti a vari livelli anche da analisti
di estrazione e fama europea, per capire e meglio guidare
i processi di trasformazione che interessano una delle metropoli
più importanti e grandi del mondo.
“Modello Roma” - Editore Odradek - saggio scritto
a più mani da alcuni intellettuali e studiosi, si inserisce
proprio nel filone della pubblicistica di settore attenta
ad indicare un indirizzo efficace per fare della capitale
d’Italia una metropoli a misura d’uomo. I nomi
coinvolti in questo progetto editoriale vanno da Bruno Amoroso,
a Paolo Berdini, da Antonio Castronovi a Giovanni Cellamare,
da Giovanna Ricoveri a Vittorio Sartogo.
Tutti i testi sembrano avere come filo conduttore la convinzione
che non basti un’amministrazione “buonista”
per reggere le sfide poste da una metropoli in continuo (fisiologico)
cambiamento. La consapevolezza di fondo, comune a quasi tutti
gli autori, è che uno sviluppo economico, sociale e
finanziario virtuoso, non produce soltanto benessere, ma anche
disparità crescenti tra un centro e una periferia,
in perenne espansione edilizia. Quindi, da questo saggio a
più voci, esce fuori, eloquentemente, un grido d’allarme
contro la disinvolta sottovalutazione dei difetti di una teoria
“modernizzatrice” dell’amministrazione che
non tiene in debita considerazione i costi sociali nella gestione
di una città complessa e dinamica quale è la
capitale.
L’ottica da cui partono gli studiosi convenuti è
la seguente: il modernismo sbandierato come trofeo dei successi
dell’amministrazione romana non è risolutore
dei nuovi e grandi problemi che continuano ad attanagliare
i cittadini di Roma. Alcuni esempi? La questione abitativa,
con sacche di speculazione edilizia ancora ramificate e diffuse
alla periferia della città; la questione ambientale,
relegata a ruota di scorta di un più generale piano
regolatore cittadino che sappia affrontare il tema di una
metropoli a misura d’uomo; o, infine, la questione lavorativa
con l’alta concentrazione di precariato e le problematiche
a questo connesse.
“Modello Roma” non è soltanto un saggio
che sfata il mito dell’efficienza modernizzatrice per
gestire i complessi cicli economico-sociali che regolano la
città, ma è anche un importante stimolo per
l’emersione di una nuova cultura di governo di Roma,
volto a dare strumenti validi per sganciare la cultura di
governo imperante, il modernismo appunto, che non sembra cogliere
appieno il potenziale omologante che reca con sé. In
una parola, “Modello Roma” può considerarsi
un piccolo ma prezioso “vademecum” per una cultura
di governo che sia critica, diffusa e democratica.
***
Liberazione
prima pagina, domenica 24 giugno 2007
Modello
Roma uguale Modello Italia
di Enzo Scandurra*
L’ascesa al trono di Walter Veltroni, quali che siano
gli equilibri politici interni al Pd, sta a significare che
il cosiddetto “Modello Roma” viene, di fatto,
assunto come modello di riferimento politico culturale da
almeno una parte della sinistra italiana. In che consiste
il “successo” di questo modello e cosa esso sottende?
Durante tutto il suo mandato, il Sindaco capitale si è
sforzato di eliminare ogni conflitto sociale attraverso la
costruzione sapiente di una immagine di una macchina-città:
moderna, efficiente, in controtendenza rispetto all’andamento
dell’economia nazionale, attiva nel mondo dello spettacolo
e della cultura, attrattrice di ingenti flussi finanziari
e turistici, organizzata spazialmente secondo le direttive
del nuovo piano regolatore. A queste iniziative si sono aggiunti
rilevanti lavori di abbellimento, decoro, risistemazioni che
hanno visto anche – per la prima volta a Roma - il protagonismo
di architetti di fama, l’attenzione per il grido di
dolore delle periferie ancora lontane dall’impero, iniziative
di rilievo internazionale a favore del mondo povero e affamato.
In un certo senso il tentativo è stato quello di modernizzare
la società per mezzo dell’urbano (vecchia utopia
novecentesca accarezzata dai governanti). Eppure a fronte
di queste feste e di questi fasti la sensazione di molti è
quella di una modernizzazione senza vera modernità.
Perché? Restando al tema della città di Roma,
ci sono molte questioni aperte e altre ancora neppure quasi
affrontate: il traffico e la mobilità, la questione
sociale (il costo degli affitti, l’accoglienza ai nomadi
e agli immigrati, le nuove povertà), il lavoro, il
tipo di sviluppo economico, quella dello sviluppo urbano con
la costruzione continua di nuovi insediamenti residenziali
e commerciali, quella della partecipazione dei cittadini alla
gestione della res pubblica. Ma seppure solo questi fossero
i mali (tutt’altro comunque che piccoli problemi), si
potrebbe ancora dire che si tratta di questioni che prima
o poi sarebbero affrontate e risolte, gradualmente, se non
ci si lascia prendere da un’ansia irresponsabile.
La sensazione, a guardare attentamente la realtà, è
un’altra; è che questo Rinascimento, altro non
sia che la manifestazione effimera, epidermica di una modernità
che da tempo ha iniziato a mostrare rughe e crepe profonde
che ci si affanna a nascondere con operazioni di imbellettamento
e restauri. Insomma l’altra faccia della luna - complemento
inevitabile di questa visibile - svelerebbe privazioni, povertà,
miserie, contraddizioni che vengono oscurate dallo splendore
dei successi di questo modello ma che, alla lunga, ne potrebbero
segnare la traiettoria in declino, soprattutto con l’uscita
di scena del Sindaco. Sembra infatti che i disagi, i mali
e le patologie di questa città non siano tout court
semplicemente riconducibili a difetti o carenze contingenti
prodotte da un processo di modernizzazione ancora incompiuto
o incompleto, ancora insufficiente; quanto piuttosto il complemento
a chiudere, l’inevitabile lato oscuro che sempre accompagna
questo processo. Forse questa è l’unica modernizzazione
possibile, la modernizzazione vera. Una sorta di furore di
modernizzazione, d’innovazione continua sta trasformando
questa città - forse nel passato ancora troppo provinciale
– in una vetrina palcoscenico dove tutto è ridotto
a merce, dal territorio all’ambiente, dai beni comuni
alle istituzioni, dalle manifestazioni culturali a quelle
di solidarietà con i paesi poveri. Questo processo
di liquidazione del nostro patrimonio pubblico, della tradizione,
è stato chiamato modernizzazione.
Siamo veramente diventati più moderni? Siamo più
ricchi come ci dice l’indice monetario del Pil?
Forse si a giudicare dal numero di feste, eventi, manifestazioni
che si svolgono nella città; ma forse accanto alla
vecchia povertà (comunque mai debellata) avanza anche
un veleno nascosto nei cibi di questa modernità: è
l’esclusione, l’indebolimento del legame sociale,
delle regole di convivenza civile, lo svilimento e la ritualizzazione
di una tradizione che sembra non lasciare più tracce
di sé. Questo modernismo non è neutrale, non
è progressivo, non apporta solo (apparente) benessere;
esso lascia lungo la sua scia rifiuti, privazioni, disagi,
vittime che vengono oscurate in nome di un processo che non
può arrestarsi. Questo furore moderno rischia di trasformare
i cittadini in una sterminata folla di individui anonimi,
in una manovrabilissima massa apolitica che insegue gli eventi
e le mode e impedisce che avanzi un vero processo di costruzione
di una cittadinanza responsabile, capace criticamente di produrre
una discussione pubblica a disposizione della città.
Ecco allora che l’idea (e la conseguente pratica) di
annullare ogni conflitto (e con esso ogni critica all’operato
del manovratore demiurgo) porta progressivamente allo scoperto
patologie non risolte e inutilmente rimosse. La difficoltà
a dare risposta al problema dei rom, quella connessa al tema
dei rifiuti, del traffico, del disagio sociale, esplode sempre
più virulenta. La cosiddetta modernizzazione (che è
al tempo stesso l’ideologia e la patologia della modernità)
incontra sempre più insuccessi e genera essa stessa
nuovi e più inediti problemi. La globalizzazione incalza
il modernismo e il decisionismo trasformando la città
in un punto indifferenziato della rete planetaria dove confluiscono
e da dove si dipartono flussi di merci e di denaro. I tempi
di vita si fanno sempre più veloci: occorre adeguarsi,
inventare spettacoli, importare o scippare eventi locali (la
taranta salentina, la festa del cinema, il festival di filosofia,
le notti bianche, la giornata della solidarietà e quant’altro)
per poter competere con le stesse cose fatte in altre città;
insomma occorre inserirsi nella classifica delle città
globali del mondo ed essere sempre più competitivi.
I diseredati, gli immigrati, tutti coloro che non ce la fanno
a stare al passo, saranno relegati al di là del grande
raccordo anulare in un qualche insediamento di accoglienza.
Una città, dunque, a due velocità: la prima
per coloro che sono dotati di buoni polmoni per correre e
di robuste scarpette da traking e la seconda per coloro che
arriveranno (forse) dopo, magari seduti su sedie a rotelle.
Rivedremo questo spettacolo anche a scala nazionale? Ci sarà
un partito guidato dal grande sindaco-segretario-premier tutto
dedito ad annullare ogni conflitto e a dare lustro al Paese
delle meraviglie mentre l’orda vandalica – la
cosiddetta “base” – sarà riesumata
solo il giorno delle elezioni?
E di Roma che ne faremo?
* Ordinario di Urbanistica a La Sapienza
***
Don
Roberto Sardelli su Liberazione
di mercoledì 20 giugno 2007
AA.VV. Modello Roma. L'ambigua modernità,
ed. ODRADEK
E' un libro da leggere anche per il suo linguaggio accessibile
ai più senza rintanarsi in quella ragnatela di espressioni
tecniche che impediscono l'approccio a un tema importante
e che riguarda la vita nella città di Roma. In tal
senso il libro coniuga molto bene l'esigenza scientifica di
un gruppo di urbanisti, economisti e sociologi, e l'esigenza
della volgarizzazione.
Quando si dice “modello Roma” va da sé
che subito si pensa ad un esemplare la cui perfezione e armonia
chiede di essere riprodotta, imitata ed emulata. Ora, bisogna
subito dirlo, il libro sottopone il “modello Roma”
ad un'analisi severa per cui proprio la sua supposta perfezione
viene messa in discussione e passata al vaglio di una
critica senza scadere in una polemica priva di argomenti.
E' proprio lo schema su cui si è costruito il “modello”
urbanistico romano che scricchiola e mostra una città
che negli ultimi anni ha aggravato la separazione del centro
dalla periferia (cfr.pag.50 e 175). Petroselli tentò
una ricucitura parlando di “riqualificazione della periferia”
ma la sua proposta aveva bisogno di un supporto di carattere
culturale ed etico, di una progettualità urbana che
non ebbe. Egli affidò questo compito all'assessore
Nicolini il quale dal nulla creò un impegno di tutto
rispetto, ma non tale da incidere sulla coscienza che la città
aveva di se stessa.
Quella politica culturale si limitava a lisciare le superfici,
i lati “effimeri” e passeggeri, ma fu inadeguata
a curare “i profondi” dopo decenni di squallore
del dominio clerico-moderato. Nel libro scorrono le “immagini”
di una Roma in affanno, di una Roma mediatica e affascinante,
ma che nasconde in sè le ambiguità di una modernità
che copre, ma non
risolve i suoi mali.
Ecco allora il caos del traffico e del trasporto, il problema
abitativo, lo smarrimento e l'impreparazione ad affrontare
i problemi dei migranti e dell'ambiente. Sotto l'urgenza di
queste domande lo schema scoppia.
Ci si interroga sulla identità di una città
che in un secolo è passata da 200.000 abitanti romani
a 3.000.000 di residenti non romani provenienti da storie,
culture, religioni, tradizioni, costumi diversi. Tutte queste
“microrealtà” possono concorrere ad una
definizione di identità futura, ma tutto è lasciato
al caso, la stessa chiesa sembra essere
posseduta dal demone del “semper idem” e ripiega
su un potenziamento assistenziale, evitando, così,
di essere interrogata.
Insomma, le povertà culturali di questa città
sono pari, se non più serie, delle povertà sociali,
e non si risanano con il luccichio delle vetrine. «Il
degrado culturale di gran parte della popolazione romana deve,
quindi, essere
affrontata con strumenti specifici»(cfr.pag.53).
Il disegno che gli autori del libro ci prospettano è
questo: «Il dibattito sul “Modello Roma”,
sui suoi successi e sui suoi limiti, deve uscire dal circolo
degli “addetti ai lavori” e aprire canali e spazi
di comunicazione con la città reale, deve interrogare
i soggetti, le persone
che vivono il disagio sociale e urbano, i movimenti e le associazioni
della società civile, deve saper ascoltare le voci
dissonanti, deve mettere in gioco la classe dirigente della
città, a partire dal governo cittadino e da quelli
municipali». E' il percorso della democrazia
reale senza l'inganno del presenzialismo.
Don Roberto Sardelli
***
da
il manifesto del 13 giugno 2007
Le
pratiche di governo che dànno speranza al Pd analizzate
dagli urbanisti
Le tante ombre del «modello Roma»
Tommaso De Berlanga
Può una «grande mutazione urbana» profondamente
contraddittoria diventare un «modello» per la
politica nazionale? Certo che può. Basta vivere in
un paese senza idee forti, sballottato dalla mondializzazione
e alla ricerca di un orientamento purchessia che dia speranze
di sopravvivenza: basta stare nel centrosinistra, presi dal
panico, e sperare che le formule dell'«isola felice»
siano esportabili fuori dalla capitale.
E' il «modello Roma», che sfonda sulle pagine
dei principali quotidiani nazionali - come viatico per l'assunzione
di Walter Veltroni a segretario del Partito Democratico -
proprio mentre viene vivisezionato in un libro collettivo
di alcuni tra i più noti studiosi dell'Urbe (Modello
Roma. L'ambigua modernità, a cura di Enzo Scandurra,
edizioni Odradek). Presentato lunedì sera in Senato
da Mario Tronti, Salvatore Bonadonna, Maria Luisa Boccia e
don Roberto Sardelli (il prete che, insieme ai ragazzi della
sua scuola, ha definito il «buonismo» una «patologia
della bontà» che occulta le miserie dietro le
quinte dello spettacolo continuo).
Dell'amministrazione «buonista» non si negano
i lati positivi, ma si parte dalla constatazione di un apparente
paradosso: quanto più questo «rinascimento»
ha successo, tante più esclusioni e lacerazioni produce
(silenziate dalla «cooptazione partecipativa»
dei dissenzienti locali). Urbanisti, economisti, sociologi,
storici si misurano perciò sui processi materiali in
atto da anni, senza nascondere la propria cultura di sinistra
e le proprie (deluse) aspettative. Consapevoli di star trattando
un oggetto complesso, esaltato dai «modernizzatori»
ma per nulla contestato dai «conservatori». Un
mistero che trova qualche spiegazione solo nel fatto che interessi
enormi - come quelli della speculazione edilizia e finanziaria
- trovano qui un «accompagnamento» efficace, mai
un contrasto.
Il Pil a Roma cresce più che nelle regioni del Nord.
Eppure gli insediamenti produttivi sono in diminuzione. Le
chiavi di volta sono due: la prima, appariscente, è
la trasformazione di Roma in meta turistica primaria, che
accentra flussi in virtù del suo immenso patrimonio
artistico e degli «eventi» (auditorium, festival
del cinema, notte bianca, estate romana); la seconda, silenziosa
per natura, è il trionfo della speculazione immobiliare
e della grande distribuzione. Un «secondo sacco di Roma»
che dissolve la città in fasce concentriche, con un
centro storico musealizzato ad uso e consumo del turismo archeologico-culturale
e periferie che se ne allontanano in proporzione inversa al
reddito. La «modernità» liberista impone
la «cancellazione delle regole che presiedono i rapporti
sociali» e l'indebolimento selettivo del «ruolo
regolativo del potere pubblico»: qui è stata
assecondata in pieno.
Sul piano urbanistico la prima sperimentazione fu fatta nella
«Milano da bere». E nella scorsa legislatura stava
per diventare legge il «disegno Lupi», che affidava
il futuro metropolitano ad amministrazioni e proprietà
fondiaria: consociate. Ma quel modello agisce comunque con
gli «accordi di programma» che, in deroga ai piani
regolatori, rendono pressoché automatici i cambi di
destinazione dei terreni (da agricolo a edificabile; un modo
semplice di trasformare l'acqua in champagne). Scompare così
- senza neppure doverlo dire - ogni traccia di programmazione
urbanistica, lasciando campo libero a chi ha le risorse per
realizzare i «progetti». Un esempio? La «città
della Roma», dove è stato concesso alla società
di calcio - in difficoltà per 100 milioni di euro -
di edificare sui fin lì poco redditizi terreni vicini
al campo di allenamento.
***
Editoriale
per Carta
di Giovanna Ricoveri
L’espressione “modello Roma” è diventata
sinonimo di modernità, cambiamento, innovazione e progresso.
La città di Roma sembra stia vivendo un secondo rinascimento,
come hanno affermato quotidiani importanti quali Le Monde
e Financial Times. Grazie anche al suo sindaco Walter
Veltroni, unanimemente apprezzato, Roma ha prodotto di sé
un’immagine che non ha nulla da invidiare alle grandi
capitali globali (Parigi, Berlino, New York) per “capacità
di attrazione dei flussi finanziari e turistici, per la messa
in produzione dei suoi antichi fasti e splendori (centro storico
e monumenti), per la celebrazione di grandi eventi culturali”.
Gli autori del libro Modello Roma. L’ambigua
modernità sostengono che nonostante i molti
meriti di cui la città si vanta e che gli vengono riconosciuti,
il modello Roma nasconde molte crepe e problemi irrisolti
e irrisolvibili all’interno di questo modello. Avanzano
l’ipotesi che il modello sia subalterno al potere dell’economia,
omologato al modello consumistico e portatore di una modernità
ambigua che abbandona al proprio destino quelli che non ce
la fanno a tenere il passo della competizione internazionale.
Propongono di discuterne, prima che il modello Roma diventi
il “modello Italia”.
Tra i grandi problemi a sostegno della critica di cui questo
libro si fa portatore, si possono elencare il consumo di suolo,
infrastrutture, traffico, energia e risorse ambientali; la
cementificazione del territorio e il potere decisionale sulle
sorti della città, lasciato in mano alla proprietà
immobiliare; la mancanza di un patrimonio abitativo pubblico
per i ceti meno abbienti e la crescita dei valori immobiliari
e dei fitti, non arginata dalle politiche pubbliche; l’aumento
dei grandi centri commerciali e quello del turismo (nel centro
storico i turisti superano i residenti). Il rischio è
che, senza un progetto alternativo e radicale di città
sostenibile sul piano ecologico e sociale, i cittadini siano
destinati a diventare dei “clienti” e che la modernità
porti alla rottura della convivenza sociale.
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