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A.A. V.V.
Modello Roma
L'ambigua modernità

pp. 192 € 15,00

 

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Un'analisi dettagliata dei mali che una certa idea della modernità nasconde, per chi voglia documentarsi prima che il “modello Roma” diventi anche “modello Italia”.
L’espressione “MODELLO ROMA” è diventata sinonimo di modernismo, innovazione, cambiamento, spettacolo; un “NUOVO CORSO” svincolato dai lacci di una politica considerata ingombrante, arretrata, incapace di affrontare le sfide dei tempi. Il libro è un insieme di riflessioni critiche e nasce dalla convinzione che il successo di questo modello nasconda parecchi problemi irrisolti (l’abitare, i trasporti, il lavoro, ecc), sacche di povertà e di disagi ma soprattutto la completa subalternità al potere dell’economia e dell’omologazione consumistica; e che si basi su un modernismo che abbandona al proprio destino quelli che non ce la fanno a tenere il passo veloce della competizione internazionale.

Dalla Quarta di copertina:

A tanti anni dal “sacco di Roma” delle amministrazioni di destra, molti del “mali della città” sopravvivono a questa presunta modernità. Sacche di povertà, miseria, abbandono, privazioni, sofferenze e disagi sociali. Una modernità incompiuta o tradita? Oppure sono questi gli effetti collaterali di ogni modernità che si svincola dalle sue premesse e promesse originarie di coniugare libertà individuale e solidarietà sociale?
Una modernità che travalica le storie delle singole persone, le loro sofferenze, le loro vite quotidiane di affetti, di bisogno di relazioni. Gli autori del libro contestano l’ossessione competitiva che spinge le città all’omologazione, alla perdita di memoria e identità e a vendere sul mercato globale il proprio patrimonio di beni comuni. Gli autori del libro propongono l’apertura di un dibattito pubblico sul “modello Roma” che non è esente dai richiami delle sirene di un modernismo che abbandona al proprio destino tutti coloro che non ce la fanno a tenere il passo veloce dell’innovazione continua indotta dalla competizione internazionale.

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RECENSIONI e INTERVENTI in ordine demporale decrescente

«Modello Roma», perché non ha funzionato

di Bruno Amoruso e Enzo Scandurra

il manifesto, 13 maggio 2008

Lasciano increduli e sbigottiti le riflessioni di Sandro Medici (“Spaventata, Roma si fa piccola”, “Il Manifesto” del 3 maggio) a proposito della tragica creatura veltroniana chiamata “Modello Roma”.
Si chiede Medici come sia stato possibile che un “modello in apparenza solidissimo sia franato tanto improvvisamente”. Appunto, il termine giusto è proprio quello invocato da Medici: “in apparenza”. Poiché nella sostanza esso è stato la causa principale, o almeno una delle concause, della disfatta elettorale di Veltroni a livello nazionale e del suo designato successore Rutelli, a scala romana. Nei casi di sconfitta non prevista, si sa, la formula più semplificata è quella di inventarsi un “nemico”, meglio se traditore. E per Medici la bocciatura del modello Roma è stata la “vendetta contro la città veltroniana che si voleva proiettata nel firmamento internazionale, prestigiosa e competitiva”. Paradossalmente Medici dice il vero; ad essere bocciata è stata proprio la “città veltroniana”, la città dell'Eletto che non risponde a nessuno, che guida un popolo da lui stesso inventato.

E così l'articolo di Medici finisce con una sorta di visione apocalittica di una città (immaginiamo alemanniana) “intristita e arcigna, dove si privilegiano le dentiere e i pannoloni per gli anziani piuttosto che la produzione culturale”. Bel concetto di cultura questo che si contrappone ai bisogni materiali! Ora se a scrivere questo articolo fosse stato un nostalgico veltroniano, pazienza, ma Medici è un personaggio noto e pubblico della sinistra romana che ha guidato e guida con successo un importante municipio e, dunque, è d'obbligo prendere sul serio le sue affermazioni. La morale dell'articolo sembrerebbe dunque quella di lottare per riportare in gloria il famigerato “modello Roma”, di ridare continuità all'esperienza veltroniana che, intanto, ha impedito, come dice De Rita, che si formasse un centro e che si costituisse una sinistra. Ma gli elettori hanno bocciato Veltroni e il suo vice. Sandro dovrebbe riflettere su una ironica, quanto amara frase di Brecht che dice che in democrazia una sola cosa è impossibile: chiedere le dimissioni del popolo: non si può.
Cerchiamo piuttosto di capire perché gli elettori hanno così clamorosamente bocciato quel modello. Molti di noi lo avevano detto: Veltroni da anni cavalca un modernismo effimero, ossessionato dalla ricerca di futili riferimenti esterni (da Blair a Clinton a Obama “I care”, “We can” e via dicendo), teso ad eliminare ogni conflitto sociale (siamo tutti uguali, ricchi e poveri, padroni e lavoratori), un modello paternalistico quanto autoritario (guai a criticarlo), apparentemente buonista, irenico e riformista fuori tempo. E' per questo che ha perso voti al centro (hanno preferito l'”originale” della destra) e a sinistra, nonostante il soccorso rosso della sinistra l'arcobaleno. Ha dato una spallata al governo Prodi, ha cancellato la storia (“non sono mai stato comunista”) e ha ricalcato, negli ultimi mesi, la propaganda di Berlusconi arrivando, più di lui, a promettere agli italiani il ritorno del boom economico degli anni Sessanta! Un modello, quello di Veltroni, improntato all'imitazione acritica di modelli stranieri, condito di effimere feste: notti bianche e festival del cinema, trasferimento notturno di rom da una parte all'altra di Roma (di notte per non turbare le coscienze) e poi tante feste, tanti ecumenici discorsi, tanti tagli di nastrini, come fosse un salvatore venuto ad annunciarci un'alba che nessuno vedeva.

Ma anche a sinistra le cose non sono andate così bene: siamo stati arroganti, saccenti, abbiamo pensato e presunto che fossimo i “migliori”, abbiamo pensato che potessimo fare qualsiasi cosa, che il consenso del popolo plebeo fosse scontato, che gli elettori non avrebbero potuto che ringraziarci e pregarci di rimanere al comando. Beh, non era così, è cresciuto il risentimento verso una sinistra sorda e opaca che non è mai (vedi la cosiddetta questione securitaria) riuscita ad elaborare un progetto di autentica modernità. Né è servita la “minaccia” - tutta ideologica - forse comprensibile emotivamente ma di scarsa efficacia politica che se non si fosse votato Veltroni avrebbe vinto Berlusconi così come se non si fosse votato Rutelli avremmo consegnato la città ad Alemanno. E' una musica ascoltata troppe volte e che irrita gli elettori trattati come fossero irresponsabili.

Il mondo è davvero cambiato e la sinistra sembra rispondere a questo cambiamento o imitando effimere mode straniere o richiudendosi a riccio su un mitico passato ideologico vissuto e ricordato piuttosto come rituale, culto, reliquia. Giacomo Marramao sostiene che uno dei drammi della nostra epoca è la frattura tra la dimensione materiale e quella simbolica: come possiamo rappresentarci oggi in questa epoca post-ideologica che vede la dismissione di tutti i valori simbolici che avevamo presi a riferimento nel Novecento? Veltroni ha pensato di farlo inventandosi un modello pasticciato e improvvisato che non ha radici né sul territorio romano né intercetta i veri problemi dell'epoca che stiamo vivendo. Gli elettori, meno scemi di quello che pensano gli eletti, se ne sono accorti. Poi, il come e cosa hanno votato è un'altra storia, tutta da raccontare.

 

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Agli occhi della maggior parte delle persone Roma rappresenta l'immagine di una città efficiente, moderna, una capitale europea a tutto tondo, governata da un sindaco capace e competente che l'ha resa un esempio, un modello, per le altre città italiane. Eppure il libro "Modello Roma. L'ambigua modernità" (AA.VV., ed. Odradek, pagg. 188, 15,00 euro) ci presenta una diversa visione di questa realtà, che risulta contraddittoria rispetto all'immagine che il "Modello Roma" si è fatto in Italia e nel mondo. Gli autori (E. Scandurra, docente di Urbanistica; B. Amoroso, economista; A. Castagnola, economista; R. Troisi, economista; P. Berdini, ingegnere urbanista; A. Castronovi, dirigente Cgil; G. Caudo, ricercatore di Urbanistica; V. Sartogo, studioso di problemi ecologici; G. Ricoveri, studiosa dei problemi dello sviluppo; C. Cellammare, docente di Urbanistica; B. Rossi Doria, docente di Urbanistica), prendendo in esame temi fondamentali come i trasporti, la questione abitativa, lo sviluppo urbanistico, il problema del lavoro, dipingono il quadro di una città che, presenta molte problematiche, irrisolte e irrisolvibili, in cui la modernità tanto apprezzata e decantata, diventa "ambigua", e cioè va a vantaggio di pochi ed a discapito del resto dei cittadini. Una città dal centro storico oramai precluso ai suoi residenti, ma in mano ai capitali stranieri che investono nel turismo, l'emarginazione delle periferie, la povertà culturale e sociale; una città in mano ai costruttori, capaci di dettare il bello e il cattivo tempo dello sviluppo urbanistico, sempre subordinato ai poteri forti del consumismo e dell'economia più estrema. Una città dove il cittadino è isolato, abbandonato ai suoi problemi, in cui i disagi sociali devono essere "coperti" e non risolti. Ecco perché questo libro di denuncia risulta, oggi, più che mai dovuto, distogliendo gli occhi dalle luci e dai fasti delle Notti bianche e della Festa del Cinema, per farci vedere l'immagine cruda di un contesto urbano oramai insostenibile. Prima che, come espresso nell'Introduzione, il "modello Roma" diventi anche il "modello Italia".

Paolo Bischetti su La voce democratica, gennaio 2008, quindicinale romano molto attento

 

 

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E' stato presentato a Roma, sabato 21 luglio ore 20,30

alla Festa nazionale di Liberazione

Parco della Resistenza dell'8 Settembre
(Piazza Albania - Piramide Roma)

Ne hanno discusso:

Angela Azzaro - Liberazione, Massimo Ilardi - Università di Camerino, Laura Marchetti - Sottosegretaria Ministero dell’Ambiente, Giacomo Schettini - Prc e Massimiliano Smeriglio - Prc.

 

SANDRO ROGGIO su LA NUOVA SARDEGNA di GIOVEDÌ, 27 SETTEMBRE

Il libro edito da Odradek «Modello Roma. L’ambigua modernità» è
tempestivo. Il lavoro collettaneo arriva al momento giusto, non solo
per la straordinaria visibilità del sindaco Walter Veltroni, ma perché
il dibattito sulle grandi città si è fatto stringente con le domande
che si pongono sui modelli di organizzazione e sulla vivibilità nelle
metropoli sempre più difficili da governare.
In questo quadro il modello Roma è stato spesso indicato come
avanzato: moderno e innovativo, addirittura libero da vincoli della
politica partitica. Gli autori dei saggi nel volume, (B. Amoroso, P.
Berdini, A. Castagnola, A. Castronovi, G. Caudo, C. Cellamare, G.
Ricoveri, B. Rossi-Doria, V. Sartogo, E. Scandurra, R. Troisi) hanno
indagato oltre il racconto agiografico, d’accordo nel ritenere che vi
siano molte ombre, situazioni accortamente sottratte alla vista, grazie
ad una buona regia, e che nei resoconti si tenda alla semplificazione
di una realtà più variegata e con contraddizioni notevoli. La tesi che
emerge dalle riflessioni è che dietro il modello di successo, il
buonismo esibito, vi sia una sostanziale subordinazione dello sviluppo
urbanistico allo strapotere dell’economia e del consumismo più estremo,
con disagi e privazioni notevoli per i soggetti più svantaggiati.
Gli scenari splendidi della più suggestiva città del mondo, illuminati
ciclicamente da eventi festosi che richiamano milioni di persone,
servono anche, secondo gli autori, a lasciare in ombra le sfortune di
corpi sociali emarginati, che si accentuano per via di scelte
insostenibili (è in corso «un sacco urbanistico silenzioso», ha scritto
Paolo Berdini, complice la disattenzione della politica che ha smesso
il suo ruolo di denuncia).
È un processo che viene da lontano e gli errori non sono ovviamente
imputabili al sindaco in carica (del quale si evidenzia piuttosto il
modo sempre assai accomodante). Il saccheggio di Roma si è ripetuto
tante volte producendo smisurate ricchezze per alcuni, abbandonando al proprio destino quelli che non ce la fanno, davvero tanti, a stare
dietro ai tempi veloci dei mutamenti che la concorrenza tra città
induce (e non si tratta oggi solo dei poveri assistiti emersi, come
dicono recenti rapporti della Caritas romana).
La finalità del libro è quella di aprire un dibattito nel merito
della crescita della città, magari sotto i riflettori del mondo, nello
sfondo i temi dell’accoglienza e della solidarietà, per capire come
stia l’idea di comunità urbana affermata tra l’altro da sindaci come
Petroselli e Argan.

Il 3 luglio, su www.diario21.net

http://www.diario21.net/ReadWeeklyBook.asp?BookID=105

è apparsa questa recensione di Filippo Benedetto


Roma è una città complessa sia sotto il profilo demografico che per quanto riguarda lo sviluppo urbanistico. E’ una città in forte espansione che necessita di una continua elaborazione di politiche urbanistiche, ambientali e sociali in grado di reggere l’onda d’urto di una crescita costante e inesorabile. Da anni è oggetto di studi di settore, compiuti a vari livelli anche da analisti di estrazione e fama europea, per capire e meglio guidare i processi di trasformazione che interessano una delle metropoli più importanti e grandi del mondo.
“Modello Roma” - Editore Odradek - saggio scritto a più mani da alcuni intellettuali e studiosi, si inserisce proprio nel filone della pubblicistica di settore attenta ad indicare un indirizzo efficace per fare della capitale d’Italia una metropoli a misura d’uomo. I nomi coinvolti in questo progetto editoriale vanno da Bruno Amoroso, a Paolo Berdini, da Antonio Castronovi a Giovanni Cellamare, da Giovanna Ricoveri a Vittorio Sartogo.
Tutti i testi sembrano avere come filo conduttore la convinzione che non basti un’amministrazione “buonista” per reggere le sfide poste da una metropoli in continuo (fisiologico) cambiamento. La consapevolezza di fondo, comune a quasi tutti gli autori, è che uno sviluppo economico, sociale e finanziario virtuoso, non produce soltanto benessere, ma anche disparità crescenti tra un centro e una periferia, in perenne espansione edilizia. Quindi, da questo saggio a più voci, esce fuori, eloquentemente, un grido d’allarme contro la disinvolta sottovalutazione dei difetti di una teoria “modernizzatrice” dell’amministrazione che non tiene in debita considerazione i costi sociali nella gestione di una città complessa e dinamica quale è la capitale.
L’ottica da cui partono gli studiosi convenuti è la seguente: il modernismo sbandierato come trofeo dei successi dell’amministrazione romana non è risolutore dei nuovi e grandi problemi che continuano ad attanagliare i cittadini di Roma. Alcuni esempi? La questione abitativa, con sacche di speculazione edilizia ancora ramificate e diffuse alla periferia della città; la questione ambientale, relegata a ruota di scorta di un più generale piano regolatore cittadino che sappia affrontare il tema di una metropoli a misura d’uomo; o, infine, la questione lavorativa con l’alta concentrazione di precariato e le problematiche a questo connesse.
“Modello Roma” non è soltanto un saggio che sfata il mito dell’efficienza modernizzatrice per gestire i complessi cicli economico-sociali che regolano la città, ma è anche un importante stimolo per l’emersione di una nuova cultura di governo di Roma, volto a dare strumenti validi per sganciare la cultura di governo imperante, il modernismo appunto, che non sembra cogliere appieno il potenziale omologante che reca con sé. In una parola, “Modello Roma” può considerarsi un piccolo ma prezioso “vademecum” per una cultura di governo che sia critica, diffusa e democratica.

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Liberazione prima pagina, domenica 24 giugno 2007

Modello Roma uguale Modello Italia
di Enzo Scandurra*


L’ascesa al trono di Walter Veltroni, quali che siano gli equilibri politici interni al Pd, sta a significare che il cosiddetto “Modello Roma” viene, di fatto, assunto come modello di riferimento politico culturale da almeno una parte della sinistra italiana. In che consiste il “successo” di questo modello e cosa esso sottende?
Durante tutto il suo mandato, il Sindaco capitale si è sforzato di eliminare ogni conflitto sociale attraverso la costruzione sapiente di una immagine di una macchina-città: moderna, efficiente, in controtendenza rispetto all’andamento dell’economia nazionale, attiva nel mondo dello spettacolo e della cultura, attrattrice di ingenti flussi finanziari e turistici, organizzata spazialmente secondo le direttive del nuovo piano regolatore. A queste iniziative si sono aggiunti rilevanti lavori di abbellimento, decoro, risistemazioni che hanno visto anche – per la prima volta a Roma - il protagonismo di architetti di fama, l’attenzione per il grido di dolore delle periferie ancora lontane dall’impero, iniziative di rilievo internazionale a favore del mondo povero e affamato. In un certo senso il tentativo è stato quello di modernizzare la società per mezzo dell’urbano (vecchia utopia novecentesca accarezzata dai governanti). Eppure a fronte di queste feste e di questi fasti la sensazione di molti è quella di una modernizzazione senza vera modernità. Perché? Restando al tema della città di Roma, ci sono molte questioni aperte e altre ancora neppure quasi affrontate: il traffico e la mobilità, la questione sociale (il costo degli affitti, l’accoglienza ai nomadi e agli immigrati, le nuove povertà), il lavoro, il tipo di sviluppo economico, quella dello sviluppo urbano con la costruzione continua di nuovi insediamenti residenziali e commerciali, quella della partecipazione dei cittadini alla gestione della res pubblica. Ma seppure solo questi fossero i mali (tutt’altro comunque che piccoli problemi), si potrebbe ancora dire che si tratta di questioni che prima o poi sarebbero affrontate e risolte, gradualmente, se non ci si lascia prendere da un’ansia irresponsabile.
La sensazione, a guardare attentamente la realtà, è un’altra; è che questo Rinascimento, altro non sia che la manifestazione effimera, epidermica di una modernità che da tempo ha iniziato a mostrare rughe e crepe profonde che ci si affanna a nascondere con operazioni di imbellettamento e restauri. Insomma l’altra faccia della luna - complemento inevitabile di questa visibile - svelerebbe privazioni, povertà, miserie, contraddizioni che vengono oscurate dallo splendore dei successi di questo modello ma che, alla lunga, ne potrebbero segnare la traiettoria in declino, soprattutto con l’uscita di scena del Sindaco. Sembra infatti che i disagi, i mali e le patologie di questa città non siano tout court semplicemente riconducibili a difetti o carenze contingenti prodotte da un processo di modernizzazione ancora incompiuto o incompleto, ancora insufficiente; quanto piuttosto il complemento a chiudere, l’inevitabile lato oscuro che sempre accompagna questo processo. Forse questa è l’unica modernizzazione possibile, la modernizzazione vera. Una sorta di furore di modernizzazione, d’innovazione continua sta trasformando questa città - forse nel passato ancora troppo provinciale – in una vetrina palcoscenico dove tutto è ridotto a merce, dal territorio all’ambiente, dai beni comuni alle istituzioni, dalle manifestazioni culturali a quelle di solidarietà con i paesi poveri. Questo processo di liquidazione del nostro patrimonio pubblico, della tradizione, è stato chiamato modernizzazione.
Siamo veramente diventati più moderni? Siamo più ricchi come ci dice l’indice monetario del Pil?
Forse si a giudicare dal numero di feste, eventi, manifestazioni che si svolgono nella città; ma forse accanto alla vecchia povertà (comunque mai debellata) avanza anche un veleno nascosto nei cibi di questa modernità: è l’esclusione, l’indebolimento del legame sociale, delle regole di convivenza civile, lo svilimento e la ritualizzazione di una tradizione che sembra non lasciare più tracce di sé. Questo modernismo non è neutrale, non è progressivo, non apporta solo (apparente) benessere; esso lascia lungo la sua scia rifiuti, privazioni, disagi, vittime che vengono oscurate in nome di un processo che non può arrestarsi. Questo furore moderno rischia di trasformare i cittadini in una sterminata folla di individui anonimi, in una manovrabilissima massa apolitica che insegue gli eventi e le mode e impedisce che avanzi un vero processo di costruzione di una cittadinanza responsabile, capace criticamente di produrre una discussione pubblica a disposizione della città.
Ecco allora che l’idea (e la conseguente pratica) di annullare ogni conflitto (e con esso ogni critica all’operato del manovratore demiurgo) porta progressivamente allo scoperto patologie non risolte e inutilmente rimosse. La difficoltà a dare risposta al problema dei rom, quella connessa al tema dei rifiuti, del traffico, del disagio sociale, esplode sempre più virulenta. La cosiddetta modernizzazione (che è al tempo stesso l’ideologia e la patologia della modernità) incontra sempre più insuccessi e genera essa stessa nuovi e più inediti problemi. La globalizzazione incalza il modernismo e il decisionismo trasformando la città in un punto indifferenziato della rete planetaria dove confluiscono e da dove si dipartono flussi di merci e di denaro. I tempi di vita si fanno sempre più veloci: occorre adeguarsi, inventare spettacoli, importare o scippare eventi locali (la taranta salentina, la festa del cinema, il festival di filosofia, le notti bianche, la giornata della solidarietà e quant’altro) per poter competere con le stesse cose fatte in altre città; insomma occorre inserirsi nella classifica delle città globali del mondo ed essere sempre più competitivi. I diseredati, gli immigrati, tutti coloro che non ce la fanno a stare al passo, saranno relegati al di là del grande raccordo anulare in un qualche insediamento di accoglienza. Una città, dunque, a due velocità: la prima per coloro che sono dotati di buoni polmoni per correre e di robuste scarpette da traking e la seconda per coloro che arriveranno (forse) dopo, magari seduti su sedie a rotelle.
Rivedremo questo spettacolo anche a scala nazionale? Ci sarà un partito guidato dal grande sindaco-segretario-premier tutto dedito ad annullare ogni conflitto e a dare lustro al Paese delle meraviglie mentre l’orda vandalica – la cosiddetta “base” – sarà riesumata solo il giorno delle elezioni?
E di Roma che ne faremo?


* Ordinario di Urbanistica a La Sapienza

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Don Roberto Sardelli su Liberazione di mercoledì 20 giugno 2007


AA.VV. Modello Roma. L'ambigua modernità, ed. ODRADEK
E' un libro da leggere anche per il suo linguaggio accessibile ai più senza rintanarsi in quella ragnatela di espressioni tecniche che impediscono l'approccio a un tema importante e che riguarda la vita nella città di Roma. In tal senso il libro coniuga molto bene l'esigenza scientifica di un gruppo di urbanisti, economisti e sociologi, e l'esigenza della volgarizzazione.
Quando si dice “modello Roma” va da sé che subito si pensa ad un esemplare la cui perfezione e armonia chiede di essere riprodotta, imitata ed emulata. Ora, bisogna subito dirlo, il libro sottopone il “modello Roma” ad un'analisi severa per cui proprio la sua supposta perfezione viene messa in discussione e passata al vaglio di una
critica senza scadere in una polemica priva di argomenti.
E' proprio lo schema su cui si è costruito il “modello” urbanistico romano che scricchiola e mostra una città che negli ultimi anni ha aggravato la separazione del centro dalla periferia (cfr.pag.50 e 175). Petroselli tentò una ricucitura parlando di “riqualificazione della periferia” ma la sua proposta aveva bisogno di un supporto di carattere culturale ed etico, di una progettualità urbana che non ebbe. Egli affidò questo compito all'assessore Nicolini il quale dal nulla creò un impegno di tutto rispetto, ma non tale da incidere sulla coscienza che la città aveva di se stessa.
Quella politica culturale si limitava a lisciare le superfici, i lati “effimeri” e passeggeri, ma fu inadeguata a curare “i profondi” dopo decenni di squallore del dominio clerico-moderato. Nel libro scorrono le “immagini” di una Roma in affanno, di una Roma mediatica e affascinante, ma che nasconde in sè le ambiguità di una modernità che copre, ma non
risolve i suoi mali.
Ecco allora il caos del traffico e del trasporto, il problema abitativo, lo smarrimento e l'impreparazione ad affrontare i problemi dei migranti e dell'ambiente. Sotto l'urgenza di queste domande lo schema scoppia.
Ci si interroga sulla identità di una città che in un secolo è passata da 200.000 abitanti romani a 3.000.000 di residenti non romani provenienti da storie, culture, religioni, tradizioni, costumi diversi. Tutte queste “microrealtà” possono concorrere ad una definizione di identità futura, ma tutto è lasciato al caso, la stessa chiesa sembra essere
posseduta dal demone del “semper idem” e ripiega su un potenziamento assistenziale, evitando, così, di essere interrogata.
Insomma, le povertà culturali di questa città sono pari, se non più serie, delle povertà sociali, e non si risanano con il luccichio delle vetrine. «Il degrado culturale di gran parte della popolazione romana deve, quindi, essere
affrontata con strumenti specifici»(cfr.pag.53).
Il disegno che gli autori del libro ci prospettano è questo: «Il dibattito sul “Modello Roma”, sui suoi successi e sui suoi limiti, deve uscire dal circolo degli “addetti ai lavori” e aprire canali e spazi di comunicazione con la città reale, deve interrogare i soggetti, le persone
che vivono il disagio sociale e urbano, i movimenti e le associazioni della società civile, deve saper ascoltare le voci dissonanti, deve mettere in gioco la classe dirigente della città, a partire dal governo cittadino e da quelli municipali». E' il percorso della democrazia
reale senza l'inganno del presenzialismo.
Don Roberto Sardelli

 

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da il manifesto del 13 giugno 2007

Le pratiche di governo che dànno speranza al Pd analizzate dagli urbanisti
Le tante ombre del «modello Roma»
Tommaso De Berlanga

Può una «grande mutazione urbana» profondamente contraddittoria diventare un «modello» per la politica nazionale? Certo che può. Basta vivere in un paese senza idee forti, sballottato dalla mondializzazione e alla ricerca di un orientamento purchessia che dia speranze di sopravvivenza: basta stare nel centrosinistra, presi dal panico, e sperare che le formule dell'«isola felice» siano esportabili fuori dalla capitale.
E' il «modello Roma», che sfonda sulle pagine dei principali quotidiani nazionali - come viatico per l'assunzione di Walter Veltroni a segretario del Partito Democratico - proprio mentre viene vivisezionato in un libro collettivo di alcuni tra i più noti studiosi dell'Urbe (Modello Roma. L'ambigua modernità, a cura di Enzo Scandurra, edizioni Odradek). Presentato lunedì sera in Senato da Mario Tronti, Salvatore Bonadonna, Maria Luisa Boccia e don Roberto Sardelli (il prete che, insieme ai ragazzi della sua scuola, ha definito il «buonismo» una «patologia della bontà» che occulta le miserie dietro le quinte dello spettacolo continuo).
Dell'amministrazione «buonista» non si negano i lati positivi, ma si parte dalla constatazione di un apparente paradosso: quanto più questo «rinascimento» ha successo, tante più esclusioni e lacerazioni produce (silenziate dalla «cooptazione partecipativa» dei dissenzienti locali). Urbanisti, economisti, sociologi, storici si misurano perciò sui processi materiali in atto da anni, senza nascondere la propria cultura di sinistra e le proprie (deluse) aspettative. Consapevoli di star trattando un oggetto complesso, esaltato dai «modernizzatori» ma per nulla contestato dai «conservatori». Un mistero che trova qualche spiegazione solo nel fatto che interessi enormi - come quelli della speculazione edilizia e finanziaria - trovano qui un «accompagnamento» efficace, mai un contrasto.
Il Pil a Roma cresce più che nelle regioni del Nord. Eppure gli insediamenti produttivi sono in diminuzione. Le chiavi di volta sono due: la prima, appariscente, è la trasformazione di Roma in meta turistica primaria, che accentra flussi in virtù del suo immenso patrimonio artistico e degli «eventi» (auditorium, festival del cinema, notte bianca, estate romana); la seconda, silenziosa per natura, è il trionfo della speculazione immobiliare e della grande distribuzione. Un «secondo sacco di Roma» che dissolve la città in fasce concentriche, con un centro storico musealizzato ad uso e consumo del turismo archeologico-culturale e periferie che se ne allontanano in proporzione inversa al reddito. La «modernità» liberista impone la «cancellazione delle regole che presiedono i rapporti sociali» e l'indebolimento selettivo del «ruolo regolativo del potere pubblico»: qui è stata assecondata in pieno.
Sul piano urbanistico la prima sperimentazione fu fatta nella «Milano da bere». E nella scorsa legislatura stava per diventare legge il «disegno Lupi», che affidava il futuro metropolitano ad amministrazioni e proprietà fondiaria: consociate. Ma quel modello agisce comunque con gli «accordi di programma» che, in deroga ai piani regolatori, rendono pressoché automatici i cambi di destinazione dei terreni (da agricolo a edificabile; un modo semplice di trasformare l'acqua in champagne). Scompare così - senza neppure doverlo dire - ogni traccia di programmazione urbanistica, lasciando campo libero a chi ha le risorse per realizzare i «progetti». Un esempio? La «città della Roma», dove è stato concesso alla società di calcio - in difficoltà per 100 milioni di euro - di edificare sui fin lì poco redditizi terreni vicini al campo di allenamento.

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Editoriale per Carta
di Giovanna Ricoveri


L’espressione “modello Roma” è diventata sinonimo di modernità, cambiamento, innovazione e progresso. La città di Roma sembra stia vivendo un secondo rinascimento, come hanno affermato quotidiani importanti quali Le Monde e Financial Times. Grazie anche al suo sindaco Walter Veltroni, unanimemente apprezzato, Roma ha prodotto di sé un’immagine che non ha nulla da invidiare alle grandi capitali globali (Parigi, Berlino, New York) per “capacità di attrazione dei flussi finanziari e turistici, per la messa in produzione dei suoi antichi fasti e splendori (centro storico e monumenti), per la celebrazione di grandi eventi culturali”.
Gli autori del libro Modello Roma. L’ambigua modernità sostengono che nonostante i molti meriti di cui la città si vanta e che gli vengono riconosciuti, il modello Roma nasconde molte crepe e problemi irrisolti e irrisolvibili all’interno di questo modello. Avanzano l’ipotesi che il modello sia subalterno al potere dell’economia, omologato al modello consumistico e portatore di una modernità ambigua che abbandona al proprio destino quelli che non ce la fanno a tenere il passo della competizione internazionale. Propongono di discuterne, prima che il modello Roma diventi il “modello Italia”.
Tra i grandi problemi a sostegno della critica di cui questo libro si fa portatore, si possono elencare il consumo di suolo, infrastrutture, traffico, energia e risorse ambientali; la cementificazione del territorio e il potere decisionale sulle sorti della città, lasciato in mano alla proprietà immobiliare; la mancanza di un patrimonio abitativo pubblico per i ceti meno abbienti e la crescita dei valori immobiliari e dei fitti, non arginata dalle politiche pubbliche; l’aumento dei grandi centri commerciali e quello del turismo (nel centro storico i turisti superano i residenti). Il rischio è che, senza un progetto alternativo e radicale di città sostenibile sul piano ecologico e sociale, i cittadini siano destinati a diventare dei “clienti” e che la modernità porti alla rottura della convivenza sociale.

Gli Autori: E. SCANDURRA docente di Urbanistica, B. AMOROSO economista, A. CASTAGNOLA economista, R. TROISI economista, P. BERDINI ingegnere urbanista, A. CASTRONOVI dirigente Cgil, G. CAUDO ricercatore di Urbanistica, V. SARTOGO, studioso di problemi ecologici, G. RICOVERI studiosa dei problemi dello sviluppo, C. CELLAMARE docente di Urbanistica, B. ROSSI DORIA docente di Urbanistica.

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