Dalla quarta di copertina:
Differenztheorie
der Metapher (“La metafora secondo la teoria della
differenza”), qui tradotto per la prima volta in italiano,
è stato pubblicato postumo a Münster nel 2004.
È un saggio teorico denso e complesso che si presenta
come un’originale e produttiva applicazione delle teorie
funzionalistiche, costruttivistiche e sistemiche allo studio
delle metafore e che, inoltre, ha il fascino di un pensiero
per certi versi ancora in fieri.
Sul piano del linguaggio come codice e medium, e quindi senza
che sia persa di vista la prospettiva tradizionale “classica”,
la metafora viene analizzata al microscopio della “differenza”
(secondo la teorizzazione di Luhmann e Spencer Brown): distinzione
(per esempio, vero/falso; detto/inteso; ecc.); distinzione
della distinzione (osservazione); e indicazione (evidenziazione
di uno dei due lati della distinzione). Rianalizzando a fondo
l’esperienza e il concetto dello spazio (dal punto di
vista ontogenetico di Piaget e filosofico di Kant, Husserl
e Merleau-Ponty), Cochetti elabora la distinzione fondamentale
spazio semantico/spazio intuitivo che gli permette di rimettere
a fuoco in senso nuovo i problemi della teoria della metafora.
Egli perviene così alla prima formulazione: la metafora
è un sistema di comunicazione dal carattere non comunicativo
o come una maniera per connotare psichicamente un sistema
di comunicazione. Rivendicando alla metafora – in polemica
con Davidson e Searle – anche una valenza semantica
(oltre che pragmatica) e utilizzando criticamente gli esiti
delle ricerche dei cognitivisti, Cochetti giunge alla seconda
e conclusiva formulazione: la metafora è osservazione
e differenza e si distingue nettamente sia dalla metonimia
che dal simbolo.
L’approccio da lui adottato gli permette anche una rassegna
critica delle tappe più significative "esemplari"
del lungo lavoro teorico precendente: dalla teoria classica
di Aristotele a quelle di Hegel e Gadamer; da quella costruttivistica
di Goodman a quella antropologico-culturale (lo sfondo è
un rituale cruento dei Dogon). Si mostra quindi in atto anche
una spiccata sensibilità nei confronti delle specificità
culturali e della diacronia.
Su
Methodologia è apparsa la
seguente recensione firmata da Felice Accame
Se Verbrugge e Mc Carrell – dico due più o meno
a caso – rilevano che spesso la metafora viene considerata
come qualcosa da emendare, o da normalizzare, ricorrendo a
perifrasi opportune e se ritengono, tuttavia, che “persino
le proposizioni letterali e vere non rappresentano alcuna
identità, ma tutt’al più una ‘sufficiente
somiglianza’” è segno che, in materia,
le teorie della conoscenza hanno ancora voce in capitolo e,
presumibilmente, potere di assolvere o condannare. Che la
cosa preoccupi anche Stefano Cochetti – autore di un
testardo e ferratissimo confronto con una cernita intelligente
di teorie della metafora nel suo libro La metafora secondo
la teoria della differenza (Odradek, Roma 2007) – risulta
evidente laddove fa notare che “finché non si
dispone di nessuna definizione soddisfacente della referenza
come referenza esatta (…), è impossibile “distinguere
una proposizione letterale da una metaforica” nonché
distinguere “la somiglianza letterale da quella metaforica”,
concludendo che, comunque la si metta poi, parlare di “corrispondenze”
senza “ricadere nell’ingenuità della teoria
della verità come adaequatio” rimane piuttosto
“oscuro”.
Rimane piuttosto oscuro anche a me il motivo di tanta insistenza
sulla verità del referente e sul referente stesso in
quanto tale in tutte le teorie della metafore che il mondo
colto gradisce ed accoglie nel suo ampio seno. Anche perché,
da tanta insistenza, non è che sia mai venuto niente
di buono: una proposta classificatoria di metafore è
venuta sostituendo l’altra senza che mai si pervenisse
a quella definitiva, dalla distinzione fra letterale e metaforico
non è mai uscito nessuno con le ossa tutte intere,
un criterio per separare metafore buone e metafore cattive
non è mai stato esplicitato – senza contare tutti
i pasticci relativi alla definizione delle metonimie (presunti
e misteriosi rapporti “interni” alle parole coinvolte
nello scambio e un “rapporto sintagmatico” che
non negandosi a nessuna parola non si vede come possa garantire
la diversità di alcune di esse).
Perfino Goodman, presentato da Cochetti come campione di una
teoria costruttivista, alla finfine non riesce ad evitare
l’ostacolo, perché, ammettendo pure che “la
questione della verità” non venga da lui intesa
in termini di essere o non essere del referente – dunque
non ontologicamente”, non trova di meglio che ritirarla
in ballo “nel senso di una reale accettazione di una
referenza” (pag. 155).
Mancando una qualsiasi teoria del significato, non sapendo
a che ricondurre le parole, è quasi ovvio che le cose
vadano così. Che i presupposti realistici della considerazione
filosofica del linguaggio orientino la ricerca senza consentire
deviazioni. Dico quasi, perché non è così
automatico che, non avendo elaborato un modello di operazioni
mentali in rappresentanza dei significati delle parole, si
finisca con il chiedersi se le “cose “ corrispondono
o meno a queste come due ordini prestabiliti e paralleli.
Ci si potrebbe anche accontentare di negare di principio la
corrispondenza e vivere più felici e più contenti.
Il libro di Cochetti è una selezione accurata di teorie,
spesso discusse criticamente e altrettanto spesso rivelatesi
al vaglio della critica piuttosto problematiche, dal punto
di vista specifico della teoria della differenza. Da dove
salta fuori questa teoria – almeno per Cochetti –
è presto detto: Spencer Brown, prima, e Luhmann, poi,
mantenendo la preoccupazione che il concetto della distinzione
da cui parte possa applicarsi “anche in altri campi
al di là della teoria sociale e all’interno del
discorso filosofico nel suo senso più ampio”.
Cosa sia questa ampiezza non è dato sapere, ma quel
che resta indubbio è l’ambito della filosofia
cui la teoria è destinata. I riferimenti
costruttivistici vanno qui intesi “nel senso della teoria
di Luhmann” – e con ciò ci siamo messi
il cuore in pace. I riferimenti a Von Glasersfeld, per esempio,
servono a Cochetti soltanto per completare la sua lettura
di Piaget e di Inhelder e la teoria “operativa”
della metafora è del tutto ignorata, nonostante negli
antecedenti di Ceccato sia reperibilissimo il momento in cui
cercava di fondare il proprio modello analitico proprio sul
“differenziato”.
La teoria espressa da Spencer Brown in Laws of Form (1969),
com’è noto, si basa sull’operazione di
distinzione ponendo “qualcosa” in uno “spazio
vuoto” e, letteralmente, si configura come topologica.
Il differenziato di Ceccato, invece, non era riconducibile
ad alcunché di spaziale – tanto è vero
che, poi, venne sostituito da una funzione che lo produce,
ovvero dal meccanismo attenzionale. Dal punto di vista di
una teoria che preveda la specificazione di un’attività
mentale, quindi, la teoria di Spencer Brown può valere
soltanto sul piano analogico – piano che, comunque,
ha attirato l’attenzione di Von Foerster, Von Glasersfeld,
Maturana e Varela, oltre a Luhmann (nonché le critiche
di Glanville che, tuttavia, Cochetti respinge non senza sottigliezza
– cfr. pp. 46-51).
Cochetti, dunque, è portato a costruire la sua teoria
della metafora su una metafora precostituita – da lì,
la necessità per lui di distinguere uno “spazio
intuitivo” da uno “spazio semantico” e la
necessità di far proprio l’intero repertorio
topologico della letteratura sulla metafora: “lati”,
“campi”, “vicinanze”, “lontananze”,
“contiguità”, e via metaforizzando nel
senso ineludibile della riduzione del mentale al fisico.
Felice
Accame |