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LUGLIO 2007- IL MANIFESTO
Coscienze critiche ai margini dell'Urss
Analisi di un fenomeno poco indagato, la «Storia
del dissenso sovietico» di Marco Clementi getta luce
sulla opaca Russia di oggi
ASTRIT DAKLI
Dissolta da oltre quindici anni l'Unione sovietica e con essa
il settantennale regime «comunista», un destino
assai diverso pare essere toccato ai suoi due avversari. Mentre
il nemico esterno, la superpotenza americana, si è
avviata a un dominio del mondo apparentemente incontrastato
(o contrastato da nemici nuovi e del tutto estranei a quel
che erano l'Urss e il Pcus), sembra invece finito tra i capitoli
rimossi della storia il fenomeno politico, culturale e sociale
che per decenni era stato il contraltare della superpotenza
«rossa» sul piano interno: il «dissenso»,
che il recente, documentatissimo libro di Marco Clementi (Storia
del dissenso sovietico. 1953 -1991, Odradek, pp. 302,
euro 22) racconta tracciando una mappa delle numerose frange
e tendenze (a volte persino individuali) in cui quel fenomeno
si è articolato fra il 1953 e il 1991 - cioè
nei complicati anni in cui il regime cercò di sopravvivere
alla morte di Stalin.
Questa diversità di destini conferma purtroppo tutti
i più ovvii luoghi comuni sul rapporto tra forza bruta
e forza morale: la competizione con missili, soldati e aggressività
ha premiato i più forti, mentre la non violenza, la
dirittura morale, l'esporsi in prima persona in nome della
libertà, con le sole armi del pensiero e delle lettere,
non hanno alla fine permesso di vincere sull'arroganza del
potere nemmeno nel momento in cui questo pareva in ginocchio.
Nessuno degli uomini e delle donne che hanno rappresentato
il dissenso sovietico è giunto, dopo il crollo del
regime che avevano contrastato, a occupare posizioni di governo
o comunque di potere - non conta evidentemente da questo punto
di vista la carriera di Natan (Anatoly) Sharansky, diventato
sì ministro, ma in Israele - e la maggior parte di
loro hanno finito per restare all'estero, se vi erano stati
mandati in esilio, o recarvisi comunque di loro iniziativa.
Mentre le poltrone che contano al Cremlino e negli altri palazzi
del potere della nuova Russia sono state (e sono tuttora)
occupate o da ex dirigenti del partito rapidamente riciclatisi
o da giovani rampanti e formalmente apolitici che nella parola
«dissenso» non vedono alcun significato se non
un vago suono negativo, da esorcizzare prima possibile. Eppure
i dissidenti sovietici potevano ben dire di aver vinto, negli
anni fra il 1988 e il 1993: almeno in apparenza, e provvisoriamente,
la maggior parte delle loro idee e delle loro richieste sembravano
in via di piena realizzazione: libertà di opinione,
di espressione e di stampa, pluralismo politico, libertà
di movimento all'interno e attraverso i confini, riabilitazione
delle vittime - tanto i singoli individui quanto interi popoli
- della repressione e del terrore. Arrivarono anche (alcuni)
a un passo dalla stanza dei bottoni, negli anni tempestosi
della perestrojka: come non ricordare Andrei Sakharov quando,
appena tornato da dieci anni di confino, durante il Congresso
dei deputati del popolo dell'Urss, in diretta tv e rivolto
al presidente e segretario generale Gorbaciov, si alzò
e andando verso la tribuna gridò «Non sono d'accordo,
Mikhail Sergeevic!». Nessuno prima di allora aveva mai
osato dire una cosa del genere pubblicamente, in faccia al
capo assoluto. Ma Andrei Sakharov era l'unico dissidente ad
avere una vera statura politica, oltre che morale; e morì
troppo presto per poter svolgere un ruolo.
Gli altri preferirono tenersi fuori dalla politica, come Aleksandr
Solzhenytzin, che pensava ingenuamente (e forse pensa ancora)
di poter influire sulle grandi scelte politiche della nazione
attraverso articoli e libri; oppure, in maggioranza, si affidarono
a quello che ritenevano essere uno di loro e che invece era
solo un furbo boss messosi a sparare sul regime in previsione
della sua caduta, Boris Eltsin. Che errore! Corvo bianco non
perseguitò gli ex dissidenti, certo no, ma fece in
modo di non averli troppo tra i piedi nei luoghi dove si decidevano
le cose importanti, cioè il big business. E nel frattempo,
la parte più sveglia e aggressiva della vecchia nomenklatura
faceva in modo di riprendere saldamente in mano le redini
del potere, per un breve periodo abbandonate al caso.
Non solo non hanno colto i frutti materiali della loro vittoria,
gli uomini del dissenso, ma sono proprio spariti dalla circolazione.
Si potrebbe dire che per ironia della sorte la loro influenza
sulla società russa era senz'altro maggiore quando
entravano e uscivano dalle galere e dai manicomi, perseguitati
furiosamente dal regime e costretti a divulgare le proprie
idee su foglietti di carta velina dattiloscritti in dieci
copie. E sì che di testimonianze dissenzienti ce ne
vorrebbero eccome, nella Russia d'oggi: dove certo non c'è
più la repressione feroce di un tempo ma essere «contro»
è ancora piuttosto pericoloso; si finisce facilmente
in carcere - per spionaggio, disturbo della quiete pubblica,
propaganda illegale, «estremismo» e altro ancora
- e persino l'uso della detenzione psichiatrica non è
del tutto cessato. Del resto, quando il capo del paese è
un ex ufficiale del Kgb, ed ex ufficiali del Kgb sono gran
parte dei dirigenti nei posti chiave, non è il caso
di meravigliarsi troppo. C'è da dissentire, dunque:
ma a farlo, a dispetto di una teorica «libertà
di stampa» sbandierata in continuazione, sono in pochissimi.
E non se la passano tanto bene: Anna Politkovskaja poteva
ben essere considerata l'erede del movimento del dissenso
- ma sappiamo cosa le è toccato.
Per questo la Storia del dissenso sovietico di Clementi, oltre
a essere una miniera di informazioni che permettono di capire
molto meglio un fenomeno chiacchierato fino alla nausea ma
pochissimo studiato, serve soprattutto a vedere sotto una
luce diversa la Russia di oggi, per tanti versi opaca e ambigua.
In fondo, a determinare l'assenza di un'opposizione politica,
all'alba del XXI secolo, contribuisce proprio la delusione
per le speranze svanite, il ricordo di quanto dura e insuperabile
possa diventare la repressione e soprattutto la consapevolezza
di quanto la società stessa possa essere «cattiva»
e dominata dalle paure e dagli egoismi, anche una volta liberata
dall'oppressione totalizzante del partito-stato.
BOX Dissidenti
Sakharov e gli altri
Potere contro cultura, intellettuali (e in particolare scrittori)
contro dirigenti politici; un quarantennio di scontro a senso
unico tra uomini di idee e tendenze le più disparate
e un regime monolitico nella sua volontà di negare
ogni discussione, ogni idea alternativa a se stesso. Il libro
di Clementi ripercorre, dividendolo in varie fasi temporali,
lo sviluppo di quello che è persino difficile definire
un «movimento», tanto diversi tra loro furono
i suoi esponenti: da Pasternak a Sacharov e Solzhenitzin passando
per Daniel, Amalrik e tanti altri, rappresentanti di idee
marxiste e democratiche, anarchiche e nazionaliste, immersi
in un contesto di profondissime trasformazioni sociali e politiche
ancora non consolidate. Di ognuno Clementi racconta gli atti
di opposizione compiuti e i colpi repressivi subiti.
* * *
Paola Cioni
University of Toronto · Academic Electronic Journal
in Slavic Studies
http://www.utoronto.ca/tsq/22/cioni22.shtml#top
Storia
del dissenso Sovietico (Odradek 2007) by Marco Clementi
(Professor of History of Eastern Europe at University of Calabria).
The
names of very few Soviet dissidents are known in the Western
world. Their stories, claims and ideas have often become journalistic
cases and their revelations have been exploited for obvious
political reasons, both from the right-wing and the left-wing
parties, especially during the Cold War. In fact, until now,
publications on the subject have dealt mostly with specific
cases and not with the reconstruction of the entire historical
reference frame in which the phenomenon developed. The normal
consequence of this is a distortion, often intentional, of
the facts, in favour of certain political tendencies. But
no chronicle can do without rigorous research. Indeed, sixteen
years after the fall of the USSR, Marco Clementi, with his
Storia del dissenso sovietico. 1953-1991 (Odradek,
p.302, 22 Euro), offers a remarkable reconstruction, discrediting
a great quantity of commonplaces. The book, accurately documented,
discusses well-known cases - such as the publication, first
in Italy and then in the Soviet Union, of Doctor Zhivago by
Boris Pasternak, or the sad circumstances that brought to
the expulsion of Aleksandr Solzeniticyn and Josif Brodskij
-, as well as little-known or completely unknown events, outlining
the phenomenon as a singular experience. An experience which
is, without doubt, sui generis, for its strong pacifist characterization,
for the lack of immediate political objectives - such as the
destruction of the Soviet regime or the creation of a multiple
political party society (the boundary line that the historian
traces between the political opposition and dissidence is
clear) -, but above all for the absence of a recognized leader
capable of channelling revendications towards a specific political
objective. However, in spite of the deep heterogeneity of
opinions and political visions among the exponents that animated
the dissidence - internally, in fact, there were, "besides
laic and democratic ideals, confessional, nationalistic, and,
in certain cases, even fascists and nazi ideals" -, they
found their path on their own, a common denominator that united
them around the objective of the defense of human rights and
the dignity of man. The phenomenon finds its origin in the
devastating effects of Stalinism on society: its constant
resort to a state of terror as a government practice, justified
by the unvarying evocation of the spectre of an internal enemy;
the campaign of arrests; the net of gulag on all the territory.
This way, no part of public or private life remains outside
of the detailed control of the Party. The consequence was
a social atomization process, not too different from that
generated by capitalism, and the birth of a radicated idealogical
conformism. Intellectuals would have to, in fact, according
to the definition imparted by Stalin himself, become "engineers
of the soul", and contribute to the construction of socialism
within the compulsory and acritical vision of the world. In
these conditions, it is not surprising that the changes -
more illusive than real, and generated from an atmosphere
different from the one felt during the Kruscev years - brought
a true explosion for the desire of creative freedom by the
men who never succumbed to social engineering. And it was
during the "Years of the Thaw" that the encounters
in Majakovskij Square took place, when young intellectuals
began to meet to read verses that had not passed through the
censorship net; at the same time, Samizdat was born, a clandestine
form of literary circulation that soon became of such relevance
to be considered a literature parallel to the official one.
But the spontaneous and pacific reactions of the opposition
conflicted with an obtuse bureaucracy firmly prepared to safeguard
its priviliges. After the defenestration of Kruscev (1964),
the neostalinist tendencies prevailed in the Party, and an
attempt was made to block the free demonstration of thought
with expulsions and arrests for the publication of non-conforming
literary works. Such an attempt was extreme enough to actually
surpass Stalin,under whose regime, Clementi reminds us, literature
was strongly censured, but no arrests were made for the content
of the works . Moreover, we must not forget the endless internment
of dissidents in special psychiatric hospitals, a practice
which officially ended in 1988. This dramatic experience,
which represented one of the most shameful methods of repression,
is described by Clementi through the stories of those who
lived it personally. In spite of everything, it was impossible
to stop the dissident flow; the conflict between intellectuals
and the State not only could not be stopped, but it lasted
until the collapse of the latter. The law for the rehabilitation
of the victims of repression was promulgated only after the
attempted coup of August 1991, when the Soviet Union no longer
existed. In an article, published by the Italian daily Il
Manifesto (dated August 1, 2007), Rossana Rossanda invites
us to ask a series of questions, among which: "Why did
the attempt to realize a non capitalistic society fail? When
was the error first made? In 1917? Was it initially made at
the time of the division between Lenin and the socialist revolutionaries?
Or was the error originally committed at the time of the dissolution
of the Soviet Union? Or was it only Stalin who committed a
mistake? Would it have been better if the movements of 1917
had not been carried through, if passive resistance had been
opposed to czarism, waiting for the war to end a year or two
later, and for modernity to slowly get the better of autocracy?
It is difficult to give an answer to all of these questions,
because history, as we well know, is not made of "ifs".
Clementi's book helps us in this reflection, providing us
with a detailed reconstruction of a past that for years was
troublesome (a past with which we are finally coming to terms),
and offering numerous elements for the achievement of a deep
social awareness necessary for the construction of the future.
Paola Cioni
***
Recensione
uscita su Esamizdat a firma
di Simone Guagnelli
Ricostruire la storia del dissenso sovietico costituisce un’impresa
particolarmente difficile, ma allo stesso tempo preziosa e
necessaria. L’ampiezza e la particolare eterogeneità
dell’oggetto d’indagine prestano infatti il fianco
a molteplici punti di osservazione e impongono, di conseguenza,
scelte metodologiche di partenza estremamente rigorose, rigide
e rischiose. Ci prova in questo libro, edito da Odradek, Marco
Clementi, ricercatore di Storia dell’Europa orientale
all’Università della Calabria. L’autore,
ben consapevole della complessità del suo studio, tenta
nel capitolo introduttivo di enucleare tutte le problematiche
del lavoro. Il lettore può essere forse sorpreso sin
dalla copertina, dove campeggia il bellissimo ritratto di
Anna Achmatova eseguito da Natan Al´tman nel 1914. Il
libro prende avvio proprio dalla poetessa russa che viene
in qualche modo elevata a simbolo della dissidenza sovietica.
Clementi, non esplicitando peraltro la citazione, le dedica
infatti il titolo del primo paragrafo usando un verso, modificato
tramite la sostituzione dei nomi, della canzone di Fabrizio
De Andrè “Ho visto Nina volare”. Il volo
di Anna rappresenta, secondo l’autore del libro, il
volo libero della fantasia poetica, troppo spesso, nel corso
del XX secolo, infrantosi contro lo scoglio dell’ideologia
politica. Ovviamente l’Achmatova non è una dissidente
in senso stretto e probabilmente viene qui convenzionalmente,
e forse arbitrariamente, scelta in quanto rappresentante dell’intelligencija
artistica, cioè di un singolo, seppur fondamentale,
mattone del muro del dissenso.
Anche la stessa scelta dei limiti temporali del movimento
dissidente sovietico appare per certi aspetti troppo elastica,
non tanto per il termine ad quem, il 1991, scelto come data
della legge sulla riabilitazione delle vittime delle repressioni
politiche, quanto per quello a quo, il 1953, anno della morte
di Stalin. Se è infatti vero che la morte di Iosif
Vissarionovic¹ ha dato il via a tutta una serie di lenti cambiamenti
più o meno reali e più o meno importanti nel
tessuto sociale e politico russo-sovietico, a partire dalla
“decisione del mondo politico sovietico di non ricorrere
più al terrore generalizzato, caratteristico del sistema
staliniano” (p. 13), è altrettanto vero che questa
decisione è appunto una presa di posizione dall’alto,
del mondo politico stesso e non è diretta origine o
conquista di nessun movimento civile, tanto più che
lo stesso Clementi afferma semmai che “il pieno sviluppo
del dissenso avvenne quando le velleità di riportare
indietro il paese urtarono contro la resistenza della parte
più attiva della società civile” (Ibidem).
Insomma, decidere di ripercorrere un movimento così
multiforme, trasversale e di resistenza al regime come quello
dei dissidenti, e scegliere di farlo dal 1953 al 1991, significa
rischiare (cosa che a volte il libro fa, in forma di compendio
e tramite esempi eclatanti) di redigere la storia dell’Unione
sovietica dalla morte di Stalin alla sua definitiva caduta.
Il volume è poi suddiviso in nove capitoli, i quali,
però, rispecchiano solo parzialmente le sei fasi cronologiche
individuate da Clementi nell’introduzione (1953-1964,
cioè fino a quando Chrus¹c¹ev non è costretto
ad abbandonare il potere; 1965-1967, dall’arresto di
Daniel´ e Sinjavskij a una vera presa di coscienza e
organizzazione da parte di molti intellettuali; 1968-1972,
ovvero da un anno cruciale per la contestazione in tutta Europa,
ma anche quello in cui prende l’avvio la Cronaca degli
avvenimenti correnti e Sacharov scrive il suo Trattato, fino
a quando, con la crescita del movimento, aumenta anche il
numero degli arresti; 1973-1974, biennio “di crisi e
di riflussi”, come lo definisce l’autore, “sebbene
non manchino iniziative quali la fondazione del gruppo ’73
o l’apertura della sezione russa di Amnesty international”
(p. 13); 1975-1982, dal premio Nobel conferito a Sacharov
alla sospensione delle attività del gruppo Helsinki;
1983-1991, anni caratterizzati dalla segreteria “riformatrice”
di Gorbac¹ev che condurrà alla liberazione di tutti
i prigionieri di coscienza e alla promulgazione di una legge
per la riabilitazione). La scansione dei capitoli, diacronicamente
orientata, non sempre permette quanto l’autore vorrebbe
assicurare, ovvero un’analisi dettagliata delle varie
anime e delle vaste problematiche che uno studio di tale portata
comporta. All’interno della cronaca degli eventi più
significativi che hanno caratterizzato la storia del dissenso
sovietico, si trovano quindi approfondimenti su alcune delle
maggiori personalità del movimento (Sacharov, il generale
Grigorenko, Gabaj, Dz¹emilev, Amal´rik, Kuznecov, Bukovskij,
Pljus¹c¹, Moroz, Marc¹enko, S¹c¹aranskij, Orlov, Turc¹in),
oppure su quegli operatori culturali, le cui vicende giudiziare
compattarono e orientarono le forme di protesta (Pasternak,
Sinjavskij, Daniel´, i poeti del Faro, Brodskij, Solz¹enicyn,
Tvardovskij). All’interno di questa foresta di nomi
e di vicende personali elevate a emblemi dell’atmosfera
civile del paese, trovano spazio anche argomenti, problematiche,
risoluzioni, fenomeni, organizzazioni senza i quali non sarebbe
possibile ottenere il mosaico complessivo dell’intero
movimento ( Il libro bianco sul caso Sinjavskij e Daniel´,
l’esplosione dei fenomeni di samizdat e tamizdat, i
casi di abuso psichiatrico sui detenuti politici, il Gulag,
il problema delle minoranze nazionali, la questione religiosa,
il Comitato per i diritti dell’uomo, l’apertura
del fascicolo denominato Delo n. 24 da parte delle autorità
sovietiche e orientato contro la Cronaca degli avvenimenti
correnti, il cosiddetto caso dei piloti legato al problema
della difficile possibilità di emigrare accordata agli
ebrei sovietici, il gruppo Helsinki).
La scelta dei temi e delle problematiche che vengono affrontati
nel corso del volume viene ribadita dalla ricca bibliografia,
divisa prima linguisticamente (italiano, altre lingue, russo)
e poi, con qualche variante, tematicamente (Opere di carattere
generale, Opere dei dissidenti, La letteratura sovietica e
il rapporto con l’Occidente, Samizdat e tamizdat, Gli
abusi psichiatrici, Il problema delle minoranze nazionali,
Il problema religioso, Lo stalinismo, Il Gulag, Il disgelo,
la stagnazione e la perestrojka, Raccolte di documenti e testimonianze).
La ricostruzione storica di Clementi è tutto sommato
esaustiva e corretta, il lettore riesce a farsi un’idea
di quello che è stato un movimento di protesta civile
per il riconoscimento dei diritti essenziali dell’uomo
in Unione sovietica. La cronaca è fedele ai documenti
dell’epoca e alle più aggiornate ricerche in
materia. Il punto di vista è sufficientemente obiettivo,
anche se mancano spunti di analisi, approfondimenti e apporti
innovativi o originali. Il punto di contrasto tra regime politico
e opposizione civile è forse eccessivamente appiattito
e banalizzato nella dicotomia menzogna versus verità
, conformismo versus libertà. Le rare prese di posizione
sono in genere serene e pacate (l’autore spesso si limita
ad affermare di essere d’accordo o, più raramente,
a modificare in modo molto lieve approdi altrui). Per questo
sorprende in modo particolare la polemica, eccessiva nei toni
e imprecisa nei contenuti, che quasi all’inizio del
libro Clementi sostiene contro Cesare G. De Michelis a proposito
di Andrej Sinjavskij e del suo C¹to takoe socialistic¹eskij
realizm [Che cos’è il realismo socialista, 1957].
Nel suo articolo (“Realismo socialista, veridicità
e letteratura russa antica”, Europa orientalis, 1988,
7, pp. 185-197), dedicato all'analisi del realismo socialista
messo “a confronto con le tradizioni culturali e letterarie
antiche del paese in cui, storicamente è sorto”
(p. 187), De Michelis partiva dal confronto tra due posizioni,
distanti nel tempo, nel luogo e nelle intenzioni, ma simili,
se non coincidenti, nelle conclusioni: quella di Alberto Moravia
(“nell'ideologia comunista non c'è posto per
le smentite anche minime della realtà”) e quella
di Andrej Sinjavskij (“ogni produzione del realismo
socialista, prima ancora di prendere forma, deve avere una
conclusione felice”). La visione della natura conformista
del realismo socialista, tesi, secondo Clementi, ispiratrice
del libello di Sinjavskij, non mi pare, al contrario di quanto
sostiene l'autore del libro, possa (o debba) escludere la
evidente interpretazione teleologica del metodo del regime
sovietico, secondo le affermazioni di Moravia e Sinjavskij
riprodotte da De Michelis. Non si capisce come le premesse
culturali, peraltro consapevolmente ovvie e abbondantemente
risapute, dell'articolo di De Michelis (ovvero il parallelo
tra comunismo e religione) non potessero (o non dovessero)
essere sottoposte a verifica scientifica sul piano culturale
e letterario, da parte dello slavista.
Nonostante questa unica e, a mio avviso, non giustificata
deriva polemica, il libro di Clementi rimane uno strumento
utile per studiosi, studenti e semplici curiosi. L'attualità
del dissenso sovietico non è solo comprovata dagli
sconcertanti avvenimenti politici della Russia putiniana,
ma anche da almeno un paio di ricorrenze importanti che vedono
al centro il nostro paese. Nel 2007 infatti ricorrono sia
i 50 anni dalla prima pubblicazione mondiale del Doktor Z¹ivago
di Boris Pasternak (evento che la casa editrice Feltrinelli
celebra con una nuova traduzione e diversi appuntamenti in
tutta Italia), che i 30 anni dalla cosiddetta “Biennale
del dissenso”, ovvero dalla manifestazione culturale
veneziana che nel 1977, sotto la presidenza di Carlo Ripa
di Meana, rischiò di saltare per le fortissime pressioni
da parte del regime comunista sovietico.
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Recensione
in ANNALE Sissco IX/2008, p. 219, di Francesca
Gori
Il
libro di Marco Clementi costituisce una sintesi documentata,
ampia e articolata della complessa storia del dissenso sovietico
dopo la morte di Stalin. Partendo dall'epigrafe della raccolta
Feniks '66, nella quale Galanskov sintetizzava uno dei motivi
fondamentali della discordia tra potere e intellettuali, l'a.
si domanda cosa intesero questi «spiriti liberi»
con la parola «verità». Il tentativo di
individuare una risposta sta alla base, secondo Clementi,
del movimento di pensiero sul quale si sviluppò il
dissenso sovietico la cui storia fra il 1953 e il 1991 può
essere articolata in sei fasi. La prima data corrisponde alla
morte di Stalin, la seconda alla promulgazione della legge
sulla riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche.
Il periodo 1953-1964 segnò profondi cambiamenti nella
società sovietica, con la denuncia del culto della
personalità durante il XX Congresso e la successiva
estromissione di Chrus¹c¹ëv. Nel secondo periodo (1965-1967)
il nuovo establishment guidato da Brz¹nev operò con
espulsioni e arresti di scrittori dissidenti (celebre il processo
a Sinjavskij e Daniel'). Nel terzo periodo (1968 1972) il
movimento crebbe, con l'avvio della pubblicazione della «Cronaca
degli avvenimenti correnti» e con il saggio di Sacharov
Considerazioni sul progresso, la coesistenza pacifica e la
libertà intellettuale. Nel quarto periodo (1973-1974)
sopravvenne una crisi, ma non mancarono iniziative quali la
fondazione del «Gruppo '73» e l'apertura della
sezione russa di Amnesty International. Il quinto periodo
(1975-1982) si aprì con il premio Nobel per la pace
a Sacharov e fu caratterizzato dalla fine delle attività
del Gruppo Helsinki. Durante l'ultimo periodo, infine, si
giunse con M. Gorbac¹ëv alla liberazione dei prigionieri
politici. Nei nove capitoli del volume l'a. ci presenta gli
attori politici, gli scrittori e gli artisti legati al movimento
del dissenso, del quale analizza aspetti peculiari quali il
samizdat, i casi noti (come la pubblicazione del Dottor Z¹ivago
e delle opere di Solz¹enicyn) e meno noti, che hanno comunque
contributo a formare la complessa rete del dissenso sovietico.
È merito dell'a. essersi interessato non solo agli
eventi di Mosca, ma anche alle periferie dell'impero sovietico.
Inoltre, Clementi dedica molte pagine alle questioni nazionali
dei popoli deportati, all'affaire Grigorenko, all'uso della
psichiatria negli ultimi anni e alla questione religiosa.
Il volume è corredato da una ricca bibliografia tematica.
Da un lavoro così importante e meritorio ci saremmo
tuttavia aspettati un'analisi più mirata e approfondita
di alcuni aspetti centrali, quali la «Cronaca»,
il pensiero di Solz¹enicyn e Sacharov. In definitiva la ricostruzione
proposta da Clementi non sempre attribuisce ai vari fenomeni
politici e di pensiero un giudizio di merito proporzionato.
A questo proposito stupisce l'assenza di almeno un accenno
all'Associazione Memorial, il cui impegno non si è
esaurito con la fine del comunismo, continuando la migliore
tradizione del movimento del dissenso sovietico contro qualsiasi
forma di repressione e per la salvaguardia dei diritti umani.
Francesca
Gori
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