Lillo
Testasecca ha scritto una utile recensione
su Cassandra.
Nota
editoriale a Mai
la merce sfamerà l'uomo
L’uscita
di questo libro cade quando la più grave crisi capitalistica,
a far tempo da quella del 1929, si mostra con una forza tale
da non poter essere più negata. Crisi sistemica, con
ogni evidenza; una crisi finanziaria, innescatasi però
a partire dalla crisi energetica che ha fatto impennare il
prezzo del petrolio, cioè di una merce non riproducibile
capitalisticamente il cui prezzo entra, direttamente o indirettamente,
nel prezzo di tutte le altre merci – proprio come il
prezzo della forza lavoro – ma nel cui prezzo la rendita
rappresenta un limite che non dipende, o dipende poco, dalla
concorrenza.
Mai la merce sfamerà l’uomo ha un sottotitolo
“pesante”, inequivoco e sorprendente non solo
per coloro che si rifanno a una delle tante vulgate del marxismo,
ma anche per i molti che, magari filologicamente e approfonditamente,
si sono applicati allo studio del marxismo senza mai giungere
al cuore della teoria, custodita nella sesta sezione del III
libro del Capitale, probabilmente supponendo che
lì si trattasse, per “dovere” di completezza,
di un aspetto della materia economica – nonostante
i due metri cubi di appunti del Nachlass sull’agricoltura
in Russia, nonostante Marx abbia dedicato all’agricoltura
(e alle miniere) più pagine di quante abbia dedicate
all’industria.
Ora, per spezzare l’asintoto che spinge verso la fine
senza che mai la si possa raggiungere, per rompere questa
specie di muro di gomma che respinge e protegge quanto pur
di risolutivo è contenuto nelle pagine finali dell’opera,
è necessario “cominciare dalla fine”, a
partire anche dalla circostanza che il III libro è
stato scritto anteriormente al primo. È ciò
che fa Bordiga, o per lo meno tratta della rendita, in quanto
parte significativa del prezzo delle derrate alimentari e
quindi del prezzo della forza lavoro.
Insomma, nel momento in cui lo sviluppo storico dei rapporti
di produzione conduce il lavoro a una forma completamente
estraniata (si produce non per sé ma per il mercato)
– “la forma delle condizioni di lavoro estraniata
dal lavoro, resa autonoma nei suoi confronti e così
trasmutata” – ecco, in un momento storico così
particolare, tutto si estrania personificandosi:
così come i prodotti del lavoro umano divenuti merci
diventano una potenza autonoma nei confronti dei produttori,
anche la terra si personifica nel proprietario terriero, il
capitale nel capitalista, il lavoro nel lavoratore salariato,
e tutto appare come naturale.
L’esempio lampante e chiarificatore è proprio
quello offerto dalla terra: «... così che non
è la terra che riceve la parte del prodotto che le
spetta a sostituzione e incremento della sua produttività,
ma è il proprietario fondiario che ottiene, al suo
posto, una parte di questo prodotto per sperperarla e dissiparla»,
Il Capitale, III, p. 938. Occorre sottolineare due
aspetti: i. uno spunto “verde”, da ambientalista
ante litteram, ripreso peraltro in altre parti della sesta
sezione; in due righe è contenuto il nocciolo del discorso
sull’“ambiente”, più che in tanti
libri messi insieme: la parte di plusprodotto appropriata
dalla rendita, che in rapporti di produzione più evoluti
e non capitalistici andrebbe a sanare il depauperamento della
terra (sia con investimenti diretti, sia, indirettamente,
studiando tecniche meno distruttive), viene invece spesa improduttivamente
(in merci di lusso, prodotte capitalisticamente) per riprodurre
il presente rapporto di produzione, attraverso la riproduzione
di una delle due classi proprietarie; e ii. il presupposto
che il vero fondamento di una critica alla rendita non è
la notazione moralistica per la quale c’è chi
non produce eppure consuma, ma appunto quella per cui, per
riprodurre l’attuale società – di cui la
rendita è uno dei tre elementi fondamentali: la rendita
capitalistica, appunto – non si esita ad incrementare
la distruzione dell’ambiente perseguendo comunque e
sempre la valorizzazione del capitale (deforestando, cementificando,
consumando, come merci, beni non riproducibili).
Rilevante è il continuo riferimento di Marx al “globo
terrestre monopolizzato”, punto d’arrivo di un
processo, che si compie giusto nell’Ottocento, di un
processo che vede l’appropriazione privata di tutta
la terra disponibile nel pianeta. Proprio quando i socialisti
si limitavano a manifestare la loro insofferenza nei confronti
della rendita considerata un retaggio di passati modi di produzione
– da appropriare e redistribuire: ai poveri? ai funzionari?
all’industria? –, Marx ne coglie la trasformazione
in senso capitalistico, la sua cooptazione e sussunzione:
questo è il senso dell’insistenza sul “globo
terrestre monopolizzato”. Insomma, non c’era poi
tutto questo bisogno di scrivere qualche migliaio di pagine
a stampa per convincere e convincersi che una classe sfrutta
il lavoro di una seconda mentre una terza si riproduce consumando
parte della ricchezza prodotta in concorso tra le prime due
senza nemmeno partecipare alla produzione.
Tutto ciò acquista dignità di problema scientifico
quando si voglia invece esibire la “razionalità”
complessiva del sistema dei rapporti sociali; quando si voglia
misurare la ricchezza prodotta sulla base dello sfruttamento
(grandezza a sua volta misurabile), non solo, e si pretenda,
una volta conosciute le condizioni di produzione (la composizione
del capitale impiegato), si pretenda di individuare le condizioni
della riproduzione, ossia la quantità e la qualità
dei redditi nei quali si scompone la ricchezza prodotta, una
volta reintegrate le quote di ammortamento del capitale.
Altro che «eutanasia del rentier». A
partire dal concetto stesso di “sistema organico”,
ancorché capovolto, il rentier, lungi dal
lasciarsi morire, più o meno dolcemente, viene addirittura
evocato e posto in essere anche là dove non esisteva
la proprietà della terra. In Marx non c’è
“eutanasia del rentier”, ma la continua
ridefinizione e ricollocazione della rendita a partire dalla
prima sua trasformazione: da appropriazione del pluslavoro
(come corvée) e del plusprodotto (come decima)
ad appropriazione di parte del plusvalore, come rendita capitalistica,
sotto forma di denaro. Macchina perenne il capitale
per il capitalista per estorcere pluslavoro, ma calamita
perenne la terra per il proprietario fondiario per attrarre
parte del plusvalore estorto. Perché il capitale non
è solo una pompa di plusvalore; è anche la riproduzione
della società che storicamente e peculiarmente si poggia
sull’estrazione del plusvalore.
In uno dei tanti indici del terzo libro con i quali Marx cercava
di sistemare la materia, come terza sezione del III libro,
compariva proprio la trattazione della rendita, al posto della
caduta tendenziale del saggio di profitto. Forse questa successione
avrebbe esibito con maggiore evidenza il rapporto tra profitto
e rendita, e meglio reso la centralità della teoria
degli extraprofitti come determinazione immediata e pratica
della teoria del valore. Già, perché la teoria
del valore, di per sé, non mette capo che a banali
volgarizzazioni di tipo socialistico, che depotenziano e addirittura
obliterano il ruolo della rendita, e quindi fingono una realtà
capitalistica tanto semplice quanto falsa. La difficoltà
di comprendere la rendita non è solo politica, bensì
quella di coglierla all’interno di una teoria generale
degli extraprofitti che considera, insieme, gli extraprofitti
appropriati dal capitalista e che entrano nella determinazione
del prezzo di produzione come media; e quelli appropriati
dai proprietari della terra sotto forma di rendita, e sottratti
agli imprenditori affittuari che pure ne hanno determinato
le condizioni.
Lo sviluppo di questo rapporto determina, comunque, che la
massa assoluta della rendita tende ad accrescersi addirittura
più che proporzionalmente nei confronti del profitto
industriale, manifestandosi, quindi come il vero limite al
movimento del capitale.
Amadeo Bordiga, il dogmatico – in realtà critico
nei confronti degli eterni stupefatti – conclude questo
scritto avvertendo che non è un libro per professori,
ai quali, anzi, augura di penzolare: Professeurs, à
la lanterne! Anche se la sua lettura, in extremis,
non sarebbe loro inutile.
Claudio Del Bello
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