Tornata
elettorale
Visto
che abbiamo commentato con brevi flash (vedi Bacheca
e Zibaldone)
questa campagna elettorale, non ci sottraiamo a un breve
commento finale. [Che ha suscitato
una interessante discussione, vedi di seguito]
La pericolosa ascesa del Priapo Impotente è stata
bloccata «grazie a una ben orchestrata campagna
di stampa con l'aiuto di consorterie internazionali»,
in quanto ha potuto determinare un massiccio astensionismo
in parte della "maggioranza silenziosa" che
si è limitata a disertare le urne, e non già
a orientarsi verso altri partiti.
Constatato lo scampato pericolo – non avrebbe
preso prigionieri – non resta che cogliere la
decomposizione irreversibile dell'elettorato di sinistra
che, di fronte a una epocale crisi interna e internazionale,
risponde in ordine sparso affidandosi a formule testimoniali,
esorcistiche e identitarie: esprime sogni e aspettative,
anziché riconoscersi in interessi: il lavoro
e i suoi diritti – che altro?
Odradek,
8 giugno 2009
[La
discussione si è sviluppata - vedi sotto - ma
di seguito riportiamo le ultime battute]
Replica
- Ci si sorprende, e non poco, nel leggere delle risposte
non a quanto ho scritto ma, evidentemente, a quello
che ci si vorrebbe sentir dire per poter meglio controbattere.
Non ho mai parlato di somma elettorale di alcunché,
né di elezioni. Al contrario, ritengo proprio
che non abbiamo il tempo di attendere altri tre anni
e mezzo per cercare di battere Berlusconi in cabina
elettorale con una coalizione urbi et orbi che poi rigoverni
in malo modo. Questo governo deve cadere al più
presto per volontà popolare e politica di tutti
gli italiani che non si riconoscono nel centro destra.
Continuare a parlare di unità delle sinistre,
o di mancata unità, di somma elettorale, di cartello
antifascista o altre cose del genere è fuori
luogo, nonché pericoloso. Abbiamo un problema
gravissimo, come l'occupazione eversiva delle nostre
istituzioni, lo stravolgimento della costituzione erede
della Resistenza e l'instaurazione di un regime mediatico
senza precendeti nell'Europa postbellica. Per risolverlo
serve un'azione collettiva, decisa, generale, e non
l'accademia o la teoria. Repubblica e il Corriere,
tanto per fare un esempio, stanno continuando. Famiglia
Cristiana, non lo so. Solo dopo la ripresa di una
normale dialettica democratica ci si potrà nuovamente
impegnare seriamente a farsi del male a sinistra, dentro
e fuori la cabina elettorale. Allora, forse, ne riparleremo.
MC,
18 giugno 2009.
Plotone
d'esecuzione - Il problema della rimozione
del Priapo Impotente per ora è l'assillo della
borghesia tutta, nazionale e internazionale. Il fatto
che il Corriere abbia allargato il fronte mi
sembra abbastanza indicativo. Così come anche
lo sparigliamento siciliano di Lombardo aveva annunciato
che i "poteri forti locali" stavano sciogliendo
la muta dei cani. La Chiesa - con l'Avvenire
- ha aggiunto un altro pezzo a quello che, più
che un complotto, sembra ormai un plotone di esecuzione.
Testimonianze dal vivo dànno una descrizione
dell'uomo ormai abbastanza fuori di testa. Vedo più
probabile che un gruppo di notabili e uomini
d'arme lo prendano in consegna per portarlo dallo psichiatra,
che non una ahimé improbabile sollevazione della
"volontà popolare e politica
di tutti gli italiani che non si riconoscono nel centro
destra".
Temo che la sua uscita di scena avverrà come
la caduta di un malato, che mette in discussione ben
poco delle politiche e della cultura fin qui
devastata. Temo che ci toccherà un "governissimo"
molto "tecnico", che congela ogni movimento
perché la parte "democratica" si sentirà
come sempre investita della sacra missione di "salvare
il paese".
Questo segna però, a medio-breve termine, anche
la riapertura di tutti i giochi. Il centrodestra senza
padrone dovrà spaccarsi necessariamente, la Lega
darà fuori di matto (a parole) perché
gli viene a mancare l'unico
alleato vero, e anche a sinistra si potrà ricominciare
a ragionare senza l'obbligo dell'unità "contro"
invece che "per".
Insomma: anche l'uscita di scena di Berluska sarà
una sconfitta per la sinistra. Ma con un margine in
più per tentare di risollevarsi. Forse.
p.s. In politica, se si invoca un "prima
liberiamoci del tiranno e poi discutiamo tra noi",
l'analogia con il "fronte antifascista" è
d'obbligo. Anche se non lo si è nominato. E non
lo si fa "per comodità polemica", -
che in questo caso neppure mi sentivo addosso... - ,
perché a ben vedere si tratta di un argomento
piuttosto complesso e controverso, nella storia del
movimento operaio e comunista. Detto tra parentesi,
io negli anni '30 sarei stato per l'unità antifascista
ben prima del '36...
Casimiro,
20 giugno 2009.
Hotel
Lux Come
molti ricorderanno, l'Hotel Lux era negli anni Trenta
a Mosca la sede dei massimi dirigenti dell'Internazionale
comunista. Non era una sede di lusso; si trattava di
semplici camere modestamente arredate, neanche sempre
abitate da una singola famiglia. La penuria di alloggi
toccava anche la cima della piramide. Ebbene, sotto
altra forma e in ben altro contesto, una genia di dirigenti
internazionalisti, un'Europa antifascista, si è
riunita nell'ultima settimana di campagna elettorale
e ha contribuito in modo determinante a fermare l'ascesa
della bestia. El Pais, The Times, il Financial times,
la Suddeutesche Zeitung hanno contribuito a convincere
qualche elettore del centro-destra italiano che l'attuale
non è un governo di destra, ma una masnada di
ceffi, marionette ed ex amanti incapaci: il peggiore
governo della storia italiana, ventennio compreso. Nessuno,
fuori da questi nostri confini, vuole più avere
a che fare con il capocomico, il camorrista, il corruttore,
bancarottiere, evasore e concussore. L'Hotel Lux questa
volta ci ha aiutato. Il giornale di Ezio Mauro ha avuto
un ruolo non piccolo e gliene va dato atto. Ma non ci
si può accontentare né di Repubblica,
né di Di Pietro, anche se la sinistra ora è
fuori anche dal parlamento europeo. Nulla da dire, lo
meritava. Ma, a maggior ragione, occorrerà insistere
che solo intorno al lavoro potrà rinascere un
partito in grado di raccogliere un vero consenso.
MC,
9 giugno 2009.
Famiglia
Cristiana
L’analisi del voto effettuata sui dati finali
riserva qualche sorpresa. Un anno fa, il Pdl aveva preso
oltre 13.600.000 voti, il 37,4%. L’altro ieri
ha mantenuto una percentuale di poco inferiore (35,3%)
pur avendo
avuto 10milioni e 800mila voti. Quasi 3 milioni in meno.
Peggio ha fatto il Pd, che un anno fa era stato scelto
da 12.092.000 italiani, il 33,2%. Domenica ha «tenuto»
con il 26,1%, ma con soli 8 milioni di voti: in 12 mesi
4 milioni di voti in meno. E veniamo ai «trionfatori».
La Lega ha guadagnato in un anno appena 100 mila preferenze,
ma 1,9 punti (dall’8,3 al 10,2%). Molto meglio
ha fatto l’Italia dei valori, che ha raddoppiato
le percentuali (dal 4,4 all’8%) con 800mila voti
in più. Poi c’è il caso singolarissimo
degli «sconfitti di successo». La Lista
comunista un anno fa era parte dell’Arcobaleno,
così come la maggior parte dei componenti di
Sinistra e libertà. Tutti insieme presero il
3,1% con 1.124.000 voti. Fuori dal parlamento, anche
da separati, i comunisti hanno guadagnato 1 milione
e 38mila preferenze, mentre Sl 958mila. Una marea, in
una tornata dove sono rimasti a casa oltre 5 milioni
di persone. Segno che c’è un popolo numeroso
e vivo, ma una classe politica «radicale»
incapace sia di rappresentarlo che di organizzarlo.
Il
giudizio politico sull’esito del voto resta negativo;
quello sugli spostamenti sociali, invece, merita di
essere rivisto. E rapidamente, pena il confondere con
interpretazioni depressive un popolo già incline
allo smarrimento.
Poche considerazioni numeriche aggiuntive. Già
prima del voto i pubblicitari e i sondaggisti calcolavano
un’astensione oscillante tra il 3 e il 5% nel
solo campo berlusconiano. La previsione si è
rivelata esatta, semmai addirittura ottimistica. La
folla che ha abbandonato per ora il Cavaliere è
fatta di cattolici. Su di essi Repubblica non ha alcuna
influenza siginificativa. Mentre c’è un
giornalino che nessuno di noi legge, ma che da settimane
sta facendo polpette di ogni ambizione di Silvio. Viene
venduto in 800.000 copie ogni settimana, all’interno
di tutti i recinti parrocchiali. Si chiama Famiglia
Cristiana.
La politica, se si tiene di vista l’insieme e
non i desideri del “ceto medio riflessivo”
di area democratico-progressista, risulta un po’
più complessa e non riconducibile allo schema
moralistico semplificante legalità-illegalità.
Casimiro,
9 giugno 2009.
Sia
detto una volta per tutte.
Il problema non è Berlusconi.
Semmai, risulta essere la necessaria, tragica
soluzione.
Il problema è l'Opposizione.
Il giorno stesso in cui, anziché rivendicare
la politica del governo Prodi che l'aveva propiziato,
sputava nel ricco piatto offerto da Gheddafi, quello
stesso giorno diciassette "democratici", collusi
con la Mafia, votavano con la maggioranza - un voto
al Governo, che aveva posto la fiducia - a favore del
ddl sulle intercettazioni.
Tutto questo, nei giorni in cui ci si compiaceva delle
celebrazioni bipartisan (Alemanno, Fini) di Enrico Berlinguer,
il "comunista" passato alla storia come "quello
della questione morale", ma soprattutto come colui
che offerse il collo al compromesso storico, che chiamarlo
errore strategico è un eufemismo come chiamare
transizione il suicidio.
Quell'errore strategico di trenta anni fà, è
stato reiterato con il PD. Ma non sarà la Serracchiani
a salvarlo. Ci si augura.
O.,
13 giugno 2009
Una
notizia buona e una cattiva
Il
primo elemento è che per la prima volta in Italia
la percentuale dei votanti è scesa sotto al 70%
in una elezione generale. Rispetto alla percentuale
di voto attesa, il calo è del 3,4%. In realtà,
però, l'alto astensionismo è stato determinato
da poche regioni, che sono la Sicilia, La Sardegna,
la Calabria, il Molise e la Campagna. In Toscana, Umbria
e Marche la partecipazione è stata addirittura
superiore alle attese. Rispetto alle elezioni europee
del 2004, i voti validi sono diminuiti di 1,9 milioni
(6%); rispetto alle politiche dello scorso anno si sono
persi 5,9 milioni di voti validi, il 16%. Rispetto alle
Europee, i partiti della sinistra radicale hanno perso
1,4 milioni di voti, ma ne hanno guadagnati 650mila
rispetto alle politiche. Il Pdl ha guadagnato 231mila
voti rispetto alle europee, ma ne ha persi 2,9 milioni
rispetto alle Politiche.
La buona notizia è che il Pdl non ha raggiunto
il 40% dei voti, come aveva dichiarato alla vigilia.
La cattiva è che le elezioni europee non sono
le politiche. Il Pdl, e in particolare Berlusconi, ha
sempre dimostrato di saper mobilitare il proprio elettorato
durante le politiche, elezioni alle quali sono comunque
più interessati gli elettori rispetto alle europee,
che in alcuni paesi (per esempio Repubblica Ceca, Slovacchia)
porta alle urne non più del 20% degli aventi
diritto. Non sono convinto, come ha scritto qualche
osservatore, che in Italia ogni elezione assume una
connotazione politica. In altre parole, le europee non
sono state un test attendibile per capire il polso del
paese. I risultati delle amministrative, che in alcune
città si discostano di molto da quelli delle
europee, ne sono una prova ulteriore.
Il problema che ci troviamo di fronte, però,
non è stato risolto. Berlusconi è sempre
lì e vuole arrivare al Quirinale. Si deve impedire
che ciò accada. Per fare ciò servirebbe
un'opposizione vera, che però ancora non abbiamo
perché la classe dirigente del centro sinistra
e della sinistra radicale non è mai cambiata.
Sono mutati i nomi, ma le persone sono le stesse di
circa venti anni fa. Cercare oggi l'unità delle
sinistre è un'utopia irrealizzabile. Ha ragione
Asor Rosa a rievocare il 2005. Ma se non si è
riusciti allora, perché insistere oggi? Servirebbe,
invece, una unità democratica che abbia come
unico scopo quello di fermare l'ascesa di Berlusconi
al Quirinale. Realizzato questo, ripulito il paese dai
piduisti e dagli eversori del Pdl, ci si conterà
a sinistra e si vedrà allora con chi stare e
come stare. Bertinotti, che si è rivelato sempre
la persona sbagliata nel posto giusto, dovrebbe essere
radiato da ogni qualsivoglia formazione della sinistra.
Che se lo prendano quelli del Pd, se ancora esisteranno.
MC,18
giugno 2009.
L'amore,
come la guerra, si fa in due
Numeri
compresi, il discorso si riduce all'auspicio di una
grande unità antifascista.Il che è in
parte un'ovvietà, in parte una pia illusione.
veniamo infatti
da un biennio di governo Prodi che è stato esattamente
questo (maggioranza per 24.000 voti...), riuscendo a
dimostrare che il problema riguarda non le sommatorie
elettorali, ma la composizione della società
italiana, gli
interessi strutturati esistenti, le capacità
della politica di
rappresentarle. Se quell'"unità" si
è sciolta come neve d'agosto non dipende solo
da una classe politica "vecchia", ma dall'impossibilità
– nelle condizioni date – di resuscitare
una sorta di "patto tra produttori" in grado
di mettere all'angolo il "patto tra corruttori
e concussori".
Dipende insomma dalla natura dell'imprenditoria italiana,
che non è ancora
riuscita a diventare e a costruirsi come "classe
generale" e quindi tende, in ogni fase critica,
a massimizzare i benefici economici immediati per sé
a scapito della forza lavoro. Senza alcuna mediazione,
anzi cercando di spazzar via gli istituti storici della
mediazione (il sindacato, in primis).
S e si allontana per un attimo lo sguardo dalle colonne
dei numeri post-elettorali, e quindi anche l'idea un
po' semplicistica della somma che magicamente rovescia
l'indirizzo del paese, si vede che esistono processi
profondi che non si ricompongono – per ora –
sul piano
partitico-elettorale perché certi interessi non
trovano modo di esser conciliati.
Non appare un paradosso evidente che la "sinistra"
meno "radicale" della storia italiana, la
più disponibile ai compromessi e alle contrattazioni
in perdita, tuttavia non sia riuscita ad esser compresa
in un asse sociale
solido da tradurre in maggioranza istituzionale?
L'amore, come la guerra, si fa in due.
Casimiro,
18 giugno 2009
L'egemonia
stenta a manifestarsi, gli interessi non si compongono,
le classi si frammentano. Più in particolare,
a sinistra, Bertinotti ci ha messo del suo, e così
assistiamo alla contrapposizione feroce delle due anime
che da sempre s-compongono la sinistra "radicale";
tra coloro che studiano Marx, come occasione per conoscere
il capitalismo e prevederne i futuri movimenti, e coloro
che vi scorgono la possibilità di dilatare la
propria coscienza individuale cogliendo le progressive
modificazioni della cultura e della società propiziate
dallo sviluppo del capitalismo. Che è in qualche
modo la contrapposizione di un marxismo come comunità
politica a uno come salotto letterario. Odramaster,
18 giugno 2009
Seguono
due sezioni: la prima si occupa di Veltroni
– a proposito, che fine ha fatto Veltroni?
– la seconda di salario. I due temi
sembrano molto distanti: ciò che li unifica,
forse, è la disposizione, di chi ha selezionato
i materiali, alla critica del linguaggio. |
ORRORE
PURO
Contemporaneamente
alla pubblicazione di Modello Roma. L'ambigua modernità
(a cura di Enzo Scandurra), articolata analisi della
politica veltroniana al comune di Roma, diversi e qualificati
collaboratori di Odradek [Felice
Accame, Marco
Clementi, Davide
Pinardi, Mario Lunetta, Sergio Giuntini
e Francesco Ranci]
si sono impegnati nell'analisi del veltronismo,
in particolare del discorso del Lingotto [vedi sotto].
Cioè, alla critica della Modernità veltroniana
– ovvero,
della sistematica del futile: il luccichio
delle vetrine, l’opacità dei poteri, l’invisibilità
del disagio – hanno fatto corrispondere una critica
più interna, che va alle radici del pensiero
veltroniano, se l'espressione non risulta azzardata.
Certo, qualcuno potrebbe osservare che si tratta di
«pezzi facili» e maramaldeschi di intellettuali
con gli studi giusti che si accaniscono sulla prosa
di un perito cameramen. Ma, si capisce, qui non si tratta
della puzza sotto il naso di chi ha fatto il liceo e
l’università, ma delle analisi di chi maneggia
il pensiero astratto a carico di chi produce immagini,
e con le quali intende raggiungere e poi gestire il
potere.
Si è molto insistito sul "ma anche"
per sottolineare l'ansia di composizione e attenuazione
dei conflitti. Ma il "ma anche" evoca
contrapposizione, e chissà quali possibili esiti.
Sarebbe più appropriato l'"e anche",
cioè la disposizione all'enumerazione indefinita.
Qualcuno in passato parlò di pensiero (e dàgli)
"tautoeterologico", cioè di pensiero
del "questo" e del "quello", di
dialettica diadica e compensativa. Se il pensiero ci
perde, però, la politica non ci guadagna. Industriali
e anche operai, e anche ricercatori, e anche generali,
e anche veline, e anche la moglie di, e anche casalinghe,
e anche un precario, ...
E
anche Malpensa... è di oggi, 21 marzo,
l'ennesima uscita compulsiva. L'hub ha da essere uno,
o Roma o Malpensa. Ma quando mai? Su, da bravi, non
litigate: un hub per ciascuno. Alla prossima...
Anziché
tuonare - come peraltro ha fatto Di Pietro che ha parlato,
quanto meno, di turbativa di mercato - contro l'Osceno
di Arcore che promette di bocciare il piano
Air France una volta Presidente del Consiglio proponendo
nel contempo i suoi figli come acquirenti di Alitalia,
l'Insulso capitolino abbassa i toni.
Ha perso.
È
passato un angioletto e ha detto amen.
COMMENTI
AL DISCORSO DEL LINGOTTO
Felice
Accame, Marco Clementi,
Davide Pinardi, Mario Lunetta, Sergio Giuntini e Francesco
Ranci
si sono impegnati nell'analisi del discorso torinese
di Walter Veltroni. A questi interventi aggiungiamo
le lettere di C.G.Dekodra, sempre attento ad evitare
che la critica scada a satira e a vaudeville.
# # #
Tandem La leader da affiancare a Veltroni
alla guida del nascente Partito democratico potrebbe
essere
"donna" Assunta Almirante. Ha infatti dichiarato
recentemente di non essere mai stata fascista. Proprio
come Veltroni che volle assicurare di non essere mai
stato comunista. MC
# # #
Cari Odradekki, il tono leggero da voi usato, magari
satirico, nei confronti di questa neoformazione politica
– il veltronismo, intendo – è pericoloso
e mistificante. L’ha capito un conservatore intelligente
come Sergio Romano che ha firmato il 2 novembre un editoriale
del Corriere della sera. Relativamente al fattaccio
di Tor di Quinto, ha rilevato sia la gravità
del comportamento del governo – che trasforma
un disegno di legge in decreto legge sotto la spinta
di un fatto di cronaca, “uno dei tanti che affollano
le statistiche criminali di qualsiasi Paese europeo”
–, sia la pericolosità delle dichiarazioni
di Veltroni – “il pericolo romeno”
– riguardo al rafforzamento di “prevenzioni
ingiuste e pregiudizi xenofobi”. Come conseguenza,
in un quartiere della periferia romana, è scattata
la spedizione punitiva di una decina di fascisti contro
un gruppo di romeni.
Il Corriere della sera aveva salutato la nascita del
PD con un editoriale del suo direttore Paolo Mieli intitolato
“Il Partito americano” in cui naturalmente
si auspicava come leader il sindaco di Roma. Ora comincia
ad affiorare qualche dubbio.
Il comportamento di Veltroni, in effetti, preoccupa.
Poteva difendere la sua politica di chiusura dei campi
Rom, invece che un loro potenziamento. Certo era più
difficile giustificare lo stato del sistema ferroviario
metropolitano di Roma – la stazione di Tor di
Quinto è come una stazioncina del far West, ma
senza il telegrafista. Ha scelto invece di indicare
come capro espiatorio gli immigrati romeni. Un comportamento
talmente irresponsabile da preoccupare non solo i cattolici
(o i
valdesi), ma persino gli sprovveduti che ne hanno assecondato
la fortuna politica.
Un dirigente politico che grida “all’emergenza”
mutuando dalla parte formalmente avversa – cioè
Fini – analisi e rimedi, è inutile e inaffidabile
soprattutto per quei poteri che si è votato a
compiacere.
Estremista di centro, maniaco del giusto mezzo e della
plumbea mediocritas, concepisce la politica come consonanza
e quotidiano appiattimento alle irritazioni mediatiche.
Un ventriloquo sociale, praticamente una eco di fondo.
Un ripetitore, anziché un risolutore.
Gli elettori di sinistra lo ripagheranno certo della
medesima ostile estraneità da lui mostrata per
una certa tradizione. Ma appunto, l'insulsaggine politica
del tipo di mediazione da lui proposta finirà
per risultare evidente alla distanza. Proprio come accade
per i film di Benigni.
G.C. Dekodra
# # #
Cari Odradekki,
vorrei aggiungere una perla alla collana già
da voi confezionata con le pietre preziose del pensiero
veltroniano estratte dal discorso del Lingotto [Orrore
puro, vedi sotto].
Proprio ieri, in un'intervista al Corriere della sera,
il Signore del giusto mezzo si domanda: «Chi è
l'imprenditore?». «Un operaio che rischia»,
si risponde compiaciuto. Certo, specularmente, anche
l'operaio che rischia – la vita – è
un imprenditore, di se stesso.
C'è un progresso evidente nei confronti del «presidente
operaio» del guitto di Arcore, in cui l'ossimoro
era solo apparente – è possibile che un
operaio diventi presidente, e che un presidente torni
a fare l'operaio; qui i termini dell'opposizione sono
futilmente interscambiabili.
Il pericolo è che "Modello Roma" possa
diventare un canone per la logica del futuro. Altro
che dialettica, altro che, in subordine, logica dei
distinti.
Il rapporto tra l'Uno e l'Altro, la sua eventuale conflittualità,
viene risolto dichiarando che l'Uno È l'Altro,
senza residui.
G.C. Dekodra
#
# #
Glosse all'Orrore puro
Appunti di un collettivo di pensiero sul discorso
di Veltroni
«Io
qui oggi parlo non da uomo di partito e neanche da uomo
di parte. Parlo da italiano».
Sulle prime si potrebbe essere tentati di liquidare
la frase sulla base del semplice buon senso e dire "non
vuole dire niente". Ciascuno di noi, infatti, è
pienamente consapevole, ogni volta che parla - ma non
solo: ogni volta che percepisce qualcosa, prima ancora
di dire cos'è - di non poter essere altro che
"di parte". Veltroni, pertanto, sembrerebbe
semplicemente un tardivo spacciatore di neutralità
ingenuamente travolto dalle assonanze: "non di
partito", "non di parte".
Ma quando ci aggiunge che parla "da italiano"
quella dose di diritto all'indulgenza che siamo disposti
a concedere a chiunque svanisce d'incanto. C'è
un limite a tutto. E no che non vuole dire niente, dice
eccome. Dice, per esempio, che fra le argomentazioni
di un rappresentante del Partito Democratico trovano
posto argomentazioni che furono di Almirante e, prima
di lui, di chi ne ispirò l'azione più
e meno politica. L'italianità come qualcosa di
meno di parte dell'essere di parte e l'italianità
come punto di vista al vertice dell'interscambiabilità
di tutti i punti di vista possibili. La nostra fiducia
nell'aria fritta, insomma, ancora una volta risulta
mal riposta. Nulla di volatile, tutto destinato a stagnare,
marcendo. E infettando.
Felice Accame
#
# #
Il Partito democratico, afferma Veltroni, indica nel
nome «un'identità che si definisce con
la più grande conquista del Novecento: la coscienza
che le comunità umane possono esistere e convivere
solo con la libertà individuale e collettiva,
con la piena libertà delle idee e la libertà
di intraprendere. Con la libertà intrecciata
alla giustizia sociale e all'irrinunciabile tensione
all'uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire
garanzia delle stesse opportunità per ognuno».
Si tratta di un passaggio ingannevole perché
gioca sul significato che ognuno può dare alla
parola “libertà”. La libertà
individuale e quella collettiva sono infatti spesso
in conflitto, la giustizia sociale non sempre si coniuga
con la libertà di “intraprendere”
(fare impresa), mentre le “stesse opportunità”
sono quelle di “partenza”. E’ lo scioglimento,
neanche troppo originale, dell’americano “diritto
individuale alla felicità”. Esso, come
sappiamo, si è esteso dall’individuo alla
comunità americana, che ha diritto a essere felice.
Al di là del bene e del male. Al di là
della felicità delle altre comunità.
Marco Clementi
#
# #
Le sorgenti del pensiero politico
di Walter
Parte Prima – Politica interna
di Davide Pinardi
Walter Veltroni
L'Italia deve recuperare in pieno …il senso di
un'appartenenza comune, il senso profondo di essere
una nazione. Una nazione unita. Un solo popolo. Una
sola comunità. Non ci sono due Italie, c'è
un'Italia sola. Non c'è un "noi" e
non ci sono "gli altri", quando si parla degli
italiani. E non ci può essere "noi"
e "gli altri" nemmeno quando si tratta del
rapporto tra fede e laicità. La cosa peggiore
che il Paese potrebbe avere in sorte è la contrapposizione
esasperata tra integralismo religioso e laicismo esasperato…
No, non può essere. La risposta è nella
sintesi…
Walter Cotugno
Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano
lasciatemi cantare
sono un italiano
Buongiorno Italia gli spaghetti al dente
e un partigiano come Presidente
con l'autoradio sempre nella mano destra
e un canarino sopra la finestra
Buongiorno Italia con i tuoi artisti
con troppa America sui manifesti
con le canzoni con amore
con il cuore
con piu' donne sempre meno suore
Buongiorno Italia
buongiorno Maria
con gli occhi pieni di malinconia
buongiorno Dio
lo sai che ci sono anch'io
Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano
lasciatemi cantare
una canzone piano piano
Lasciatemi cantare
perche' ne sono fiero
sono un italiano
un italiano vero
Buongiorno Italia che non si spaventa
e con la crema da barba alla menta
con un vestito gessato sul blu
e la moviola la domenica in TV
Buongiorno Italia col caffe' ristretto
le calze nuove nel primo cassetto
con la bandiera in tintoria
e una 600 giu' di carrozzeria
Buongiorno Italia
buongiorno Maria
con gli occhi pieni di malinconia
buongiorno Dio
lo sai che ci sono anch'io
Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano
lasciatemi cantare
una canzone piano piano
Lasciatemi cantare
perche' ne sono fiero
sono un italiano
un italiano vero
La la la la la la la la...
Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano
lasciatemi cantare
una canzone piano piano
Lasciatemi cantare
perche' ne sono fiero
sono un italiano
un italiano vero
Walter Storia Tesa
Fufafifi' fufafifi' Italia evviva. Italia perfetta,
perepepe' nanananai. Una pizza in compagnia, una pizza
da solo: in totale molto pizzo, ma l ' Italia non ci
sta. Italia si' Italia no, Italia si'
ue' , Italia no ,ue' ue' ue' ue' ue'.
Perche' la terra dei cachi e' la terra dei cachi. No.
Walter De Gregori
Viva l'Italia
l'Italia liberata
l'Italia del valzer
l'Italia del caffè
l'Italia derubata e colpita al cuore
viva l'Italia l'Italia
che non muore.
Viva l'Italia
presa a tradimento
l'Italia assassinata dai giornali e dal cemento
l'Italia con gli occhi asciutti nella notte scura
viva l'Italia
l'Italia che non ha paura.
Viva l'Italia
l'Italia che sta in mezzo al mare
l'Italia dimenticata
e l'Italia da dimenticare
l'Italia metà giardino e metà galera
viva l'Italia
l'Italia tutta intera.
Viva l'Italia
l'Italia che lavora
l'Italia che si dispera
e l'Italia che s'innamora
l'Italia metà dovere e metà fortuna
viva l'Italia
l'Italia sulla luna.
Viva l'Italia del 12 dicembre
l'Italia con le bandiere
l'Italia povera come sempre
l'Italia con gli occhi aperti nella notte triste
viva l'Italia
l'Italia che resiste
Le sorgenti del pensiero politico di Walter
Le
sorgenti del pensiero politico di Walter
di Davide Pinardi
Parte
Seconda – Politica estera
Walter Veltroni
… Non credo si possa pensare ad una grande organizzazione
mondiale delle forze di progresso che non racchiuda
dentro di sé i democratici americani…
Walter Kennedy
…Lo sbarco nella Baia dei porci fu l'inizio del
tentativo di invasione; ideata durante la presidenza
di Eisenhower, l'operazione fu autorizzata dal suo successore
Kennedy. A suggerire l'opportunità dell'attacco
erano stati i servizi segreti degli Stati Uniti, decisi
a riportare l'isola sotto la propria sfera d'influenza.
Castro, succeduto al filo-americano Batista, aveva infatti
nazionalizzato banche, società e casinò,
ostacolando gli interessi statunitensi e avvicinandosi
– con lo scambio zucchero per petrolio –
all'Unione Sovietica e argomentando a favore di una
possibile aggregazione di stati centro e sud-americani.
( Wikipedia )
Walter Johnson
… Il coinvolgimento degli USA nella guerra fu
graduale, con personale militare che arrivò già
nel 1950. Il coinvolgimento militare incrementò
lungo il corso degli anni sessanta e sotto successivi
presidenti, sia democratici che repubblicani ( Eisenhower,
Kennedy, Johnson, e Nixon), nonostante gli avvertimenti
del comando militare statunitense contro una grossa
guerra di terra in Asia. Non ci fu mai una dichiarazione
formale di guerra, ma ci furono una serie di decisioni
presidenziali che incrementarono il numero di "consiglieri
militari" nella regione.
Nella campagna per la presidenza del 1960, la percepita
minaccia sovietica e l'erosione della posizione statunitense
a livello mondiale furono una questione prominente e
Kennedy ne fece uno dei principali argomenti della campagna
Gli sforzi dell'amministrazione Kennedy per contenere
il Vietnam del Nord avvennero simultaneamente agli sforzi
di ammodernare il regime del Sud. Kennedy era fortemente
convinto che il Vietnam del Sud fosse una nazione stabile
e democratica, e screditò ampiamente il Nord
e la sua retorica comunista… Kennedy venne accusato
di essere troppo ingenuo e utopico nel suo convincimento
che i valori americani potessero essere importati istantaneamente
da un altro paese, indipendentemente dalla sua cultura
o storia.
… Tre settimane dopo la morte di Di?m, Kennedy
stesso venne assassinato e il vice presidente Johnson
venne improvvisamente spinto a interpretare il ruolo
principale della guerra. L'appena insediato Presidente
Johnson confermò, il 24 novembre 1963, che gli
Stati Uniti intendevano continuare ad appoggiare il
Vietnam del Sud, militarmente ed economicamente.
Johnson alzò il livello del coinvolgimento statunitense
27 luglio 1964, quando altri 5.000 consiglieri militari
vennero inviati nel Vietnam del Sud, il che portò
il numero totale di forze statunitensi in Vietnam a
21.000.
Il 31 luglio 1964 l'incrociatore americano USS Maddox
riprese una missione di ricognizione nel Golfo del Tonchino,
che era stata sospesa per sei mesi. Lo scopo della missione
era di provocare una reazione da parte delle forze della
difesa costiera nordvietnamita, da usare come pretesto
per una guerra più ampia. Rispondendo ad un presunto
attacco, e con l'aiuto della vicina portaerei USS Ticonderoga,
la Maddox distrusse un torpedinere nordvietnamita e
ne danneggiò altri due. La Maddox soffrì
solo un danno superficiale causato da un singolo proiettile
di mitragliatrice da 14,5 mm… ( Wikipedia )
Walter Clinton
Avevano promesso che avrebbero colpito i loro nemici
ovunque nel mondo. E puntualmente l'hanno fatto. In
una sera quasi senza luna, le forze armate americane
hanno attaccato simultaneamente - alle 19 e 30, ora
italiana - installazioni terroristiche in Afghanistan
e Sudan collegate allo sceicco saudita Osama Bin Laden….
A due giorni dal novilunio, poco dopo le sette di sera
di ieri, Bill Clinton ha rotto gli indugi e ha dato
l'ok. L'azione, condotta con cacciabombardieri e missili
da crociera Tomawak, non più di un centinaio,
lanciati da sei navi e un sottomarino dal Mar Rosso
e dal Golfo Persico aveva nel mirino rispettivamente
un'area in Afghanistan al confine con il Pakistan e
una fabbrica di armi chimiche in Sudan, ad Omdurman,
la città gemella di Khartoum sulla riva destra
del Nilo.
In Afghanistan le bombe Usa hanno colpito sei istallazioni
che servono come campi di addestramento di terroristi
nella regione collinosa del paese, a Khost, a un chilometro
dal confine pakistano nei pressi del Passo Khyber -
dove si stavano addestrando secondo fonti Usa 600 soldati
di Allah -e a Jalalabad, dove ha la sua base Bin Laden,
che però era al sicuro in Pakistan.
E proprio il Pakistan ha fatto sapere di non aver avuto
alcun preavviso dell'attacco aereo americano né
richieste di autorizzazioni di sorvolo del proprio territorio.
Secondo i pakistani il loro spazio aereo è stato
attraversato da 16 aerei da guerra americani, F15 e
F111, decollati da una base ignota, a 12 mila metri
di quota.
In Sudan invece l'attacco aveva come obiettivo la Shifa,
un impianto farmaceutico governativo che, secondo la
Difesa di Washington, nascondeva una fabbrica di armi
chimiche. "Dalla Shifa, che sorge nelle vicinanze
della confluenza fra il Nilo Bianco ed il Nilo Azzurro,
escono precursori chimici del gas nervino VX, un agente
mortale utilizzabile a scopo militare", ha affermato
un funzionario dei servizi d'informazione statunitense,
secondo il quale non risulta che in quell'impianto,
protetto da siepi di filo spinato, sorvegliato dall'esercito
e controllato dal governo, fossero prodotte anche medicine.
Secondo le autorità di Washington, quell'impianto
si trova all'interno di un complesso industriale e non
in una zona residenziale, per cui la perdita di vite
civili nell'attacco aereo di ieri dovrebbe essere ridotta
"proprio al minimo".
Non la pensano così le autorità sudanesi
che hanno duramente protestato definendo quel bombardamento
un "atto criminale", uno sanguinario diversivo
per stornare l'attenzione dell'opinione pubblica americana
e internazionale dalla vicenda Lewinsky. Quella fabbrica,
secondo quanto il ministro dell'Interno, Abdel- Raheem
Mohammed Hussein ha dichiarato alla Cnn - era solo un'
innocua fabbrica di medicinali. "Ma quali armi
chimiche e gas nervini - ha detto Hussein - Non produciamo
niente del genere nel nostro paese".
Il ministro dell'Informazione sudanese Ghazi Salah-Eddin
ha accusato Clinton di avere predisposto l'azione per
far dimenticare lo scandalo sessuale in cui è
coinvolto… Il governatore della città Majthob
al-Khalifa ha informato che l'impianto colpito, di proprietà
privata, è stato totalmente distrutto e che numerose
persone che vi lavoravano sono rimaste ferite. Senza
contare che mancano all'appello alcuni operai che si
teme siano rimasti intrappolati nella fabbrica in fiamme.
( la Repubblica, 21 agosto 1998)
"Unita, moderna e giusta"
di Mario Lunetta
Un solo aggettivo, dopo la lettura del veltroniano discorso
“Un’Italia unita, moderna e giusta”:
disarmante. A partire dal titolo che stringe nella sua
genericità tre aggettivi applicabili a qualsiasi
sostantivo (che so, una squadra di calcio, un’azienda,
un sodalizio di giocatori di bingo, ecc.), e conta assai
più delle trentanove pagine in cui si distende
un progetto che gronda miele da ogni riga: quindi, appunto
per questo non è un progetto, ma una predica.
Nel discorso di Veltroni è assente l’Italia
reale, il suo orrendo sistema di sfruttamento del lavoro
e di distribuzione della ricchezza fondato su una logica
mafiosa, e aleggia solo il profilo di un sogno. Tramontato
pour cause l’ammaliante Sogno Americano, bisogna
ripiegare sul Sogno Italiano: e per farlo è necessario
mescolare le carte, fare un gioco trasversale, fingere
che davvero le classi sociali siano estinte e gli interessi
turpemente consolidati siano un piccolo ostacolo da
rimuovere a colpi di buona volontà.
Un difetto di cultura, non solo politica. Un difetto
di analisi e, si sarebbe detto in altri tempi, di scientificità.
Più che altro, un sermone. Mi chiedo: cosa onestamente
significhi questo passaggio: «L’Europa è
andata a destra, in questi anni, perché la sinistra
è apparsa imprigionata, salvo eccezioni, in schemi
che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice,
ideologica e chiusa. Ad una società in movimento,
veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti,
si è risposto con la logica dei ‘blocchi
sociali’ e della pura tutela di conquiste la cui
difesa immobile finiva con il privare di diritti fondamentali
altri pezzi di società». Non sfiora la
mente di Veltroni che probabilmente, “in questi
anni”, s’è imposto con spregiudicata
durezza un “modello giungla” di spietata
deregolazione dei conflitti che ha spazzato via le parti
più deboli della società e messo in angolo
i sindacati. E’ stato chiamato, con geopolitico
neutralismo, globalizzazione: e la sinistra non ha fatto
troppo il proprio mestiere, lo ha fatto semmai troppo
poco.
Il passaggio sulla cultura nazionale sembra l’osservazione
di un turista marziano alquanto distratto. Veltroni,
uomo dei sogni, evita di confrontarsi con la rugosa
realtà. Ma riesce a vedere, lui che anche per
ragioni di studi tanto ama il cinema, in quale stato
è ridotto il nostro cinema? E il nostro teatro?
E la nostra televisione? E la nostra letteratura che,
ringraziando la grossa editoria commerciale, butta fuori
soltanto thriller dozzinali e romanzetti di genere?
Riesce a vedere, il superCandidato del Partito Democratico,
com’è ridotta la nostra scuola e in quali
condizioni galleggia la nostra Università?
Ancora, parlando di sicurezza dei cittadini: «La
sicurezza è un diritto fondamentale che non ha
colore politico, che non è né di destra
né di sinistra. Chi governa ha il dovere di fare
di tutto per garantirla». Mi chiedo: se non è
né di destra né di sinistra, di cosa è?
Di aria fritta, ovviamente. Quando sento dire che qualcosa
non è né di destra né di sinistra
in una società che, anche col Partito Democratico,
non cesserà di essere divisa in classi, sono
sicuro che è di destra, semplicemente.
Finisco. Il nostro punta su «Una politica sincera,
pragmatica, ancorata ai suoi valori, non ideologica.
E che contribuisca a voltare pagina in Italia».
Qui siamo al catechismo dell’insensatezza. Una
politica sincera come l’amore della nota canzone,
pragmatica come insegna l’esperienza americana,
ancorata ai suoi valori che somigliano tanto a magrittiani
abiti senza corpo, infine non ideologica. Ecco, il dado
è finalmente gettato. E’ un dado “democratico”,
ma Walter Veltroni ignora (limiti culturali) che il
rapporto tra ideologia e linguaggio è sempre
strettissimo. Ergo…
Mario Lunetta
IL LIBRO “CUORE” DEL VELTRONI TORINESE
di Sergio Giuntini
Se un merito va riconosciuto al discorso con cui Walter
Veltroni si è candidato nella capitale della
FIAT, omaggiandone il suo munifico tempio, il “Lingotto”,
alla guida del Partito Democratico, questo consiste
senz’altro nella sostanziale coerenza di “buono”
a ogni costo e nell’insostenibile leggerezza,
ribadita nell’occasione, del suo “pensiero
debole”.
Non ce ne voglia Vattimo, che crediamo non abbia granché
esultato all’ora e mezza abbondante di veltroniane
parole pronunciate nella sua Torino.
E proprio da qui, dal luogo prescelto per “scendere
in campo” (da buon juventino, che come primo cittadino
di Roma non disdegna però fare anche un poco
il romanista e il laziale all’occorrenza, a Walter
non spiacerà questa espressione rubata al vocabolario
calcistico del suo prossimo, più agguerrito “competitor”),
occorre partire. Scegliendo la città della Mole
ci si immagina ricorra, nell’attesissimo testo
di autoinvestitura, qualche riferimento al alcuni “padri
nobili” della cultura politico-filosofica torinese:
per limitarci a tre nomi: Gramsci-Gobetti-Bobbio. Quelli
che menzionano tutti, o quasi, per far bella figura
o perché davvero li conoscono.
Invece NO. L’ineffabile Walter non cade nel tranello,
e nel passare puntualmente al setaccio il suo discorso
è abbastanza interessante e sconcertante insieme
annotare l’elenco dei suoi citati.
Questa la classifica finale: Prodi Romano (da solo e
con governo annesso) 7 volte. Draghi Mario 2. Napolitano
Giorgio 2. De Gasperi Alcide 1. Fassino Piero 1. Rutelli
Francesco 1. D’Alema Massimo 1. Ciampi Carlo Azeglio
1. Palme Olof 1. Salvati Michele 1. Scoppola Pietro
1. Foa Vittorio 1. D’Antona Massimo 1. Biagi Marco
1. Pezzotta Savino 1. Piano Renzo 1. Chiamparino Sergio
1. Zagrebelsky Gustavo 1.
Come s’evince d’acchito, il più chiamato
in causa è quel Prodi che il “bravo ragazzo”
Veltroni s’appresta, dopo il 14 ottobre, a fare
fuori.
Sullo stesso piano (non Renzo, che si guadagna una “nomination”
soltanto) il presidente della Banca d’Italia e
il presidente della Repubblica. Un ex-aequo un po’
inquietante, anche se a decretarlo è una santa
persona, apprezzata a destra e “sinistra”,
come Veltroni.
D’Alema riecheggia in un unico caso e il Sindaco
dell’Urbe lo fa per ringraziarlo della guerra
in Kosovo: «In quegli anni assumemmo anche con
Massimo D’Alema, il compito di interpretare un
ruolo attivo dell’Italia nei momenti più
aspri delle violazioni dei diritti umani nei Balcani.
Un’Italia che non voltava lo sguardo dall’altra
parte. Un’Italia che accettava e sosteneva la
lotta, riuscita, per sconfiggere la logica della superiorità
etnica che stava riportando il cuore dell’Europa
nel baratro delle fosse comuni».
E via di questo passo, risparmiandoci solo per la carità:
l’«abbiamo spezzato le reni dalla Serbia».
Più stringato e meno appassionato il tributo
reso a De Gasperi seduto alla Conferenza di pace di
Parigi: “Tutto, tranne la vostra personale cortesia,
contro di me”.
Laddove, con questa frase sibillina rilanciata da W.
V., il presidente democristiano del consiglio allora
in carica tentava d’impietosire il mondo e portare
a casa quel Piano Marshall che gli USA non ci regalarono
esattamente a “parametro zero”.
Laconico, e francamente alquanto banale, pure lo sfoggio
di cultura derivato da Olof Palme. La battaglia da sostenere
“non è contro la ricchezza, è contro
la povertà”.
Sarà anche così, ma aggirandosi per l’Italia
un tal Berlusconi – mai direttamente evocato in
tutta la sua orazione – un minimo di battaglia
alla ricchezza forse non stonerebbe. Chissa?
D’altronde che Walter guardi ai ricchi con un
certa deferenza e riguardo è sufficientemente
attestato dalla sua cordiale amicizia con il signor
Confindustria: Luca Cordero di Montezemolo, il quale
scommettiamo sarà, il 14 e pure in futuro, tra
i suoi influenti “grandi elettori”.
Comunque sia, la palma del più lungamente citato
spetta a Zagrebelsky. Un passo da fine giurista di cui
Veltroni s’è appropriato sperando di convincere
gli ultimi indecisi della bontà, appunto puramente
giuridica non sostanziale, del concetto di democrazia
borghese, e, per estensione, della validità del
progetto Partito Democratico di cui egli quel giorno
diventava l’aspirante leader carismatico: «Pensando
e ripensando non trovo altro fondamento della democrazia
che questo: il rispetto di sé. La democrazia
è una forma di reggimento politico che rispetta
la mia dignità, mi riconosce capace di discutere
e decidere sulla mia vita pubblica. Tutti gli altri
reggimenti non mi prestano questi riconoscimento, mi
considerano indegno di autonomia fuori della cerchia
delle mie relazioni puramente private e familiari. La
democrazia è, tra tutti, l’unico regime
che si basa sulla mia dignità in questa sfera
più ampia[…] Essere democratici vuol dire
assumere nella propria condotta la democrazia come ideale,
come virtù da onorare e tradurre in pratica».
Insomma: altro che Gramsci-Gobetti-Bobbio, la torinesità
del pensiero veltroniano riconduce oggi, estate 2007,
alla linea strategica Chiamparino-Fassino-Zagrebelky
(Foa di riserva in panchina). Con l’ultimo del
terzetto titolare a conferire quella spruzzata di inappellabile
autorevolezza che è impossibile non assegnare
a un cognome tanto impegnativo e praticamente “impronunciabile”
da uno di quegli operai FIAT che al Lingotto, se c’erano,
probabilmente battevano le mani.
Ma per non farsi (farci) mancare niente, l’impareggiabile
Walter, verso la fine, si è concesso pure un
tocco di Jovanotti: “un Paese che pensa positivo”
(sic!).
E da ultimo il suo capolavoro: Edmondo De Amicis, lui
sì socialista umanitario e torinese autentico,
resuscitato in una sorta di remake del libro “Cuore”,
utilizzando, al suo posto, le parole d’una ragazza
“pensate e scritte solo due mesi prima di morire,
in una lettera indirizzata ai suoi genitori nei giorni
di Natale”.
Da un “buonista” come Veltroni questa botta
di cinismo alla Garrone davvero non ce l’aspettavamo.
Improntato a tanto “basso profilo”, il suo
discorso poteva terminare sul medesimo tono. D’altro
canto nessuno, neanche il nostro Walter, è proprio
sempre, immutabilmente, perfetto.
Sergio Giuntini
CONTRADDIZIONI MOOLTO DEMOCRATICHE di
Francesco Ranci
Lo spettro della contraddizione inizia ad aleggiare
fin dalle prime righe del discorso di Veltroni. Partenza
di slancio, verso un vagheggiato futuro, “fare
un’Italia nuova”. E riflusso nostalgico
di un fantomatico passato, “farla sentire di nuovo
una grande nazione”. Passiamo alla realtà
di tutti i giorni… che è meglio.
“Oggi, in una società immobile - lamenta
il Sindaco di Roma -, a pagare il prezzo più
alto sono i nostri ragazzi, che prima dei venticinque-trent’anni
non entrano nel mondo del lavoro”. Parole sante
! Ma attenzione che la società immobile può
cedere il posto a “una società in movimento,
veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti”,
che addirittura “costringe” il nascente
Partito democratico, secondo il suo leader, a “soddisfare
il bisogno di libertà e di fluidità sociale
di ceti sempre più mobili”… Eravamo
al fisso o al mobile ? Non si è capito se la
“società” è un bene mobile
o immobile. Ricominciamo da capo.
“La distanza tra chi sta molto bene e chi sta
molto male, in Italia, non accenna a diminuire”.
Se lo dice l’ISTAT, per Veltroni è oro
colato, nonostante l’inflazione da Euro. In realtà,
come tutti possono constatare, la distanza va aumentando…
altro che diminuire. Comunque, “sia chiaro - è
chiaro? Per Veltroni deve essere chiaro - che il primo
compito del nascente Partito democratico è il
pieno, coerente e deciso sostegno all’azione del
Governo Prodi”. Giusto. Però, peccato.
Sarebbe bastato un “accenno” e Prodi avrebbe
potuto ottenere un appoggio addirittura “entusiasta”.
D’altra parte, sarà contento di ricevere
un appoggio “pieno, coerente e deciso”,
e soprattutto gratis.
Insomma (adesso basta !): “il Partito democratico
(…) nasce avendo dentro di sé l’eredità
di quelle formazioni che (…) hanno fatto crescere
l’Italia e gli italiani”. Sarà “un
partito aperto”, “che si propone, perché
vuole e ne ha bisogno, di affascinare (…) quei
milioni di italiani che trovano la politica chiusa (…)”.
Trovano la politica chiusa come mai ? Forse non li hanno
fatti crescere abbastanza ! Qui Walter bisogna rivedere
qualcosa… Pur di “affascinare” (non
provi nemmeno a convincere), sacrifichi due valori irrinunciabili
per la sinistra, ma evidentemente non per te e i tuoi
amici, la coerenza e la credibilità.
Francesco Ranci
Discorso
integrale di Veltroni
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DIBATTITO
SUL SALARIO E
ALTRI REDDITI
[Dopo
l'analisi del nostro Casimiro riportiamo
l'articolo satirico del Fumagalli che l'ha provocata.
Più sotto si possono trovare altre produzioni
della compagnia di giro negriana che fa teatro sociopsicoeconomico;
a quell'antologia si aggiunga quest'ultima performance
del Fumagalli]
Siamo
nel capitalismo cognitivo? E allora studia!
Quel
vecchio burlone di Andrea Fumagalli ne ha fatta un’altra
delle sue. Su il manifesto del 1 febbraio
ha pubblicato un pezzo chiaramente satirico, scritto
– come spesso gli accade di fare – in tono
generale molto serioso, ma con svolazzi di fantasia
che dovrebbero essere rivelatori dell’intenzione
farsesca. Niente da fare, però. Solo pochi riescono
a capire che sta giocando e possono perciò apprezzare
la sottile ironia delle sue fanta-analisi para-economiche.
Fumagalli è infatti un esimio professore con
cattedra all’università di Pavia, una dependance
della Bocconi, dove certe bischerate negriane non si
possono davvero ammannire agli studenti senza rischiare
di perdere il posto e ritrovarsi scaraventato nel precariato
vero (non quello elitario e ridanciano di cui a volte
scrive anche lui). All’interno di quelle mura,
bisogna dire, il nostro Andrea sta decisamente alle
regole, sfornando modellini matematici e altre tecnicalità
obbligatorie nell’accademia degli economisti perbene.
Ma fuori di lì gli piace travestirsi da “economista
di movimento” e spara spiritosaggini irresistibili.
L’unico problema, ripeto, è l’ignoranza
degli astanti. Che lo prendono ridicolmente sul serio,
frustrandone le ambizioni comiche. Restituigliamogli,
perciò, la sua vera dimensione evidenziando i
segnali che prova a disseminare. Già la citazione
del“l’attuale tasso di disoccupazione (americano,
ndr) al 4%” avrebbe dovuto mettere sull’avviso.
E’ ormai al 5% da oltre un mese (prima stava al
4,6%), e un prof. di Pavia sa che in economia le cifre
vanno rispettate, altrimenti anche quel poco che questa
“scienza triste” ha da dirci diventa un
pastrocchio indigeribile.
Poi però cala l’asso, ricorrendo al vecchio
ma sempre divertente numero sul “capitalismo cognitivo”
che funzionerebbe in un modo tutto differente dal capitalismo
old style. Dice infatti addirittura che “Nell'odierno
paradigma del capitalismo cognitivo, i mercati finanziari,
lungi dall'essere il luogo della rendita parassitaria
improduttiva, sono il motore dell'economia. Essi rappresentano
il luogo dove, a un tempo, si valorizza la produttività
immateriale e cognitiva e si attua la privatizzazione
dei servizi sociali. I mercati finanziari assumono così
le veci del vecchio welfare keynesiano e realizzano
forme di redistribuzione indiretta dal capitale al lavoro,
gestendo in modo diretto e distorto le quote crescenti
di reddito da lavoro che ivi vengono canalizzate in
modo più o meno forzoso”.
Inanellare in così poche righe tante irresistibili
battute è cosa che lo eleva al rango dei commedianti
di razza. Vediamole perciò una per una.
Trovandoci nel “paradigma del capitalismo cognitivo”
(di cui un giorno qualcuno ci spiegherà in dettaglio
i pilastri paradigmatici, per ora del tutto ignoti al
genere umano), “i mercati finanziari, lungi dall'essere
il luogo della rendita parassitaria improduttiva, sono
il motore dell'economia”. In effetti l’economia
contemporanea è dominata dalla finanza. Su questo
non ci piove. Ma la finanza stessa non è mai
stata, in nessun tempo, “il luogo della rendita
parassitaria”. Con chi ce l’ha, dunque,
il buon Andrea? Forse con i keynesiani, di cui si ricorda
a malapena il deficit spending e – appunto –
la speranza nell’”eutanasia del rentier”.
Per Marx, al contrario, “capitale commerciale
per il commercio di denaro” e “capitale
produttivo di interese” svolgono una funione fondamentale
nel processo dell’accumulazione, consentendo quella
mobilità indispensabile al capitale che gli permette
di allocarsi là dove serve. Ma persino la rendita,
per Marx, è tutt’altro che “improduttiva”;
è infatti “la remunerazione della proprietà”
(così come il profitto è la “remunerazione
dell’imprenditore” e il salario “la
remunerazione del lavoratore”). Insomma è
necessaria e ineliminabile perché in ambiente
capitalistico non ci possono essere risorse che non
vengano trattate come merci vendibili o affittabili.
Per questo la terra e tutto ciò che sta sotto
di essa (le risorse naturali, riproducibili e non, come
carbone, petrolio e metalli) devono essere posseduti
da qualcuno che ne fa oggetto di commercio. Che li mette
insomma sul mercato. Andrea, dunque, dovrebbe avercela
con i keynesiani, anche se di solito il suo bersaglio
sono i “vetero-marxisti”.
Ma andiamo avanti.
Questi mercati finanziari moderni sarebbero ora “il
luogo dove, a un tempo, si valorizza la produttività
immateriale e cognitiva e si attua la privatizzazione
dei servizi sociali”. Chiunque pensi per un momento
a un mercato finanziario si rende conto che soprattutto
lì “pecunia non olet”. In un luogo
dove ci si scambiano pezzi di carta chiamati “titoli”
(azionari, obbligazionari, commercial paper, cdo, “veicoli”,
“salcicce”, asset backed securities e via
inventando) è assolutamente irrilevante la provenienza
del profitto e il modo in cui è stato prodotto.
Forse che i profitti della Ford o della Fiat non possono
entrare sui mercati finanziari? E la straordinaria liquidità
attualmente nelle casse dei “fondi sovrani”
cinesi e arabi proviene solo da “attività
immateriali”? E dove stanno questi cerberi che,
sulla porta di ingresso dei mercati finanziari, si mettono
a distinguere tra capitali provenienti dalla produzione
immateriale (“avanti prego, si accomodi”)
e quelli estratti da sangue, sudore, polvere da sparo
e petrolio (“vade retro, retrò”)?
Si sa. Fumagali – come Negri – ama le asserzioni
e non perde tempo inutile con le dimostrazioni. Però
quando si parla di “mercati finanziari”
si parla di qualcosa di terribilmente concreto, composto
da qualche milione di individui che vi lavorano a molti
livelli di responsabilità, con molte zone d’ombra,
parecchi comparti “segreti”, ma il cui funzionamento
generale è abbastanza studiato (qualche decina
di migliaia di volumi, pubblicazioni specializzate,
periodici, quotidiani economici, siti, ecc). E da nessuna
parte – se non, per l’appunto, nel mondo
dei comici – si è mai sentita una stronzata
simile.
Ma ormai lo spirito affabulatorio di Andrea ha preso
il volo e non atterra più. “I mercati finanziari
assumono così le veci del vecchio welfare keynesiano
e realizzano forme di redistribuzione indiretta dal
capitale al lavoro, gestendo in modo diretto e distorto
le quote crescenti di reddito da lavoro che ivi vengono
canalizzate in modo più o meno forzoso”.
Quale plasticità di immagine! Lo stato assistenziale
e imprenditore che lascia il passo a questi caritatevoli
mercati finanziari, finalmente liberi di poter perseguire
il cristiano scopo di realizzare “forme di redistribuzione
indiretta dal capitale al lavoro”! Viva, viva,
viva i mercati finanziari! Credevate voi che ci avessero
tolto il tfr per nutrire un po’ di più
questi capitali finanziari in affanno dall’inizio
del millennio (quando scoppiò la “bolla
speculativa della new economy” – che avrebbe
dovuto funzionare in tutt’altro modo rispetto
alla “old”... ma questo è un capitolo
comico a parte). E invece no. Questi mercati della pura
finanza stanno lì per far crescere denaro dal
denaro e restituircene, alla fine del ciclo, una bella
fetta. Perché vi lamentate, allora? Abbiate fede,
e vedrete che quando andrete in pensione prenderete
molto di più di quel misero assegno pubblico
(che vi abbiamo autoritariamente ridotto)! Non vi sembra
una meravigliosa imitazione del prof. Giavazzi del Corsera?
Come avete fatto a non accorgervi che il Fumagalli vi
stava prendendo in giro?!
Tanto più che aveva persino aggiunto che questi
mercati gestiscono “in modo diretto e distorto
le quote crescenti di reddito da lavoro che ivi vengono
canalizzate in modo più o meno forzoso”.
Ovvero: ci tolgono di forza parte del reddito (quote
di salario, tfr, contributi previdenziali, quote di
assegni pensionistici) per canalizzarlo nei mercati.
Basta un po’ di logica per capire che se uno ci
rapina non è che poi viene a riportarci i soldi
indietro con una percentuale aggiuntiva (“di redistribuzione”).
Grazie Andrea, per questi momenti di autentica goduria.
Ma, nella sua generosità, Fumagalli ha voluto
regalarci un’altra perla. Ricordate il vecchio
mantra negriano sulla “fine della sovranità”,
dello stato-nazione, ecc? Bene. Quel mantra non se la
passava più tanto bene, lo sappiamo. Colpa di
Bush, di quel suo modo di gestire gli affari globali
da un’ottica piuttosto ristretta (“gli interessi
e la sicurezza degli Stati uniti”), che a tutti
è sempre sembrato un rigurgito di pesante e oscurantista
“nazionalismo del più forte”. A forza
di fare i nazionalisti, però, gli Usa hanno resuscitato
fantasmi similari che, nel rafforzarsi, minano dall’interno
il processo di globalizzazione. La Russia putiniana
ne è un esempio. Ma il “policentrismo”
emergente come reazione all’unilateralismo Usa
poggia su basi potenti, favorendo aggregazioni regionali
(l’America latina e l’Asia intorno alla
Cina).
I “fondi sovrani” sono nati da poco. Sono
fondi di investimento di dimensioni spesso superiori
a quelli privati (in genere Usa o inglesi), solo che
sono “pubblici”. I loro proprietari sono
stati con surplus giganteschi, derivanti o dalle normali
attività produttive (Cina, Singapore e ora anche
India), oppure dall’estrazione di idrocarburi
(Arabia Saudita, Oman, Qatar, Emirati Arabi, Russia).
Fin qui hanno fatto investimenti “passivi”,
ovvero senza pretendere – come farebbe un privato
– un proporzionale numero di posti nei consigli
di amministrazione delle società in cui partecipano.
Una forma “soft” per evitare di essere respinti
(come avvenuto a un fondo du Dubai che voleva acquisire
la gestione di sei porti statunitensi) o di farsi trattare
come “quinte colonne” all’interno
del sistema finanziario. Che era poi il destino che
sembrava obbligatorio, prima di agosto 2007. La crisi
dei mutui subprime ha creato una contrazione del credito
globale, soprattutto dei prestiti interbancari negli
Usa; e i “fondi sovrani” sono stati accolti
come i re magi.
Bene. Cosa tira fuori il nostro impagabile Andrea? Che
“lungi dal rappresentare il ritorno alla sovranità
nazionale, i fondi sovrani che operano con la stessa
logica di quelli privati, incrementando in modo perverso
il processo di finanziarizzazione e la sua instabilità
, sanciscono piuttosto l'abbandono di qualsiasi interesse
nazionale nelle mani della struttura imperiale della
finanza e l'affidarsi alla sua «anarchia»”.
Impossibile districare le contorsioni logiche di questo
passo. Per rendersi conto della sua valenza comica è
necessario guardare alla realtà. Un fondo (sostantivo)
è “sovrano” (aggettivo) perché
appartenente a uno stato. E’ il proprietario a
rendere il fondo differente dagli altri. E’ semplicemente
ovvio che debba operare “con la stessa logica
di quelli privati”, perché la sua natura
(sostantivo) è quella di un fondo; ovvero deve
fare profitti. Investire in banche statunitensi, per
quei proprietari così esotici, è certamente
un rischio. Come fai a obbligare una banca Usa a ridarti
indietro i soldi? Con quel brutto vizio di di mandare
missili in giro per “difendere gli interessi nazionali”
sono davvero un brutto cliente. E infatti, ci spiegava
Claudio Mezzanzanica a pagina 9 dello stesso numero
de il manifesto, «proprio questo ha fatto scrivere
a scorati commentatori del New York Times che l'America
è sola in questa crisi. Sola e con il cappello
in mano. Con un presidente che chiede, inascoltato,
agli ex amici sauditi di abbassare il prezzo del petrolio
e le più grosse banche in cerca di prestiti internazionali
presso “fondi sovrani”, arabi o quant'altro,
per salvare i propri bilanci. Prestiti a tassi quattro
volte superiori al prime rate della Federal Bank o dalle
clausole opache che prefigurano ingressi scomodi nella
proprietà».
Tre giorni dopo, sempre su il manifesto, Francesco Piccioni
ci dava altri dettagli. «A molti osservatori frettolosi
(di quelli che “tutto ciò che fanno gli
Usa è giusto”) questo è sembrato
un “favore” o una “resa” al
paese più potente del mondo. Guardando alle condizioni
dei prestiti il giudizio deve però cambiare:
tasso dell'11%, durata tre anni e poi - se non restituiti
- si discuterà della proprietà
della banca. Più che un salvagente, sembra un
cappio».
Un cappio non è una cosa gentile, specie nei
confronti dell’impiccando. Ammettiamo che, per
gli stati titolari dei fondi, è un modo un po’
originale di salvaguardare la sovranità nazionale.
E anche un po’ rischioso (il gioco geostrategico,
del resto, non è mai stato esente da rischi;
anzi, li crea). Ma che i fondi sovrani siano la dimostrazione
della fine della sovranità, beh, Andrea, questa
è una battuta che supera tutte le altre. Grazie
ancora. Peccato che nel movimento e nella sinistra solo
pochi capiscano la tue vere inclinazioni, mentre i più
si ostinano a prendere sul serio le tue sortite extra-accademia,
riempiendosi la testa di frasi balzane che oscurano
loro la comprensione della realtà. Se non ci
fosse questo piccolo quiproquo ti direi proprio “continua
così, facci divertire”.
Casimiro,
5 febbraio 2008
Crisi
finanziaria, non è tutta colpa degli Usa
Andrea Fumagalli
da
il manifesto del 1° febbraio 2008
La crisi dei mercati finanziari sta evidenziando una
dinamica che va ben al di là del problema del
crollo dei titoli subprime. Le forti perdite di lunedì
21 gennaio, che nella sola Europa hanno comportato la
distruzione di 430 miliardi di euro (pari a circa un
quarto del Pil italiano), sono solo l'ultimo dei segnali
di una crisi che sta assumendo rilevanza globale. I
media specializzati hanno imputato le cause al rischio
di recessione americana. In effetti, la crescita Usa
nell'ultimo trimestre 2007 si è assestata su
un deludente +1,2 per cento e le previsioni per il primo
trimestre 2008 paventano addirittura un segno negativo
(-0,2 per cento), con un probabile aumento del tasso
di disoccupazione dall'attuale 4 per cento al 6 per
cento entro la fine dell'anno (+50 per cento). Ma si
tratta dell'aspetto esteriore, che non deve nascondere
le origini strutturali, ovvero ciò che sta davvero
alla radice di tutto questo: appiattirsi sulla sola
decrescita americana sarebbe un po' come sostenere che
la recessione di metà degli anni '70 venne causata
esclusivamente dal triplicarsi del prezzo del petrolio.
Nell'odierno paradigma del capitalismo cognitivo, i
mercati finanziari, lungi dall'essere il luogo della
rendita parassitaria improduttiva, sono il motore dell'economia.
Essi rappresentano il luogo dove, a un tempo, si valorizza
la produttività immateriale e cognitiva e si
attua la privatizzazione dei servizi sociali. I mercati
finanziari assumono così le veci del vecchio
welfare keynesiano e realizzano forme di redistribuzione
indiretta dal capitale al lavoro, gestendo in modo diretto
e distorto le quote crescenti di reddito da lavoro che
ivi vengono canalizzate in modo più o meno forzoso.
Al contempo, le grandi multinazionali della finanza
sono oggi organizzazioni che valorizzano «indirettamente»
l'accumulazione della produzione mondiale, così
come nel paradigma fordista i profitti delle grandi
multinazionali manifatturiere erano lo specchio dei
rapporti di forza tra capitale industriale e lavoro
salariato. I mercati finanziari - tramite gli indici
di borsa - rappresentano insomma una sorta di moltiplicatore
reale dell'economia e su di essi condensano tutte le
aspettative dei grandi operatori economici. Non è
un caso che nell'ultima decade le Banche centrali (con
la parziale esclusione della miope Bce) fanno dipendere
le scelte di politica monetaria (tassi e offerta di
moneta) in funzione dell'obiettivo di stabilizzare la
dinamica dei mercati finanziari, con la speranza - del
tutto illusoria - di limitarne le oscillazioni e la
volatilità . Ciò avviene in un ambito
- quello finanziario - che nulla ha a che fare con il
mito del libero scambio tra pari opportunità
, ma è piuttosto il teatro del più poderoso
processo di concentrazione che mai si sia realizzato
nella storia del capitalismo.
Gli operatori (banche e Sim - società di intermediazione
mobiliare -) che controllano oggi tutti i flussi finanziari
e gestiscono enormi somme di liquidità si contano
infatti sulle dita di due mani. E poiché il loro
obiettivo è il massimo profitto immediato, l'attività
speculativa è la regola dominante nei mercati
finanziari: altro che allocazione efficiente del risparmio
e delle risorse.
L'instabilità
è dunque il fondamento stesso del sistema. La
novità che sta dietro all'attuale crisi finanziaria
è la ridefinizione degli assetti gerarchici che
definiscono il comando sui mercati finanziari. Ai fondi
privati gestiti dalle più grandi Sim (J.P. Morgan,
Merrill Lynch, Goldman Sachs, ecc.) si sono aggiunti
i cosiddetti «fondi sovrani», ovvero quelle
attività finanziarie gestite più o meno
direttamente da autorità statuali. Si tratta
dell'esito, inevitabile, dell'incremento del peso della
finanza sulle vite di miliardi persone.
Se oggi la Merrill Lynch è costretta a dichiarare
4,5 miliardi di dollari di perdite, non è da
meno la statale Bank of China, con i suoi 8 miliardi
di dollari di minusvalenze. Lungi dal rappresentare
il ritorno alla sovranità nazionale, i fondi
sovrani che operano con la stessa logica di quelli privati,
incrementando in modo perverso il processo di finanziarizzazione
e la sua instabilità , sanciscono piuttosto l'abbandono
di qualsiasi interesse nazionale nelle mani della struttura
imperiale della finanza e l'affidarsi alla sua «anarchia».
Segnaliamo, da il manifesto di domenica 4 giugno
2006, un articolo di Giovanna Vertova sul reddito
minimo garantito. Nella nostra attività editoriale
(vedi soprattutto Una sparatoria tranquilla,
Introduzione e Prefazione alla II edizione)
abbiamo sempre messo in guardia nei confronti di quel
paradosso, di quella leggenda metropolitana che è
il "reddito garantito"; ma a prenderlo di
petto, alla nostra maniera (teoria marxiana della distribuzione
del plusvalore? Leontieff?), rischiavamo il lancio degli
ortaggi. Ecco invece un ragionamento chiaro, diretto
soprattutto a quel milieu che (solo in Italia,
occorre ricordare) ne ha fatto una bandiera.
Il
dibattito, a partire dall'articolo di Vertova si è
poi così sviluppato: Fumagalli-Lucarelli,
16 giugno; Edoarda Masi, 21 giugno; Sacchetto-Tomba,
30 giugno; Morini, 5 luglio; Chainworkers, 8 luglio;
Bellofiore-Halevi, 11 luglio; Tajani, 11 luglio; Gambino-Raimondi,
23 luglio; Enzo
Valentini, 27 luglio;
Anna Carola Freschi, 8
agosto; Giovanna
Vertova, 15
agosto;lettera off-topic di
Fumagalli,
19
agosto.
Giovanna
Vertova
E
uscito recentemente il libro Reddito garantito e
nuovi diritti sociali, frutto di una ricerca dellAssessorato
al Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili
della Regione Lazio. Lidea è di offrire
delle linee guida alle amministrazioni regionali che
intendono proporre forme di basic income. Il volume
è importante per due motivi. Formula una proposta
politica precisa di reddito garantito, allinterno
di una visione più complessa che mira alla revisione
ed allaggiornamento di un sistema di welfare per
adeguarlo al nuovo capitalismo flessibile. Fornisce,
inoltre, una dettagliata analisi di simili iniziative
a livello europeo.
La proposta nasce dallesigenza di pensare ad un
nuovo sistema di welfare che tenga conto della precarietà,
ormai dilagante. La nuova organizzazione del lavoro
nei paesi a capitalismo avanzato mette in discussione
la distinzione netta tra tempo di lavoro e tempo libero,
occupazione e inoccupazione. Occorre, quindi, inventare
nuove forme di protezione sociale. Nel capitolo "Il
reddito per chi, quando, quanto, come e da chi"
si suggeriscono le risposte alle domande che un amministratore
dovrebbe porsi nel caso volesse introdurre una misura
come quella di un reddito garantito: per chi? quanto?
quando? come? da chi?. Per chi: a "coloro che vivono
sotto una certa soglia di reddito (sia esso il salario
minimo, la pensione sociale o altro)" (p.76). E,
comunque, per tutti i precari in condizioni di non lavoro
e per i soggetti in stato di povertà che permangono
sotto una soglia minima accettabile. Si pensa così
di riuscire anche a frenare la corsa verso il basso
dei salari reali: i lavoratori avrebbero lopportunità
di rifiutare lavori servili e poco remunerati, riducendo
lofferta di lavoro e spingendo la retribuzione
del lavoro tradizionale verso lalto.
Quanto: non viene data una risposta precisa, ma si ricorda
che lammontare deve essere calcolato tenendo in
considerazione i suoi effetti sul livello della spesa
pubblica. Quando: "nei casi di squilibrio sociale
indotto dalla precarietà, laddove gli individui
sono posti di fronte ad una disuguaglianza di opportunità
dovuta allassenza di un reddito adeguato"
(p. 80). Come: "lerogazione potrebbe comporsi
sia di una parte monetaria, sia di una parte offerta
in natura" (p. 93). Il reddito garantito dovrebbe
essere articolato sia come reddito diretto (erogazione
monetaria) che come reddito indiretto (erogazione di
beni in natura, quali beni e servizi primari), includendo
lallargamento delle tradizionali forme di garanzia
del lavoro così detto fordista (ferie,
malattie, maternità, etc.) ai lavoratori precari.
Da chi: le Regioni sarebbero maggiormente attive sul
piano dellerogazione dei beni e servizi primari,
lo Stato centrale sul piano dellerogazione monetaria.
Condivido lurgenza di ripensare un sistema di
welfare adeguato al nuovo cosiddetto capitalismo
flessibile. Se ci si muove nella direzione del
basic income mi sembrerebbe però più ragionevole
pensare ad un reddito di esistenza per tutti, incondizionato.
Si tratta, e chiaro, di una idea di difficile
applicazione in Italia, perché richiederebbe
un sistema fiscale molto progressivo, capace di combattere
davvero evasione ed elusione. La proposta, tuttavia,
non convince né teoricamente né politicamente.
Dal punto di vista teorico, i limiti che credo di poter
rilevare sono infatti i seguenti. Erogare un reddito
garantito solo ad alcune categorie di soggetti rischia
di aumentare la frammentazione del lavoro. Il nuovo
capitalismo è riuscito pienamente a dividere
il lavoro, ad individualizzare la prestazione lavorativa
e a mettere in contrapposizione gli interessi dei garantiti
(anche se quantitativamente decrescenti) con quelli
dei precari. Occorre piuttosto ricomporre
il mondo lavoro e disegnare interventi politici che
sottolineino come la precarizzazione, sia pure in forme
diverse, sia un fenomeno trasversale. Bisogna evitare
la divisione della società in due sfere, poiché
la precarietà non colpisce solo certe fasce di
popolazione. Siamo di fronte ad una precarizzazione
generale. Se si vuole capirne il significato, non ci
si può limitare a registrare che i nuovi entranti
sul mercato del lavoro sono sempre più figure
con contratti atipici. Infatti, a seconda del ciclo
economico, e possibile che si abbia una successiva
regolarizzazione di questi lavoratori: e si rimane sguarniti
rispetto ad obiezioni alla Ichino (Corriere della Sera,
15/05/06) che chiedono una riduzione delle garanzie
dei lavoratori a tempo indeterminato per combattere
davvero la precarietà dei giovani.
La vera funzione della precarizzazione sta in altro:
nello stabilire un permanente potere di ricatto che
rende difficilmente contestabile il comando del capitale
dentro il processo immediato di valorizzazione, dentro
i luoghi di lavoro. Si noti, questo e spesso vero
quale che sia la qualità del lavoro, e talora
addirittura quale che sia il salario.
Si può aggiungere che il reddito garantito rischia
di spingere tutta la struttura dei salari verso il basso,
contrariamente a quanto sostenuto nel volume. I padroni
avrebbero tutto linteresse a ridurre i salari,
visto che il lavoratore percepisce anche il reddito
garantito. Si indebolisce così, contro le intenzioni,
la capacità contrattuale di tutti i lavoratori.
Si favorisce, di conseguenza, listituirsi di un
compromesso malsano tra lavoratori e padroni: i primi
offrono salari e posti saltuari, i secondi li accettano
perché intanto cè il reddito garantito.
Così i lavori buoni spariscono e
i lavori cattivi dilagano. Oltretutto, misure
redistributive di questo tipo (come il reddito garantito,
di esistenza, di cittadinanza, etc.) assumono, più
o meno esplicitamente, che il capitalismo contemporaneo
produca valore e plusvalore in modo stabile, e si basano
su interpretazioni del medesimo quanto meno approssimative,
anche se diventate ormai luoghi comuni (leconomia
della conoscenza, il post-fordismo, etc.). Le classiche
forme di redistribuzione hanno funzionato (laddove hanno
retto) quando collocate in un contesto macroeconomico
ben più sostenibile di quello presente. Basti
ricordare i ricorrenti fenomeni di instabilità
sia reale che finanziaria che si sono susseguiti negli
anni più recenti, che rendono le misure meramente
redistributive alquanto illusorie, salvo lillusione
nutrita da qualcuno che così si possa davvero
sostenere la domanda effettiva. Si riproduce così
un vecchio errore del sottoconsumismo, e si dimentica
che la dinamica macroeconomica è sostenuta dalle
componenti autonome della domanda: investimenti, esportazioni
nette, spesa pubblica, oggi il consumo gestito dallalto
dalla politica monetaria. La redistribuzione potrà
spingere verso lalto la domanda effettiva solo
dentro una politica economica alternativa caratterizzata
da una ridefinzione strutturale molto più forte
della domanda e dellofferta, ben diversa dalla
pallida ri-regolazione e politica industriale per incentivi
e disincentivi, di cui il nuovo governo sembra farsi
promotore.
Misure come il reddito garantito possono forse rendere
più sopportabile la precarietà nel breve
periodo, ma non la eliminano veramente: semmai la cristallizzano
e la congelano. Determinano condizioni di maggior debolezza
per i lavoratori, poiché rendono più accettabile
la frammentazione del lavoro e conducono allabbandono
della lotta per un lavoro vero e garantito per tutti.
Politicamente un impianto del genere sembra fatto apposta
per creare le basi di uno scambio con la sinistra moderata:
accettazione più o meno dichiarata della flessibilità
in cambio di un qualche sostegno al reddito. Magari
affiancata alla riduzione del cuneo fiscale che, ancora
una volta, riproduce una idea di ripresa basata sul
basso costo del lavoro e che scarica gli effetti sulle
politiche, appunto, assistenziali. La triste storia
del programma dellUnione circa la Legge 30 (superamento?
cancellazione?) ci insegna qualcosa?
Giovanna
Vertova
Docente Università di Bergamo
# # #
il
manifesto - 16 Giugno 2006
Mercato del lavoro: la dicotomia teorica salario-
reddito
Andrea Fumagalli
Stefano Lucarelli
Nel corso del dibattito sulla riforma del mercato del
lavoro si pone la dicotomia teorica salario-reddito
che rimanda a quella più politica tra l'opzione
del posto fisso o del reddito garantito (Giovanna Vertova,
Il manifesto 4.6). Reddito e salario non sono mai stati
sinonimi, ma nel contesto attuale le differenze si fanno
più sfumate: con la crisi del fordismo l'economia
si terziarizza e gran parte del tempo di lavoro svolto
non avviene nel luogo di lavoro. Come sottolinea anche
l'Istat, la novità degli ultimi anni è
che in alcuni segmenti del terziario (grande distribuzione
commerciale e servizi alle imprese) la crescita dell'occupazione
nelle imprese più grandi è forte e va
a compensare le perdite della grande industria manifatturiera.
I dati degli ultimi 5 anni mostrano un sistematico aumento
della quota di addetti del terziario (dal 56,2 al 60,2
%). Cresce inoltre il comparto delle attività
immobiliari, informatica, ricerca, professioni e servizi
di selezione e fornitura di personale (43000 imprese
e 119000 addetti in più rispetto al 2004). Si
tratta di attività nelle quali si richiede ai
lavoratori di risolvere problemi prescindendo dal tempo
passato nel luogo di lavoro. Questo ha delle implicazioni
sulla dicotomia salario-reddito: il salario è
la remunerazione del lavoro e il reddito è la
somma di tutti gli introiti che derivano dal vivere
e dalle relazioni in un territorio e che determinano
lo standard di vita. Finché c'è separazione
tra lavoro e vita, c'è anche una separazione
concettuale tra salario e reddito, ma quando il tempo
di vita viene messo a lavoro sfuma la differenza fra
reddito e salario.
La tendenziale sovrapposizione tra lavoro e vita, quindi
tra salario e reddito non è ancora considerata
nell'ambito della regolazione istituzionale. Il reddito
di esistenza (basic income) può rappresentare
un elemento di regolazione istituzionale adatto alle
nuove tendenze del nostro capitalismo. E' definito da
due componenti: la prima prettamente salariale, sulla
base del tempo di lavoro certificato e remunerato, ma
anche del tempo di vita utilizzato per la formazione,
l'attività relazione e l'attività riproduttrice;
la seconda è una componente di reddito che rappresenta
la quota di ricchezza sociale che spetta ad ogni individuo.
Questa ricchezza sociale dipende dalla cooperazione
e dalla produttività sociale che si esercita
su un territorio (oggi appannaggio di profitti e rendite).
Definendo in questo modo il basic income i concetti
di salario e reddito appaiono complementari.
Vertova critica l'idea che il basic income possa rappresentare
uno strumento di regolazione in grado di rafforzare
i lavoratori: "erogare un reddito garantito solo
ad alcune categorie di soggetti rischia di aumentare
la frammentazione del lavoro". Due brevi osservazioni
1) il mercato del lavoro è già ampiamente
frammentato, alcune tipologie contrattuali introdotte
dalla Legge 30 non sono state praticamente utilizzate
perché ne esistono già troppe. Si ha una
differenziazione retributiva marcata, che rende di fatto
inapplicabile il principio della pari retribuzione per
pari mansione lavorativa. 2) siamo d'accordo con Vertova
sul fatto che il reddito di esistenza debba tendere
all'universalismo, ma siamo anche realisti: l'obiettivo
può essere raggiunto solo gradualmente a partire
da chi si trova nella condizione più sfavorevole
di intermittenza di reddito o con lavori magari continuativi
ma sottopagati.
Vertova sostiene anche che "il reddito garantito
rischia di spingere tutta la struttura dei salari verso
il basso. I padroni avrebbero tutto l'interesse a ridurre
i salari, visto che il lavoratore percepisce anche il
reddito garantito. Si indebolisce così, contro
le intenzioni, la capacità contrattuale di tutti
i lavoratori". Al riguardo è disponibile
un ampia letteratura che analizza l'impatto del basic
income sulla produzione e sull'occupazione sulla scia
di Atkinson. Questi studi, che si muovono nell'alveo
della letteratura keynesiana à la Stiglitz (salari
d'efficienza, rigidità nel mercato del lavoro,
informazione imperfetta e asimmetrica) concordano nell'affermare
che l'introduzione di un reddito incondizionato e indipendente
dalla prestazione lavorativa porta ad una riduzione
dell'offerta di lavoro, in seguito ad un effetto reddito
e alla variazione della distribuzione del carico fiscale
volta al finanziamento: il problema non sta nell'introduzione
o meno di un basic income, ma nella sua quantificazione.
E' su questo punto che si gioca il grado di compatibilità
di questa misura di regolazione: si hanno effetti compatibili
solo se è fissata ad un livello inferiore o uguale
alla soglia di povertà relativa e configurandosi
come un perfetto sostituto dei sussidi di disoccupazione.
Si tratta di una questione analoga al vecchio dibattito
sulla compatibilità o meno delle rivendicazioni
salariali: quanto dovevano aumentare i salari? In misura
pari o superiore ai guadagni di produttività?
Infine una domanda banale: perché mai un uomo
o una donna dovrebbero accettare di essere sottopagati
quando hanno la sicurezza di un reddito? Garantire continuità
di reddito, inizialmente a chi non ce l'ha, per poi
garantire un reddito d'esistenza a tutti in modo graduale,
ha proprio lo scopo strumentale di ridurre il ricatto
del bisogno, impedendo processi di dumping sociale.
Se poi tale politica di sostegno al reddito, si accompagna
all'introduzione di un salario minimo orario per chi
non è contrattualizzato, è difficile immaginare
che la separazione tra lavoratori a tempo indeterminato
e lavoratori precari si accentui. La proposta di un
reddito di esistenza è ormai una parola d'ordine
nelle manifestazioni e nelle lotte che vede protagonista
il mondo in crescita dei precari.
# # #
il
manifesto - 30 giugno 2006
Reddito garantito, un'utopia neoliberale
Devi Sacchetto - Massimiliano
Tomba, Università di Padova
L'articolo
di Giovanna Vertova (il manifesto, 4.6.2006) [è
riprodotto qui sotto], al quale hanno replicato sulle
colonne di questo stesso giornale Andrea Fumagalli e
Stefano Lucarelli (16.6.2006), ha passato in contropelo
alcuni luoghi comuni delle recenti proposte sul reddito
di esistenza, mettendone in evidenza debolezze teoriche
e politiche. Non senza però sottolineare il problema
dal quale quell'esigenza sorge: precarizzazione del
lavoro e ridefinizione del welfare.
La formula del "reddito di esistenza" (basic
income) appartiene al quadro delle scommesse politiche
che cercano di attuare una qualche ricomposizione di
un ideale soggetto precario. Da un quindicennio, con
un'accentuazione tutta italica, il dibattito sulle trasformazioni
del lavoro si è concentrato sulla moltiplicazione
delle forme contrattuali (scambiata erroneamente per
deregolamentazione, quando si tratta invece di una maxi-regolazione
perfino delle forme che un tempo sarebbero state illegali)
e sulla virtuosità immateriale del lavoro. I
processi produttivi della nuova epoca postfordista sarebbero
legati alle reti di conoscenza che si estendono sul
pianeta, nelle quali ognuno interviene portando la sua
dose di intelligenza... e lasciando a casa le mani.
L'espansione del settore dei servizi, così ampio
da comprendere le pulitrici e i bancari, rappresenterebbe
uno degli indicatori principali di questa nuova tendenza.
Il "reddito di esistenza", prendendone sul
serio la retorica, assume una mossa del secondo operaismo
italiano, che liquidò - senza mai curarsi di
fornirne alcuna analisi - la nozione marxiana di valore
per far posto ad un'altra scommessa teorica: si trattava
dell'operaio sociale, allora. Venne poi l'enfasi sul
general intellect, e quindi sul sapere sociale generale,
che ha funzionato come accattivante passe-partout per
legittimare l'idea del carattere meramente residuale
del lavoro operaio industriale nella fase attuale, e
del passaggio ad un lavoro immateriale, intellettuale,
tecnologico. Ora viene fatto un passaggio ulteriore:
sarebbe il tempo di vita ad essere messo al lavoro,
e quindi il consumo, in quanto attività relazionale
e immateriale, ad essere produttivo di valore.
Questo approccio, appoggiato su un "paradigma a
stadi", e quindi sulla successione temporale fra
sussunzione formale e sussunzione reale, fra estrazione
di plusvalore assoluto e estrazione di plusvalore relativo,
permette di individuare - con una mossa tipica di ogni
filosofia della storia - nel lavoro ad alta tecnologia
e nel "postfordismo" un tendenza rispetto
alla quale altre forme di lavoro sono giudicate "residuali".
Questa visione vale forse per un francobollo del pianeta
terra, vale a dire per le aree più avanzate sul
piano economico e tecnologico, ma taglia fuori con noncuranza
i quattro quinti del pianeta, dove lavoratori salariati
e coatti sono al centro di un'estorsione senza pari
di plusvalore assoluto. Non si tratta, qui, di ragionare
in termini "reattivi", negando la presenza
di cambiamenti rispetto al passato. Ma è senz'altro
sbagliato - sia teoricamente sia politicamente - definire
in termini di arretratezza o "residualità"
lo sfruttamento assoluto ancora in espansione nel pianeta.
I 300 milioni di lavoratori coatti oggi esistenti nel
mondo non sono un residuo precapitalistico se la frusta
del sorvegliante è comandata dall'intensità
del lavoro socialmente necessario registrata nelle borse
mondiali. Sarebbe forse più opportuno interrogarsi
sulla compenetrazione dei diversi livelli di sfruttamento,
abbandonando un fallace paradigma a stadi storici che
vorrebbe l'epoca della sussunzione formale superata
da quella della sussunzione reale.
Il problema di un'economia globalizzata, nella quale
viene meno anche la distinzione tra centro e periferia,
è la relazione tra i diversi tipi di sfruttamento,
vale a dire il modo in cui enormi masse di plusvalore
assoluto prodotte nelle più svariate parti del
mondo sorreggono produzioni ipertecnologiche ed espansione
dei servizi qui da noi.
Da questo punto di vista va messo a tema quanto Fumagalli
e Lucarelli affermano: è all'esterno del processo
di lavoro e dei rapporti di produzione che viene pensata
una ricomposizione del lavoro precario. Essi non mettono
in questione lo sfruttamento insito nelle dinamiche
capitalistiche, ma ne richiedono una sorta di "regolazione
istituzionale": col reddito d'esistenza, infatti,
si lascerebbe quantomeno inalterato (anche se probabilmente
peggiorerebbe) il tasso di sfruttamento di coloro che
dovrebbero effettivamente pagare il reddito d'esistenza
a qualcun altro. Abbandonati i laboratori della produzione
per le celesti sfere della circolazione e della distribuzione,
l'immagine di una vita messa radicalmente al lavoro
ci presenta, oltre che uno scenario postclassista, una
sorta di olismo del capitale, rispetto al quale sono
tutt'al più possibili riforme e nuove forme di
redistribuzione della ricchezza.
Lungi dal costituire un allargamento delle lotte all'intera
società, il reddito garantito significa innanzitutto
la messa in mora di ogni discussione sulle forme della
messa al lavoro. Mentre si continua a discutere impropriamente
di mercato del lavoro, è assordante il silenzio
sul contenuto del lavoro, a parte le ipotesi paradisiache
relative ai lavoratori autonomi della conoscenza di
seconda generazione. Se esiste una tendenza vera nei
paesi occidentali, è lo sgretolamento del welfare
state accompagnato alla precarizzazione del lavoro.
E se ciò può avere come presupposto la
critica di un'intera generazione operaia alla logica
sacrificale del compromesso welfarista e laburista,
ciò non toglie che la risposta padronale e governativa
a quello scontro è stata in grado di capitalizzare
quegli stessi comportamenti di insubordinazione operaia.
Ma allora, cavalcando la tendenza e persuadendoci di
averla noi stessi impressa - dalla fuga dal lavoro alla
precarietà? - rischiamo di trovarci vicino alle
posizioni neoliberali sul reddito garantito, certamente
compatibile con un sistema nel quale welfare e servizi
vengono immessi nel mercato, al quale il singolo sarà
libero di accedere per via monetaria, scegliendo liberamente
cosa comprare.
il
manifesto - 21 giugno
Quote di reddito
Edoarda Masi
Cari compagni, visto che sul giornale sembra aperta
una discussione sul
"salario di cittadinanza" (Vertova 4 giugno,
Fumagalli e Lucarelli il
16) pregherei di dare spazio anche alla voce ingenua
di quanti, come me,
non professori di economia, sono però direttamente
interessati al tema
in quanto contribuenti per reddito da lavoro. Mi domando:
perché mai
dovrei contribuire con una quota del mio reddito da
lavoro a mantenere
una persona che non lavora, anziché dividere
con quella persona il
carico complessivo del mio lavoro? Se la domanda di
lavoro scarseggia,
"lavoriamo meno, lavoriamo tutti" - come si
diceva un tempo. Quelli che
oggi lavorano guadagneranno meno, ma godranno di un
po' più di tempo
libero; e quelli che non lavorano non saranno ridotti
a vivere
miseramente di un sussidio eufemisticamente mascherato.
Fra l'altro, non
favoriremo la tendenza, molto accentuata nella presente
fase del
capitalismo, di caricare di un cumulo mostruoso di ore
di lavoro una
parte dei cittadini, per lasciare poi gli altri disoccupati
(vedi,
p.es., J. Schor, The Overworked Americans, 1991).
Alla base della richiesta del "salario di cittadinanza"
sta l'ideologia
che il lavoro sia un optional, e non una necessità,
sempre faticosa e a
volte dolorosa, della condizione umana. Ideologia collegata
con la
visione miope di chi guarda solo dal punto di vista
del singolo
individuo, cresciuto per di più nell'ottica del
consumatore figlio di
famiglia. I beni che consumiamo (a cominciare dal cibo
indispensabile
per la sopravvivenza) e i servizi di cui ci valiamo
(inclusa la sfera
cosiddetta "immateriale") non vengono mai
offerti gratis: qualcuno deve
lavorare per fornirli. "Perché dovrei accettare
un lavoro faticoso,
sgradevole, che non mi piace?" - chiede l'individuo.
E omette il fatto
che i lavori gratificanti sono pochi; e anche in un
lavoro gratificante,
una larga parte è fatta di pura, sgradevole fatica.
Allora: tutti dovrebbero accettare qualunque lavoro,
per quanto
sgradevole, disumano, mal pagato, ecc. ecc.? Neanche
per sogno. Ma la
soluzione peggiore sarebbe quella di accettare, e addirittura
richiedere, un'elemosina che valga da "ammortizzatore
sociale" da parte
di chi organizza quelle condizioni di lavoro più
penose del necessario
(e ne trae profitto); e con ciò stesso mascherare
il fatto che si
scarica su altri in generale il peso del lavoro; in
particolare, sui
meno fortunati - perché, per esempio, stranieri
- il peso dei lavori più
sgradevoli e meno gratificanti.
Sognamo un mondo dove sia dato "da ciascuno secondo
le sue possibilità,
a ciascuno secondo i suoi bisogni"?
Allora, ricominciamo a parlare di alternativa socialista,
invece di
escogitare ideologie degradanti, funzionali a tenere
in piedi un sistema
di oppressione e di gerarchie.
Edoarda Masi
**********************
il
manifesto - 5 luglio 2006
Reddito d'esistenza e nuovi soggetti sociali
Cristina Morini
Attraverso da parecchio tempo, essendo una di loro,
gli stessi percorsi di quei "lavoratori immateriali"
che tanto sembrano sconcertare Devi Sacchetto e Massimiliano
Tomba (il Manifesto, 30 giugno '06). Sarà colpa
di una delle diciture che ci accompagnano, "lavoratori
immateriali", che accenna a un'imprendibilità
della sostanza, evoca un'immagine letterale di incorporeità
e dunque di vacuità e dunque a un'inutilità
degna di una specie di inspiegabile ironia?
L'analisi che in questi anni, su determinati temi, primo
tra altri quello del lavoro, si è sviluppata
di più, e meglio, al di fuori delle accademie
- dentro l'ambito della ricerca informale e nelle elaborazioni
dei movimenti -, non ha inteso legittimare "il
carattere meramente residuale del lavoro operaio industriale".
Ha ritenuto obbligatorio guardare ai nuovi processi
e ai nuovi paradigmi del presente.
Elementi immateriali vanno sempre più innervando
l'attività lavorativa tutta. Il sistema di accumulazione
flessibile alla creazione di valore tramite la produzione
materiale ha aggiunto la creazione di valore tramite
la produzione di conoscenza. Alla tradizionale divisione
del lavoro per mansioni e specializzazione se ne aggiunge
una nuova, fondata sulla conoscenza, sui saperi, sulle
singole capacità (relazionali, emotive). Piaccia
o non piaccia, uno dei nodi da sciogliere nel presente
è rappresentato dai knowledge workers (lavoratori
della conoscenza) e dall'articolarsi complesso del loro
rapporto con il lavoro, con la rappresentanza, con il
loro ruolo sociale assai più controverso che
in passato.
Chi sono questi fantomatici, fantasmatici, knowledge
workers? Giornalisti, invisibili, al desk dei settimanali
e dei quotidiani. Ricercatori universitari da tre per
due e dal futuro incerto. Designer, lavoratori del web,
impiegati e consulenti nell'industria dei brand, delle
mode, degli stili di vita, tutti precari ai tempi delle
vite precarie. Sono coloro che, quotidianamente, producono
saperi, linguaggi, informazioni, conoscenza per un mondo
che di tali "prodotti della mente" è
affamato.
Guardare a loro significa guardare al lavoro creativo
alienato, ridotto - in alcuni casi, nella grande maggioranza
dei casi - a ripetizione, esecuzione. Significa guardare
alla progressiva negazione della corporeità di
classe che si ottiene governando a colpi di precarietà.
I knowledge workers sono infatti contemporaneamente,
non casualmente, estremamente "aperti" alla
precarietà, a una precarietà che, nella
modernità, si sostanzia, sopra ogni altra cosa,
di immaginari, di miti.
La perplessità nei confronti del problema definitorio
e di sostanza portato con sé dalla variazione
in corso, sembra non prestare attenzione proprio ai
contenuti del lavoro contemporaneo, prima ancora che
al contesto macroeconomico. Il lavoro vivo contemporaneo
si fonda sul ricatto, sulla generalizzazione dell'incertezza,
con l'aggiunta di un potere disciplinante "indirizzato
verso l'atomizzazione e l'asservimento totale del tempo
di vita" (T. Villani, Il tempo della trasformazione).
Il passaggio che porta un uomo, una donna, a diventare
risorsa umana è tutt'altro che indolore. Ci parla
di una trasformazione antropologica, di una sussunzione
biopolitica, di una "mercificazione ancora più
intensa del soggetto" che "da astratta e quantificabile,
come fu nel fordismo, viene a essere, in qualche modo,
ri-soggettivata e qualitativa nel postfordismo"
((F. Chicchi, Capitalismo, lavoro e forme di soggettività).
Ci parla, fuor di teorizzazioni, di una forma inedita
"di tossicità del lavoro".
Un quadro talmente mutato ha, per forza, necessità
di un aggiornamento sostanziale del piano dei diritti.
Questo è quello che stiamo, da molte parti, provando
a dire. Il paradigma è cambiato e mette al centro
nuovi soggetti (non solo il lavoro immateriale, ma anche
il lavoro dei migranti, anche il lavoro produttivo/riproduttivo
delle donne), che portano con sé una realtà
di nuovi bisogni. Il reddito di esistenza pretende di
tenere conto di tale variazione esplicita.
La conoscenza, il general intellect, così come
i beni comuni della natura, formano la base invisibile
dell'economia, di cui ci si appropria, in modo esponenzialmente
sempre più intenso, all'interno dei processi
di accumulazione del nostro tempo. Vale a dire, esistono
profonde ragioni deontologiche in difesa del reddito
di esistenza, forma appena corretta di redistribuzione
di fronte allo sfruttamento privato di tutti i beni
comuni, sapere creativo collettivo compreso.
Ciò non significa, sia chiaro, dimenticare il
piano rivendicativo, più classicamente sindacale.
C'è bisogno entrambi, di nuovi simboli e di rivendicazione,
contemporaneamente. Reddito, battaglie per i servizi
sul territorio metropolitano, battaglie sindacali per
risalire dagli slittamenti giuridici, tutto può
e deve concorrere a costituire un aggiornamento, adeguato
all'oggi, delle difese del lavoro contemporaneo.
****************************
il
manifesto - 8 luglio
Conciliare salario e reddito sociale
Chainworkers
Stiamo seguendo con una certa dose di ansia il dibattito
che contrappone
i redditisti ai salaristi. Queste due colorite definizioni
vorrebbero
indicarci due orizzonti differenti e antitetici di intendere
il
superamento della precarietà. Una contrapposizione
che sembra volersi
porre come riferimento cartesiano nelle questioni relative
alla
precarietà sociale. I percorsi che abbiamo attraversato
hanno cercato di
contestualizzare questa dicotomia collocandola all'interno
di una
visione diversa.
La stessa Mayday, al principio, non ha cercato una sintesi
fra le
diverse rivendicazioni. Al reddito per tutti/e - che
indicava la volontà
di garantire una vita dignitosa a ciascuno/a - si è
mano a mano
sostituita la continuità del reddito che non
vuole essere una mediazione
fra il salario e il reddito di esistenza, ma ne costituisce
il
superamento e la consapevolezza della necessità
di una maggiore
versatilità nella scelta delle finalità
intermedie, se si vuole
sviluppare una strategia veramente conflittuale, nel
lavoro e nel
sociale, contro la precarizzazione. Il dibattito su
reddito e sul
salario ma anche la grande assemblea "Stop precarietà
ora" difettano in
questo. Non ci dicono perché dopo vent'anni di
riduzione dei diritti e
delle retribuzioni si dovrebbe invertire la tendenza.
Certo non solo per
aver posto il problema.
E' risaputo come le trasformazioni imposte dal liberismo
abbiano
spiazzato le capacità di pressione politica e
di efficacia sindacale
delle tradizionali forme di conflitto. Quindi il punto
su cui
focalizzare l'opposizione alla precarietà sociale
è quello di definire i
modi e le forme attraverso le quali trovare e saldare
nuove forme
solidali e di conflitto, fra i lavoratori e precari/e,
i nativi/e e i/le
migranti. Per noi il punto sta qua e concedeteci la
provocazione, anche
sbagliandoci ne trarremo vantaggio. Vorrà dire
che entro qualche mese
avremmo un reddito di esistenza o un salario stracolmo
di diritti.
Se invece ciò non accadrà pensiamo che
il percorso dell'EuroMayday -
esperienza che prova ad affrontare le contraddizioni
di un'economia
mondo che si articola in spazi e modi differenti - abbia
posto la sua
attenzione sul punto nevralgico: l'atomizzazione taglia
i legami che
potrebbero condensarsi in una generale presa di coscienza
della propria
condizione creando le basi per nuove complicità
che diano forza a quei
conflitti che non riescono più ad articolarsi
intorno a chi possiede i
mezzi di produzione, perché nell'era dei mercati
finanziari e
dell'impresa network, si lavora vicino a non-colleghi
e non si sa bene
chi paga il nostro stipendio, quando c'è.
Nel momento in cui né partiti né sindacati
incarnano la forza per
modificare radicalmente la precarizzazione, le lotte
devono trovare
linguaggi che escano dalla propria specificità
e strumenti che diano la
visibilità necessaria per connettersi a una più
generalizzata radicalità
sociale, creando spazi comuni e canali di comunicazione
che dissolvano
l'atomizzazione. Agire con sensibilità mediatica,
sfruttare gli
strumenti della comunicazione, riterritorializzare i
simboli, creare
media sociali che costruiscono linguaggi comuni che
nascono dalla
cospirazione attiva e da una valorizzazione sociale
al di fuori del
capitale. Bisogna toccare il nodo nevralgico non solo
del "di chi è la
ricchezza" ma di "cosa è la ricchezza":
che è quel momento che sta fra
la produzione, la circolazione e la valorizzazione sociale.
il
manifesto - 11 luglio 2006
Reddito garantito, fra illusione e diversivo
Riccardo Bellofiore
Joseph Halevi
L'articolo di Vertova sul reddito garantito ha messo
i piedi nel piatto di una discussione dove troppe cose
vengono date per scontate. Gli interventi di Fumagalli
e Lucarelli (FL) e di Morini ribadiscono le approssimazioni
che Vertova aveva disperso. FL ragionano così:
i) nel postfordismo dei paesi avanzati l'economia si
terziarizza e l'occupazione è creata fuori dalla
grande impresa manifatturiera; ii) a ciò corrisponde
una immediata produttività del tempo di vita
e delle relazioni nel territorio; iii) il capitale si
appropria gratuitamente della più elevata ricchezza
sociale; iv) il tempo di vita deve invece essere remunerato
(reddito), integrando la retribuzione da salario; v)
si tratta di una regolazione istituzionale che rende
stabile il postfordismo, come la crescita del salario
in proporzione della produttività (fisica) stabilizzava
il fordismo; vi) il basic income (BI), cumulabile e
incondizionato, non solo aumenta la produttività
sociale, ma ne ridistribuisce i frutti e fa crescere
la domanda; vii) è un compromesso tra capitale
e lavoro, realistico (avvicina per passi al reddito
di esistenza) e incompatibile (se elevato, il BI non
è un mero sostituto dei sussidi di disoccupazione).
Tuttavia la maggiore ricchezza relazionale e cognitiva
attiene al lavoro concreto, non al lavoro astratto.
La sequenza per cui è il comando tecnologico
e organizzativo sul lavoro vivo a creare neovalore vale
ovunque e sempre nel capitalismo. Inoltre la crescita
postbellica si deve alla domanda autonoma (spesa pubblica
elevata, investimenti privati, esportazioni) in un contesto
internazionale di capitalismo da guerra fredda irripetibile.
Non, contrariamente al mito fordista, ai salari, che
sono stati trascinati. Quando le lotte nella produzione
hanno morso, il modello è saltato. In contrasto
con la visione di FL, il lavoro nel terziario è
in gran parte legato al manifatturiero: l'economia della
conoscenza si nutre di lavori "materiali".
Eppure è senz'altro vero che il capitalismo è
cambiato radicalmente: i) una 'centralizzazione' finanziaria
e produttiva gigantesca senza 'concentrazione' di lavoratori
in grandi imprese, con riduzione della dimensione minima
d'impresa; ii) la dicotomia centro-periferia è
saltata, il centro è anche dentro la Cina, la
periferia è anche dentro la Germania; iii) la
forza-lavoro mondiale è raddoppiata in 15 anni;
iv) il lavoro è sussunto alla finanza; v) il
consumo è sostenuto dalla politica monetaria
e dall'indebitamento; vi) è mutata la natura
della prestazione lavorativa. Il lavoro precario è
'continuo' ma senza 'posto fisso'; quello a tempo indeterminato
è sempre più incerto e aggredito: un avvicinamento
oggettivo delle due figure. Intanto, il problema della
realizzazione il nuovo capitalismo lo ha risolto senza
BI. L'instabilità e insostenibilità dei
nuovi processi di creazione di neovalore, che non sono
'spontanei', non consentono una ridistribuzione egualitaria.
Il BI non aumenta di per sé né ricchezza
né valore. Ragionare altrimenti cancella un po'
di cose. E' la domanda di lavoro a determinare la qualità
dell'offerta di lavoro. La formazione diffonde oggi
non cultura ma analfabetismo di ritorno. Solo la gestione
politica della domanda (autonoma) traduce in realtà
aumenti potenziali di produttività. FL rispondono
che il lavoro è già frammentato, quasi
Vertova sostenesse che il BI sia la causa della precarietà:
ma Vertova spiega la precarietà come noi, e FL
non sanno che al peggio non c'è mai fine. Il
loro fine è il reddito di esistenza: intanto,
'realisticamente', si accontentano di un sussidio ai
precari.
Di buone intenzioni è lastricata la via per l'inferno:
il BI costituisce la sponda di politiche social-liberiste
di aggressione a tutto il lavoro, dividendolo. FL prendono
Vertova per una neoclassica per cui il BI creerebbe
disoccupazione mettendo un pavimento rigido a salari
o redditi. Vertova ha in testa, crediamo, una impostazione
marx-kaleckiana. Il BI, se 'realistico', è più
basso del salario, e crea un margine di flessibilità
nel costo del lavoro. L'impresa assume pagando di meno,
il lavoratore otterrà inizialmente lo stesso
reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento.
Proprio perché oggi la realtà capitalistica
si fonda sulla possibilità di chiusure e di precarizzazione,
con il BI come "pavimento" il salario potrà
essere ridotto sempre di più. Quando il salario
si avvicina al BI, i governi abbasseranno, dove esiste,
il salario minimo. Una dinamica che è più
pronunciata in una società di servizi. Si crea
una massa amorfa di persone che sopravvivono, frana
la capacità contrattuale di tutti i lavoratori,
i redditi manageriali schizzano verso l'alto. Tendenze
già in atto da tempo in vari paesi.
FL ragionano come se il BI dia accesso di per sé
ai beni e alla scelta del lavoro. Ma è chi comanda
finanza e domanda autonoma che definisce livello e composizione
della produzione, consumo reale, quantità e qualità
del lavoro. Perché non partire dalla constatazione
che l'esigenza è quella di stabilizzare il posto
di lavoro, trasformando il precariato in lavori a tempo
indeterminato, dando sicurezza dentro il lavoro dipendente?
Saggiamente Masi ricorda una verità elementare.
Come collettività possiamo ridistribuire solo
la produzione corrente. Quest'ultima, aggiungiamo, sarà
tanto più elevata quanto più alta è,
oggi e nel passato, l'occupazione, e l'occupazione stabile;
e quanto più alta è, oggi e nel passato,
qualità e quantità dei mezzi di produzione.
Senza gestione politica della domanda e senza conflitto
sociale nella produzione sussidi come il BI sono acqua
fresca, perché domanda e produttività
non aumentano per magia.
Per
la par condicio (?), lo stesso giorno appariva questa
perla.
il manifesto - 11 luglio 2006
Il vizio della mancanza di proposte
Cristina Tajani
Il dibattito sul "reddito garantito" in corso
su il manifesto e Carta.org ha un grande merito ed un
grande vizio. Il merito consiste nell'aprire uno spazio
di discussione, nella sinistra radicale, sul tema socialmente
rilevante della ridefinizione del welfare, tema che
rischia di rimanere pragmaticamente appannaggio di altri
nel centro-sinistra. Il vizio sta nel non riuscire a
riempire questo spazio di proposte che eccedano le schermaglie
"italiche" del dibattito antico che contrappone
reddito e lavoro. Chi scrive ha vissuto, in Lombardia,
l'esperienza dell'elaborazione di un progetto regionale
sul reddito in cui si sono riconosciute tutte le culture
della sinistra radicale (dalla Fiom ai centri sociali),
rappresentando un punto di fluidificazione dei linguaggi
che, purtroppo, non sembra generalizzabile.
Ma più del metodo è il merito della discussione
che merita attenzione. A questo vorrei provare ad offrire,
per titoli, tre argomenti. Il primo insiste sulla necessità
di ripensare un modello di welfare familistico e categoriale
(disegnato su alcune categorie di individui: i lavoratori
delle grandi imprese con la cassa integrazione contro
quelli delle imprese medio-piccole, etc.). Sul punto
pare esserci largo consenso, ma sulle proposte è
difficile uscire della contrapposizione tra sostenitori
e detrattori del basic income. Non è nuovo ricordare
che l'Italia è l'unico paese europeo (insieme
alla Grecia) a non godere di uno strumento universalistico
(svincolato da appartenenze categoriali) di contrasto
alla povertà. L'esperienza del Reddito minimo
di inserimento, liquidata in fretta dal governo Berlusconi,
non ha beneficiato di una seria valutazione né
in sede istituzionale (il rapporto di valutazione non
è stato mai reso pubblico), né in sede
politica. A prescindere dal merito di quell'intervento
(che può ben essere discusso) a pesare sul giudizio
di molti a sinistra è stato il fatto che fosse
uno strumento di contrasto alla povertà e all'esclusione
sociale: dunque "assistenza". Varrebbe la
pena incrociare questi giudizi con i dati sulla nuova
composizione della povertà relativa in Italia.
Il maggior turnover, il ringiovanimento dei poveri (cui
consegue trasmissione inter-generazionale del fenomeno),
l'aumento degli occupati poveri (spesso precari) offrono
altri elementi per valutare forme di sostegno al reddito
(anche condizionate alla prova dei mezzi) in contrasto
a povertà e ricatto della precarietà.
Né può valere l'argomento che contrappone
il sostegno al reddito alla lotta contro la precarietà:
equivarrebbe al sostenere, mutatis mutandis, che l'esistenza
della cassa integrazione inibisce l'impegno contro ristrutturazioni
labour-saving e crisi occupazionali.
Il secondo argomento ribadisce la necessità di
situare i ragionamenti sul welfare in chiave europea,
provando ad uscire dalla sola declamazione di principio.
Fino ad oggi l'integrazione europea si è posta
come "nemica" dei welfare nazionali, motivando
il crescente euroscetticismo dei referendum francese
e olandese sul Trattato. Ma le rilevazioni dell'Eurobarometro
segnalano, di fianco ai timori, una forte propensione
dei cittadini europei verso misure che promuovano la
sicurezza sociale e l'uguaglianza. La scorsa presidenza
britannica della Ue ha elaborato alcune iniziative sociali
pilota da implementare a livello sovranazionale. Tra
queste uno strumento di contrasto alla povertà
nella forma del sostegno al reddito. Secondo le simulazioni,
questa misura costerebbe circa un punto di Pil europeo
e andrebbe nella direzione, politicamente significativa,
della lotta all'esclusione sociale in chiave Ue, consentendo
ai welfare nazionali di concentrasi su altri obiettivi
(pensioni, sanità...).
L'ultimo argomento stringe il nesso tra la necessità
di ripensare il welfare e la necessità di ripensare
una fiscalità che ha perso di progressività
e capacità redistributiva. Alcune indicazioni
contenute nel programma dell'Unione (ad esempio il contrasto
fiscale alla rendita) sembrano andare nella direzione
giusta. Il punto politico da verificare è se
l'attuale governo saprà collegare le misure in
materia fiscale ai necessari interventi per un welfare
maggiormente inclusivo.
Il rifinanziamento del fondo nazionale per l'assistenza
è un piccolo segnale che vogliamo interpretare
positivamente.
# # #
23
luglio
pag. 10
Se "tutto" produce valore, il vero orizzonte
è il capitale
Ferruccio Gambino - Fabio Raimondi
A fronte degli sconvolgimenti produttivi in corso e
del mutamento della geografia industriale del mondo
odierno, la minaccia reale ai livelli occupazionali
nei paesi industriali va considerata con grande attenzione.
Già oggi alcune sedi locali del sindacato dell'auto,
negli Stati uniti, ordinano l'arrivo del carro attrezzi
quando qualche iscritto osa entrare nella sede sindacale
con un'auto di marca non statunitense.
La delocalizzazione sta generando una distorsione di
prospettiva: non è tanto il numero dei posti
di lavoro persi in occidente e dislocati in paesi a
basso salario, quanto l'angoscia che questo processo
provoca non solo nella produzione industriale, ma anche
in quella dei colletti bianchi. Ottant'anni di vie nazionali
al socialismo e di smarrimenti di una prospettiva internazionale
- salvo qualche nobile eccezione - hanno offuscato l'interesse
e l'attenzione dei sindacati per le condizioni di quello
che resta del movimento operaio nei paesi oggetto di
delocalizzazione, dove vecchi macchinari continuano
a essere utilizzati grazie ai bassi salari.
D'altra parte, l'attuale delocalizzazione assume le
apparenze di un risarcimento per uno sviluppo industriale
negato da decenni, se non da secoli, ai paesi colonizzati
ed economicamente bloccati dall'intervento occidentale.
Questo preteso risarcimento è in realtà
foriero di un nazionalismo di ritorno come, ad esempio,
in Cina e in India. Esso nasconde processi di differenziazione
di classe: da un lato, c'è chi -- in alto - punta
sull'accumulazione nazionale e, dall'altro, c'è
chi - in basso - deve lavorare in condizioni disumane.
E anche dalle nostre parti, probabilmente, più
di qualche capannone o garage non risulterebbe molto
diverso, se potesse parlare. Nella proposta del reddito
garantito si corre il rischio di ragionare in termini
di economia nazionale o tutt'al più europea,
quando il problema va letto in termini transnazionali.
È d'altra parte comprensibile la posizione di
quanti, a fronte della precarizzazione del lavoro, propongono
il ritorno alla centralità del contratto a tempo
indeterminato, al lavoro come diritto o bene comune.
Parole d'ordine che difficilmente intercettano alcune
categorie sociali, tra cui quei giovani, ma non solo,
che sono sottoposti a ritmi lavorativi insopportabili
e a salari risibili. Chi vorrebbe mai lavorare per un'intera
vita come operatore in un call center, isolato da tutti
e sorvegliato continuamente? Chi poi trovasse posto
in un'azienda sotto i 15 dipendenti o in una cooperativa
si sentirebbe scarsamente sollevato da un contratto
a tempo indeterminato, perché può esser
licenziato con uno schiocco di dita.
D'altra parte, una larga parte dei migranti è
costretta a chinare il capo non potendosi permettere
di rifiutare a lungo un contratto a tempo indeterminato
in una delle tante prigioni a ore: e nemmeno questo
li protegge dalla possibilità di finire in un
Cpt. Proprio qui, stante l'attuale legislazione sulle
migrazioni, il reddito garantito sulla base della residenza
pone un problema non da poco: per i migranti la minaccia
di doversi rioccupare nel giro di sei mesi, pena l'abbandono
del territorio italiano, rende il reddito garantito
un sollievo pregevole, ma di corto respiro.
Se, come pensiamo, la caratteristica del lavoro contemporaneo
è il suo farsi migrante, allora sempre più
labile è e sarà il divario tra quanti
ci si ostina a definire "garantiti" e i precari.
Per questo, nonostante la buona fede dei suoi sostenitori,
il reddito garantito può significare, in assenza
di un movimento impetuoso, la diffusione di diritti
differenziali. Se, quindi, l'erosione della previdenza
sociale carica tutti i salari di un onere che precedentemente
era un diritto acquisito col proprio lavoro, allora
non solo è necessaria e urgente un'organizzazione
tra lavoratori e lavoratrici che rompa le gerarchie
imposte dai nuovi modelli produttivi e contrattuali,
ma è fondamentale che tale ricomposizione inizi
là dove massima è la divaricazione tra
lavoro e diritti, ossia dalle condizioni materiali dei
migranti. Non si tratta di aspettare tempi migliori,
ma di raccogliere e promuovere le occasioni di mobilitazione
anche parziali, ma capaci di incidere, che facciano
giustizia di un senso comune fondato sulla solitudine
e sulla percezione di una congiuntura storica sfavorevole.
La categoria di "postfordismo" ha reso più
difficile di quanto già non fosse la messa a
fuoco dell'aumento in atto dei posti di lavoro a ritmi
vincolati. Ciò che vediamo estendersi è
un controllo sui tempi e l'intensità di lavoro
sempre più capillare e che sempre più
investe le nuove tipologie lavorative. Per questa ragione
è sul lavoro, con le sue modalità in parte
"vecchie" e in parte "nuove", che
devono essere incentrati inchieste e dibattiti, e non
sulla categoria di "vita" che rischia di sfumare
le differenze di classe, rendendole indistinte.
Se infatti ogni attività diviene produttiva di
valore, il capitale, produttore di precarietà
(oltre che di profitti), pare configurarsi come una
totalità, un orizzonte intrascendibile che può
essere, tutt'al più, regolato in parte.
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il
manifesto - 27 luglio
Diritto al reddito, le Marche ci provano
Enzo Valentini
La tutela del reddito ha un ruolo centrale e può
essere perseguita
attraverso tre strumenti: Sussidio di disoccupazione
(Sd), Reddito
minimo garantito (Rmg), Reddito di cittadinanza (Rdc).
Il Sd,
riguardando solo i disoccupati, non risolve il problema
dei working
poors, cioè di coloro che pur lavorando non escono
dalla povertà. Il Rmg
assicura un dato livello di reddito: se i miei introiti
sono inferiori a
tale somma, lo stato li integra. Il limite consiste
negli effetti
disincentivanti perchè, fino al raggiungimento
della soglia, il reddito
non dipende da quanto si lavora. Inoltre comporta alti
costi per
individuare i destinatari e rischia di favorire gli
evasori. Il RdC è
erogato a tutti indipendentemente dalle condizioni lavorative
o
salariali e garantisce la libertà di non lavorare
senza essere
disincentivante: viene percepito comunque e il profilo
reddituale è
crescente rispetto a quanto si lavora.
La rivendicazione del Rdc si basa su due tipologie di
supporto teorico,
da considerarsi complementari. La prima fa riferimento
alle mutate
condizioni di produzione del valore e evidenzia che
"quando il tempo di
vita viene messo a lavoro sfuma la differenza tra reddito
e salario".
Tutti produciamo ricchezza sociale attraverso la nostra
vita (relazioni,
azioni, creatività) e il Rdc rappresenterebbe
la quota che spetta ad
ogni individuo. Ne consegue un'implicazione perversa:
la remunerazione
dovrebbe essere differenziata tra gli individui, perchè
non tutti
abbiamo la stessa produttività sociale.
Occorre quindi integrare con la seconda giustificazione
del Rdc: il
diritto naturale al reddito. Ogni essere umano ha diritto
di vivere, e
nella nostra società questo significa diritto
al reddito. Non si tratta
di una remunerazione, non è la rivendicazione
di una quota di ricchezza
che si produce, ma è l'affermazione di un diritto
che con le regole del
capitalismo non ha niente a che fare. Il Rdc è
lo strumento efficiente
per la generica lotta alla precarietà (non disincentivante,
bassi costi
di gestione), e il più appropriato politicamente
in quanto introduce un
elemento anticapitalistico.
Si teme che il Rdc possa accentuare la separazione tra
lavoratori a
tempo indeterminato e precari o spingere all'inattività,
favorendo la
frammentazione sociale, l'offensiva verso le garanzie
conquistate, e
finendo per essere uno strumento al servizio dei padroni.
Si suppone,
quindi, che la coesione sociale e la voglia di ribellione
vadano
stimolati con interventi dall'alto e non che debbano
essere costruiti
dal basso. Al contrario, proprio il riconoscimento del
diritto al
reddito può assicurare quel potere decisionale
sulla propria vita che in
tal senso è fondamentale. Si sostiene che il
Rdc minerebbe il potere
contrattuale dei lavoratori e ridurrebbe i salari. I
padroni sostengono
la tesi opposta: l'aumento del potere contrattuale farebbe
salire i
salari. Strano, ma hanno ragione i padroni.
I dati Ocse mostrano una relazione negativa tra lavoro
nero e spesa a
tutela del disoccupato, che farebbe aumentare il potere
contrattuale
diminuendo la disponibilità della gente ad accettare
impieghi
irregolari. Il diritto al reddito non è la soluzione
a tutto, ma è la
base per la riappropriazione di spazi e tempi di vita.
Esso non esclude
la necessità, ad esempio, di agire sul mercato
del lavoro
(flexsecurity), sugli incentivi alla cooperazione, sulla
gestione
pubblica delle risorse energetiche. Ma in questo campo
si possono
individuare proposte che diano un senso concreto alla
lotta contro la
precarietà.
Nelle Marche è in corso una raccolta firme per
una legge di iniziativa
popolare che prevede l'introduzione di un Reddito Sociale
di 500 euro
mensili e l'erogazione di servizi gratuiti (sanità,
trasporti, cinema,
teatro) per disoccupati e precari. Si tratta di un istituto
che ricade
nell'ambito del Rmg. Ciò è dovuto all'esigenza
di includere una norma
finanziaria che consentisse di reperire nel bilancio
regionale le
risorse necessarie. Mentre a livello nazionale un Rdc
sarebbe
finanziabile con una riforma complessiva, a livello
regionale esistono
meno margini di manovra ed è stato possibile
ipotizzare solo un
finanziamento per un Rmg. Il principio ispiratore fa
però riferimento al
RdC, visto che l'art. 2 afferma che "La Regione
Marche istituisce e
garantisce su tutto il territorio regionale il diritto
al reddito
sociale". Viene formalmente riconosciuta la separazione
tra reddito e
lavoro, si creano le basi per rivendicazioni future,
e in presenza di
altre iniziative simili anche il governo sarebbe sollecitato
ad
affrontare la questione.
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# # #
8
agosto
Ricercatori precari, la realtà smonta ogni
retorica
Anna Carola Freschi, Università
di Bergamo
Il
dibattito che si è svolto in queste pagine su
come contrastare la precarietà riflette un bisogno
reale nel mondo eterogeneo dell'auto-organizzazione
dei precari: allargare la discussione coinvolgendo realtà
diverse per territori, settori produttivi, culture politiche
e del lavoro, percorsi di mobilitazione.
Essere precari a Milano, Firenze, Napoli non è
la stessa cosa, così come essere ricercatori,
giornalisti, metalmeccanici, addetti dell'anagrafe o
lavorare in un call center. I toni netti possono essere
utili a creare un clima di confronto finalizzato al
raggiungimento degli obiettivi comuni: un welfare nuovo
ed universalistico e la riaffermazione della dignità
del lavoro. Di fronte alla piaga della precarietà
nel capitalismo flessibile-cognitivo, entrambi gli obiettivi
si devono confrontare con il problema comune della redistribuzione
delle risorse, tanto per finanziare il welfare che per
spingere davvero le imprese a investire nel lavoro e
nell'innovazione.
Insomma, è banale dirlo, ma il conflitto non
è evitabile. Se si assume che il vincolo a perseguire
una politica di equità e di innalzamento della
pressione fiscale su profitti e rendite e, con ciò,
che il modello di sviluppo neoliberista siano dati immodificabili,
si va poco lontano. Sentiamo oggi molte proposte gradualiste,
che accettano questi dati, animate dalla buona intenzione
di raggiungere risultati rapidi, per quanto parziali.
Sono comprensibili se non portano
avanti anche il terreno di lotta centrale? L'estensione,
la gravità, la trasversalità del precariato
si conciliano male con questa prudenza.
Prendiamo l'esempio dei ricercatori precari, una componente
emblematica del fenomeno della precarietà: le
stime dicono che questi lavoratori rappresenterebbero
quasi la metà dei ruoli di ricerca e docenza
dell'università italiana (circa 50.000 persone).
In tre anni di mobilitazioni, né Università
né Governo hanno messo a disposizione dati ufficiali
esaurienti. Come è stato possibile nell'ultimo
decennio - in un clima di montante retorica sulla necessità
di flessibilizzazione - mettere ripetutamente mano a
riforme sull'organizzazione dell'università senza
preoccuparsi di monitorare (e rendere pubblici) i dati
sull'evoluzione della sua struttura? E così
sono cresciuti i ricercatori precari: quasi tutti dottori
di ricerca, lavorano a tempo pieno con collaborazioni,
assegni di ricerca, borse di studio, contratti di docenza
(quindi non i liberi professionisti prestati all'Università
per compiti circoscritti). Colmare questo deficit conoscitivo
riguardo alla consistenza numerica dei ricercatori precari
è la prima cosa da fare se il nuovo Ministro
vuole rafforzare la sua posizione in un governo che
ha appena confermato una riduzione dei finanziamenti
all'Università. L'ennesima mazzata sul sistema
pubblico, dopo anni di
tagli alle risorse e di inascoltate mobilitazioni di
precari e studenti.
Ma torniamo al problema della natura del lavoro dei
ricercatori. Secondo il mainstream sulla flessibilità,
i ricercatori dovrebbero essere figure "forti"
sul mercato: il prototipo del lavoratore cognitivo,
conteso per le sue competenze, flessibile, mobile. Compensi
adeguati (oggi miseri in Italia, ma, secondoConfindustria
ad un convegno primaverile della Crui, non competitivi
con i costi del ricercatore cinese) e un buon welfare
risolverebbero per questo lavoratore in posizione "forte"
il problema dell'autonomia e del reddito, evitandogli
di sottoporsi ad un antiquato sistema.
Purtroppo però le cose non stanno così:
il ricercatore non è assimilabile ad un lavoratore
autonomo che si muova in un mercato concorrenziale.
Non solo le competenze sono sempre più riproducibili,
codificabili, ma soprattutto sonovalorizzate selettivamente
attraverso un processo organizzativo e regolativo che
vede il ricercatore in una posizione del tutto asimmetrica,
indipendentemente dalle sue qualità di lavoratore.
La taylorizzazione del lavoro cognitivo
significa infatti una scomposizione del lavoro in fasi
diseguali dal punto di vista delle
opportunità di valorizzazione dei saperi impiegati
nel prodotto finale, mentre il controllo su risorse
strategiche (a monte, con il reperimento e il controllo
delle risorse finanziarie-tecnologiche organizzative
e del reclutamento, e a valle sul mercato editoriale)
tende a concentrarsi in gruppi ristretti. Conservare
l'autonomia al lavoratore-ricercatore sulla base di
forme contrattuali instabili e finanziate dal mercato
è molto difficile, soprattutto per chi volesse
fare ricerca libera (che pretesa!) non inserita in scuole
disciplinari consolidate o finalizzata ad immediati
interessi di mercato. Né è scontato che
questo processo di immaginaria competizione su base
individuale, atomizzata, porti ad una maggior qualità
ed innovatività degli ouput: perché la
produzione diconoscenza ha sempre più un carattere
collettivo e perché non è riducibile a
logiche di mercato.
In conclusione, l'autonomia dei ricercatori e la valorizzazione
del loro lavoro è ancora largamente dipendente
dalla loro collocazione nella rete delle relazioni di
potere. Per quanto sia scomodo da ammettere, e in contrasto
con la retorica sulla società della conoscenza,
è la dimensione del potere a partire dalle relazioni
di lavoro che valorizza le competenze e i loro portatori,
anche e non a caso in unasocietà dove queste
risorse appaiono più abbondanti.
# # #
15 agosto
Reddito e salario: si parte dal lavoro e dal conflitto
Giovanna Vertova
Una mia critica al basic income ha dato vita ad una
accesa discussione
su tre questioni-chiave: le novità del capitalismo
contemporaneo; il
lavoro cognitivo; la centralità della lotta dentro
e contro il capitale.
Le posizioni di Fumagalli/Lucarelli, da un lato, e Bellofiore/Halevi
e
chi scrive, dall'altro, sono alternative. Per Fumagalli
la vita produce
ricchezza e valore: unico problema, la redistribuzione.
Il capitalismo
contemporaneo è accettato così com'è.
Non un riferimento all'instabilità
dei nuovi processi di valorizzazione, alle metamorfosi
monetarie, ai
conflitti geo-politici, all'insostenibile dinamica macroeconomica,
alla
nuova politica economica, quasi fossero irrilevanti.
Fumagalli e
Lucarelli, contraddittoriamente, vogliono essere realisti
(un reddito di
esistenza universale "può essere raggiunto
solo gradualmente a partire
da chi si trova nella condizione più sfavorevole
di intermittenza di
reddito o con lavori magari continuativi ma sottopagati")
e
incompatibili (il basic income deve essere elevato).
La debolezza
attuale fa elargire il basic income soltanto ad alcuni
lavoratori, crea
diritti differenziali, apre al ribasso del salario su
cui ho insistito.
Il desiderio fa sognare che quella debolezza mascheri
una forza tale da
infrangere le compatibilità strette del capitalismo
flessibile.
La fantasia secondo cui la vita è "produttiva",
sicché si retribuisce
qualcosa di già dato, dovrebbe eliminare la contraddizione.
Fumagalli e
Lucarelli ragionano come se fossimo di fronte ad una
appropriazione
meramente politica da parte del capitale di una produttività
che
"naturalmente" spetta al solo lavoro sociale,
e l'unico compito politico
è riappropriarsi di quanto è già
nostro. Peccato che, così come non
esiste il capitale senza il comando sul lavoro, non
esiste
"produttività"' del lavoro fuori dall'inclusione
nel capitale. Questo è
il capitalismo: una classe decide cosa, come, quanto
produrre; un'altra
deve necessariamente vendere la propria forza-lavoro,
"materiale" o
"immateriale" che sia il lavoro erogato. L'antagonismo
è possibile, ma
ha come centro la produzione. Ciò non contrasta
con l'introduzione di
ammortizzatori sociali contro la precarietà,
su un asse diverso da
quello del basic income, per la indisponibilità
della forza-lavoro a far
dipendere la propria esistenza dalle convenienze del
capitale. La
divisione tra economisti è, dunque, tra chi ritiene
che si debba
guardare in faccia il capitalismo di oggi così
com'è, e chi preferisce
rivolgersi al mondo dei sogni.
Morini e Tajani si tengono al concreto. Peccato che
ci diano una
immagine discutibile della realtà del lavoro,
con lo scivolamento
discorsivo per cui l'analisi della precarietà
(fenomeno che, in vario
grado, investe tutti i lavoratori) si concentra solo
sui lavoratori
della conoscenza, per una loro presunta centralità
empiricamente
contestabile. Anche nel terziario la gran parte delle
assunzioni è in
lavori a bassa qualifica e basso salario. Nello stesso
lavoro cognitivo
la taylorizzazione procede spedita, e così i
modi più o meno sofisticati
di controllare e misurare il tempo di lavoro. La fine
della teoria del
valore per la presunta non misurabilità del lavoro
affascina i teorici
post-operaisti: non sarebbe male che la notizia arrivasse
ai padroni che
sembrano esserne all'oscuro. Anche Morini e Tajani si
contraddicono: il
lavoro cognitivo è alienante e ripetitivo, ma
creativo. Il ragionamento
è noto. Lo strumento di produzione è oggi
la testa, non il braccio:
dunque lavoro e vita si confondono. La natura totalizzante
del capitale
può essere così rovesciata. Il lavoro
immateriale è oppresso, ma
possessore della conoscenza e delle condizioni di
comunicazione/coordinazione.
L'intervento di Freschi è prezioso perché
ricorda che il mondo del
lavoro è eterogeneo. Ridurre forzatamente all'unità
un mondo plurale
nega l'esigenza della riunificazione tra soggetti del
lavoro differenti
e con pari dignità, e sostituisce astrazioni
vuote all'inchiesta
concreta. Dentro il lavoro cognitivo è paradigmatico
il caso del
ricercatore precario. Le sue competenze sono sempre
più riproducibili,
codificabili, valorizzate selettivamente in processi
organizzativi e
regolativi segnati da rapporti di potere. Chi non crede
ad una
taylorizzazione spinta della conoscenza, dove si misura
ciò che si
pretende senza misura, dia una occhiata alle nostre
università. Non ci
si può attendere un cambiamento dalla mera garanzia
del reddito, ma solo
da una azione che sappia entrare nelle relazioni di
lavoro per
contestarne le asimmetrie di potere.
Sacchetto-Tomba e Gambino-Raimondi toccano il nodo centrale.
Individuando, i primi, lo sfondo categoriale dietro
il basic income. Un
paradigma a stadi per cui dall'estrazione di plusvalore
assoluto, tipico
del primo capitalismo e oggi della periferia, si passa
all'estrazione di
plusvalore relativo nel capitalismo attuale. Ciò
taglia fuori quattro
quinti del pianeta, e cancella (come notano Bellofiore
e Halevi) due
cose. Primo: la periferia è ormai dentro il centro
(e viceversa), anche
qui da noi. Secondo: il capitalismo ipertecnologico
e il lavoro
cognitivo si nutrono di plusvalore assoluto e di lavoro
materiale, nei
vari angoli del pianeta. Il nuovo capitalismo si gioca
sul controllo dei
tempi e sull'incremento dell'intensità di lavoro,
attraverso il
progresso tecnologico, la diffusione spaziale e la frantumazione
del
lavoro. A ragione Gambino e Raimondi mettono in risalto
la natura
transnazionale del problema e le condizioni materiali
del lavoro
"migrante".
E' vero: mi sarà contrapposta la dialettica tra
"ottimisti" e
"pessimisti". Ma la chiarezza su come stanno
le cose è il nostro primo
dovere. Mi preoccupa la progressiva discesa nell'idealismo.
Ancor di più
tra gli economisti della sinistra radicale. Sul debito
pubblico, sul
conflitto distributivo, ora sulla precarietà,
non si parte dal rapporto
capitale-lavoro, dalla composizione di classe, dall'inchiesta,
ma dalle
buone intenzioni. Io rimango testardamente convinta
che è dalle lotte
nel lavoro, e contro questo lavoro, che si deve ripartire.
# # #
19 agosto
Salario o reddito? Il dibattito estivo s'infiamma
una
lettera di Andrea Fumagalli
Nell'articolo pubblicato il 15 agosto 2006 dal titolo
"Reddito eSalario: si parte dal lavoro e dal conflitto"
di Giovanna Vertova, si
legge: "Per Fumagalli ... il capitalismo contemporaneo
è accettato così
come è". Tale affermazione è palesemente
falsa e incomprensibilmente
offensiva della mia storia e delle mie idee. Quanto
espresso da Vertova
è particolarmente sgradevole perché, oltre
al tono arrogante, è
apodittico: Vertova finisce per svolgere il solo ruolo
di censore delle
proposte altrui, assolvendosi dall'esprimere chiaramente
idee personalialternative sul tema e limitandosi a una
riduzione scorretta e
semplicistica del pensiero degli altri.
Ho discusso, su questo giornale come altrove, con gli
estensori di
proposte di riforma del welfare diverse da quella da
me formulata sempre
nel più ampio rispetto dei miei interlocutori,
a cui ho riconosciuto lo
sforzo (che è anche il mio) del "provare
a fare". Chi mi conosce sa
perfettamente che l'analisi che porto avanti da anni,
insieme ad altre ealtri che, come me, sono parte dell'ambito
di pensiero critico
neo-operaista ma non solo, ha a che vedere proprio con
i mutamenti del
processo di accumulazione e del mercato del lavoro.
La proposta di
reddito di esistenza nasce esattamente da questo ampio
contesto di
pensiero e di pratiche ed è strumentale allo
sviluppo del conflitto di
classe. Essa può essere, certamente, criticata
nel merito, ma non ci si
può permettere di definire e bollare coloro che
la propugnano nel modoforviante che, su queste pagine,
hanno utilizzato alcuni di coloro che
hanno preso parte a questo dibattito, a questo punto,
davvero, trasceso
nei toni oltre che nei contenuti.
Infine, dispiace che il manifesto, con il corsivo non
firmato del 4
giugno 2006, secondo cui chi propone il basic income
"favorisce
l'offensiva verso ciò che resta delle "garanzie"
del lavoro dipendente
conquistate in un secolo e più di lotte",
non sia stato parte neutraleall'interno di un dibattito
ben poco neutrale. Forse ha perso quella
capacità di elaborazione innovativa che ha caratterizzato
la sua
trentennale storia? Forse è questo che sta alla
base della sua
preoccupante crisi attuale?
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