Polemiche
a sinistra, in fondo
Lo scorso anno avevamo postato due commenti. Brevi,
essenziali, nel nostro stile. Certo, non bastavano ad
archiviare il caso Saviano
– anzi ne prevedevamo la persistenza – ma
erano sufficienti a delimitarlo.
*** Saviano,
un colpo di Stato, nel suo piccolo
Roberto Saviano scrive una lettera aperta a Berlusconi
e la Repubblica on line raccoglie le firme in suo sostegno.
Il documento non è banale, come invece sono spesso
gli scritti di Saviano; esso apre una nuova pagina in
questo martoriato paese, perché riconosce implicitamente
a Berlusconi la qualifica di primus super pares (per
dirla come i sostenitori del Lodo Alfano) o di monarca,
mentre Saviano è il suddito che lo prega di non
esercitare il suo potere assoluto in tutta la sua potenza.
Saviano, e con lui La Repubblica, sconvolgono i ruoli:
scavalcano il presidente della Repubblica, al quale
spetta la competenza di apporre la firma su un provvedimento
di legge emanato dalle Camere e svuota le Camere della
loro funzione legislativa. Il suo è un "colpo
di Stato dell'opposizione contro se stessa", operato
con argomentazioni vuote, tanto che lo stesso autore
ammette: "Non è una questione di destra
o sinistra. Non è una questione politica. Non
è una questione ideologica".
Le lettere e gli appelli che i sudditi russi scrivevano
allo zar provenivano da gente semplice, che non aveva
studiato e che credeva nel monarca-piccolo padre buono,
circondato da nobili serpenti. Un intellettuale difficilmente
cadeva nell'equivoco. Preferiva la prigione, l'esilio
interno o la fuga all'estero, da dove continuava a occuparsi
del suo paese. Saviano, mai perseguitato dal potere
e protetto dal nostro Stato con una scorta, con il suo
appello suggella la stagione di antipolitica condotta
da la Repubblica dall'aprile scorso. E lo fa nel modo
peggiore: senza incidere, senza assumersi un rischio,
senza un minimo di coscienza di classe, privo di qualsiasi
senso civico. Si tratta solo di una quarantina di righe
scritte in attesa dell'applauso. E niente più.
Marco Clementi,
14 novembre 2009
***
Santo subito!
«Non mi stupisco più di niente» è
un intercalare ormai vanamente propiziatorio. In realtà,
lo stupore è n+1, più di ieri meno di
domani. Veniamo a sapere che questo testo di MC ha suscitato
scandalo tra i suoi colleghi, e qualcuno gli ha tolto
il saluto. Intanto, la repubblica computa in duecentomila
le adesioni alla lettera di Saviano [sono arrivate a
oltre quattrocentomila]. Una firma, un logo, che viene
dal nulla. Cinquecentomila furono le firme all'appello
di tre stimati giuristi, in punto di diritto: ma l'ordine
di grandezza è lo stesso della supplica di Saviano.
La democrazia diretta si manifesta ormai nelle forme
accelerate della rete: dalla democrazia cantonale a
quella retale. Tutti a ignorare allegramente la Costituzione,
tanto c'è Vespa, tanto c'è Santoro. Troppa
partecipazione? Ora basta un clic su Saviano, e la democrazia
è salva.
O., 17
novembre 2009
Poi è successo che manifestolibri abbia
pubblicato "Eroi di carta", un libro di Alessandro
Dal Lago sul fenomeno Saviano. Farefuturo,
Luciano Violante (!) e Flores D'Arcais hanno menato
scandalo, gridato all'iconoclastia - come se le icone
si dovessero solo leccare -, alla delegittimazione...
Fin qui, tutto bene. Poi è accaduto
che il direttore editoriale di manifestolibri,
dopo tante polemiche, si è sentito in dovere
di intervenire
sul manifesto. Non già per difendere
Dal Lago e le sue argomentazioni, bensì il suo
diritto a pensarla diversamente. Sarà che le
tesi di Dal Lago non sono nelle sue corde, e che ha
stentato molto ad essere convincente, il povero Bascetta
ha scatenato un putiferio tra i lettori del manifesto,
che si sono equamente divisi tra pro e contro. Dal Lago,
dal canto suo, due giorni prima, aveva ribadito con
dignità e senza polemica lo schema del suo ragionamento.
Pareggio? Neanche per sogno. La direttora del
manifesto esce domenica 6 con un editoriale
che difende a spada tratta il Saviano show
e attacca lancia in resta chiunque critichi simili personalizzazioni.
Si dirà, affari loro - giornalisti e
lettori -, se la direttora prende partito scaricando
coloro che non si riconoscono in Saviano, e in cui anzi
scorgono uno scadimento del discorso, sia politico,
sia letterario. Proprio così, affari loro.
Tanto è vero che Gianni Riotta, ex del manifesto,
e ora direttore de Il Sole24ore, se ne esce
con suo editoriale
che più becero non si può - è
l'invidia, e solo l'invidia, a muovere i critici di
Saviano. In fondo, Rangeri, tranciando,
aveva unilateralmente individuato in Saviano un'icona
della Sinistra. Riotta invece, criticando il partito
Destra Sinistra che attacca Saviano, si mette
a capo di un partito Sinistra Destra che invece
dovrebbe difendere Saviano. Affari de Il
Sole24ore. Appunto.
O., 8
giugno
Inquinamento
- Il libro di Saviano ha due grossi difetti: da un punto
di vista letterario, è illegibile. Moltissimi
in privato confessano di essersi fermati a metà.
Ma il maggiore è che nessuno, e sfido chiunque
a farlo, è in grado di controllare le cose che
Saviano scrive. E questo è un male. E lo è
ancora di più quando leggo, sempre di Saviano,
l'introduzione a un libro della Politkovskaja, dove
egli inventa letterarmente le fasi del suo omicidio,
nonostante esistano registrazioni video e già
una sentenza. O quando afferma che Neda a Teheran sia
stata uccisa perché filmava la manifestazione
con il cellulare. Non è vero, e invito Saviano
a dimostrare il contrario. Dunque, per me Saviano è
un qualunquista che per una serie di coincidenze si
è ritrovato a svolgere una funzione che non può
fronteggiare con lo studio e l'analisi, ma con l'inquinamento
costante degli avvenimenti che cita, per riportare sempre,
infine, la sua figura al centro della scena. Marco
Clementi 6 giugno
Su
«il manifesto» si susseguono
da giorni gli interventi pro-Saviano. Dopo l'inedita
presa di posizione personale della neo-direttrice Norma
Rangeri si cerca evidentemente di cancellare la colpa
di aver pubblicato un libro di Alessandro Dal Lago un
po' critico con l'icona di Casal di Principe e qualche
intervento sulla stessa lunghezza d'onda di altri insospettabili
collaboratori storici. L'ultimo, con una «lenzuolata»
che deve aver messo non poco in difficoltà un
giornale di poche pagine, è di Severino Cesari,
noto critico letterario. Guai, insomma, a chi dubita
che Saviano sia «una speranza legata a una persona
capace di interpretare e di rappresentare qualcosa di
più di se stesso», il nuovo incorruttibile
anti-regime.
Un solo dubbio ci sia concesso. Questo Severino Cesari
è lo stesso che di mestiere fa il condirettore
della collana Stile Libero di Einaudi, marchio della
catena Mondadori, editrice en passant di Saviano
e notoriamente nel novero delle proprietà del
premier? Nessuno dubita - ne ha dato spesso prova -
che Cesari Severino abbia completa indipendenza di giudizio,
ma nel gergo editoriale questo tipo di interventi a
difesa del «prodotto di casa propria» si
chiamano giustamente marchette. Che il «conflitto
di interessi» sia ignorato dall'aspirante dittatore
di Arcore è cosa nota. Che facciano lo stesso
anche i suoi fieri critici è cosa però
disdicevole. Specie se, ahiloro, figurano anche tra
i suoi dipendenti. Girano malattie contagiose, nel laboratorio
dei mostri chiamato Italia.
Casimiro,
11 giugno
Autocensura.
La
legge bavaglio fotografa una situazione che nelle redazioni
dei giornali esiste da molto tempo. L'autocensura è
praticata, anche a sinistra, e il "caso Saviano",
aperto in realtà su queste pagine e poi proseguito
da Dal Lago per la manifestolibri, lo sta a dimostrare.
In pochi amano la "verità" in questo
paese, dove per "verità" intendo ciò
che è riscontrabile attraverso delle fonti certe
e terze. Quel bavaglio, se a sinistra lo si vuole davvero
combatere non in modo opportunistico (lo so che mi illudo),
lo si tolga alla libertà di critica e di verifica.
Poi, per le intercettazioni, vedremo.
Marco
Clementi, 12 giugno
NIE-NTE
New Italian Epic-New Tinge Ensemble
È capitato di leggere di Susanna
Tamaro Donne che uccidono i figli. Il senso
(perduto) della maternità, sul Corriere
della sera (qui).
Già la Tamaro, ce ne eravamo scordati. Dire che
Tamaro è un Saviano in gonnella sarebbe ingiusto,
perché il primato temporale spetta alla Signora.
Semmai, è Saviano una Tamaro con le polpe. Ma
allora perché non includere Susanna Tamaro nella
NIE? Ristabilita la primazia, le analogie sono illuminanti
e sconvolgenti. Non la relatività del punto di
vista, ma il corto circuito tra senso comune e ideologia.
Progredire in soggettiva: non può essere che
così, come io lo vedo, la scienza sono io nel
suo sviluppo. Il procedere vedendo che è vero,
mentre nessuna scienza particolare è lì
a temperare o a validare le affermazioni. Non occorrono
esperti, l'esperto sono io. Tamaro è donna, quindi
chi più di lei può asserire che cosa deve
fare una donna per essere donna, proprio come uno di
Casal di Principe può dire che cosa sono le società
criminali... E vanno dove li porta il cuore.
Attraverso la produzione di tasselli che, come tessere
di un caleidoscopio vengono costretti in un quadro sorprendente.
Il punto d'arrivo del populismo letterario sembra essere
questo: se dopo una vita dedicata alla letteratura l'autore
è diventato un personaggio, le nuove leve si
dispongano a costruirsi come personaggio a cui riferire
le eventuali successive scritture. E infatti, ormai,
ogni caso letterario è un'icona. La cui formazione
è quasi sempre oscura e incerta, individui senza
padri né madri, homines e dominae(?)
novi. Un nuovo genere? Beh, sì e no,
perché si tratta di un genere che tutti li rappresenta,
e da tutti è attraversato. Prima o poi doveva
accadere alla generazione che è andata per generi.
G. Dekodra,
15 giugno
San
Roberto dalla Campania
Note sulla fenomenologia di un eroe contemporaneo
di Davide Pinardi
(pubblicato su PaginaUno
n. 16, febbraio/marzo 2010)
Lo
sguardo è penetrante, l’espressione sofferta.
È chiaro, con la vita che fa, con quella scorta
che ha tolto ogni rifugio alla sua esistenza, che gli
impedisce il nido di una casa, il calore di una famiglia...
L’estetica fotografica con la quale viene ritratto
è barocca e sempre uguale: il volto ha tratti
caravaggeschi ed è illuminato da una luce che
giunge da lontano, che sottolinea la barba lunga, soffertamente
impegnata, del nostro eroe e gli dà rilievo nel
mezzo di un oceano di ombre. Sì, lui è
il Cavaliere della Bellezza – illuminato da una
Grazia superiore – che lotta contro il buio del
Male.
Il suo sito internet è ricco, ben curato, con
versioni in tedesco, francese, inglese e spagnolo.
La sua agenzia editoriale è la più alla
moda del Paese. Ma tutto ciò è necessario:
Roberto Saviano – di lui stiamo parlando –
non è più un personaggio di cronaca locale
ma un fenomeno globale, un vero protagonista del nostro
tempo, e rappresenta la storia edificante ed esemplare
di un giovanotto che, pur nato nell’infame, immonda,
sozza provincia campana, sa levarsi animato da una superiore
caratura etica, sa riscattarsi con le proprie forze
dalle colpe della sua terra, sa ergersi a coscienza
etica del mondo...
Giovanni Di Lorenzo, il direttore del settimanale tedesco
Die Zeit, nella sua laudatio per il premio Fratelli
Scholl – assegnato nel 2007 ad Anna Politkovskaja,
senza scorta e assassinata – sostiene che “al
momento non c’è nessuno in Italia con una
storia che mi commuova e mi indigni quanto quella di
Roberto Saviano. […] Si ritrova, lui che ha ancora
trent’anni, a portare due fardelli, di quelli
che uno solo basterebbe a schiacciare un uomo”.
Pur avendo nome e cognome italiano, il direttore conosce
poco e soprattutto male il nostro Paese. In poche ore
trascorse non nei salotti ma per le strade, il bravo
giornalista potrebbe raccogliere mille e mille storie
italiane molto più commoventi e degne di indignazione.
Storie di persone con fardelli che schiaccerebbero non
uno ma cento uomini. Storie di extracomunitari annegati,
di rom perseguitati, di piccoli commercianti taglieggiati,
di precari disperati, di prostitute massacrate, di detenuti
dimenticati...
Storie di poveretti infelici, microscopici e sfigati,
che, purtroppo per loro, non sono sostenuti dalla più
grande industria editoriale nazionale di proprietà
del capo di governo, non sono idolatrati da grandi giornali
di opposizione (opposizione?), non sono ospitati sulle
reti pubbliche in prima serata da trasmissioni nazionali
e portati in scena con complesse scenografie teatrali.
Roberto Saviano dice di odiare il suo libro Gomorra
perché (se anche lo ha reso ricco) gli ha rovinato
la vita: “Lo detesto. Quando lo vedo nella vetrina
di una libreria guardo subito dall’altra parte”.
C’è da domandarsi quanti siano i testimoni
in processi al crimine organizzato che odiano il giorno
in cui hanno accettato di denunciare ed esporsi, in
cui hanno dovuto cambiare nome, sparire dalla circolazione,
abbandonare luoghi, radici, parenti e amicizie: e che
non ricevono né
plausi, né nobili inviti, né ammirazione
(quasi) generale ma si ritrovano invece nella solitudine
(e nella povertà).
Saviano è amato da quasi tutti. Va bene come
merce da esportazione: ‘ah, meno male che c’è
anche un’Italia pulita...’; va bene all’opposizione
ufficiale, che supplisce alla propria inesistenza (o
connivenza) politica con il plauso ebete alle icone
comiche, culturali e televisive (con le quali bisognerebbe
solidarizzare perché perseguitate dal Presidente/Imperatore);
va bene a coloro che, con un click telematico al giorno
a favore di testi di cui forse non capiscono bene il
senso, si sentono sinceramente convinti di contribuire
a migliorare il Paese; va bene alla fondazione FareFuturo
che lo trova “un grande pensatore di destra”;
va bene perfino ai leghisti, perché si erge come
l’esule schifato di una cultura meridionale corrotta
e inetta (purché non dica che Milano è
una città del Sud!). Va bene infine a chi è
al governo, perché esprime un’alata testimonianza
‘di coscienza’ che vola alta, altissima,
e non si abbassa mai a una concreta contrapposizione
ai veri rapporti di potere – dopo l’appello
lanciato su Repubblica contro la legge sul
processo breve, il ministro Bondi affettuosamente lo
invita a “non abbandonare il suo impegno civile
e culturale tanto più limpido e ascoltato quanto
più alieno da pregiudizi ideologici”; Saviano
risponde ringraziando, apprezzando “il tono rispettoso
e dialogante”, affermando che “certe questioni
non possono né devono essere considerate appannaggio
di una parte politica” e che “schierarsi
non significa ideologicamente”.
Bisogna riconoscerlo, Saviano sa scegliere con cura
le cause per le quali ergersi commosso: apertamente
a favore di quelle potenzialmente molto ‘popolari’,
sparisce in un silenzio di tomba rispetto a quelle ‘impopolari’
(simile in questo all’altro pezzo di quarzo Nanni
Moretti, che si indigna soltanto quando sta per uscire
un suo film da ‘promozionare’). Saviano
con caschetto da pompiere e molto ben accolto dalla
Protezione civile denuncia le vergogne collegate al
terremoto in Abruzzo: chi può non essere d’accordo?
(Anche se poi si fa prendere la mano e aggiunge generiche
considerazioni sulla presenza storica della mafia in
quella regione che lasciano basiti molti abruzzesi:
tutti conniventi con la criminalità organizzata?)
Qualcuno l’ha sentito invece in occasione del
quasi pogrom contro i rom di Ponticelli? Qualcuno lo
ha sentito dire che lo sfruttamento neo-schiavista degli
extracomunitari è dovuto a un sistema economico
che in Italia è fisiologico e non patologico?
Qualcuno lo ha sentito denunciare la tragedia del precariato?
Preferisce una puntatina a Barcellona per una toccante
intervista al calciatore Lionel Messi, Pallone d’Oro
2009...
In televisione cita Varlam Salamov e Ken Saro-Wiwa (e
si legittima implicitamente come eroico ‘scrittore
civile’). Piccolo particolare: Varlam Salamov
ha fatto diciotto anni di gulag sotto Stalin, Saro-Wiwa
è stato impiccato in Nigeria dopo un processo
farsa. Nessuno di loro ha avuto la scorta dal ministero
degli Interni.
Settimane fa il comune di Milano – tra Ambrogini
d’oro che premiano Marina Berlusconi e i nuclei
di vigili che danno la caccia ai clandestini (si badi,
gente che viene presa a caso sui tram e messa in gabbia
senza aver commesso alcun reato) – ha votato all’unanimità
per offrirgli la cittadinanza onoraria: l’offerta
non è stata respinta con sdegno.
Pochi criticano Saviano.
L’ha fatto Vittorio Pisani, capo della Squadra
mobile di Napoli, che afferma di aver dato parere negativo
alla concessione allo scrittore della scorta: “Ho
arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato
e giro per la città con mia moglie e con i miei
figli senza scorta. Non sono mai stato minacciato. […]
Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno
fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati
e giornalisti che combattono la Camorra da anni”.
L’ha osato fare anche Nicola Tanzi, segretario
generale del Sap, Sindacato autonomo di polizia: Saviano
“non è un eroe, al contrario dei poliziotti
che stanno tutti i giorni in prima linea sul campo.
[…] La lotta alla Camorra non si fa col varietà,
con le luci abbaglianti degli studi televisivi e le
paillettes di prima serata, né l’impegno
antimafia ha bisogno di showman. La vera lotta si svolge
in trincea ed è sostenuta giorno per giorno da
migliaia di poliziotti e di appartenenti alle forze
dell’ordine che sul campo contrastano il crimine
organizzato”.
Qualcuno ha avuto dei dubbi davanti a queste dichiarazioni?
Neanche per sogno. In compenso i due poliziotti sono
stati quasi additati come complici, più o meno
coscienti, della Camorra. Saviano ha denunciato di sentire
l’inizio di un abbandono, di un isolamento, di
uno sgretolarsi di quella compattezza istituzionale
e civile che fino ad allora l’aveva protetto,
ricordando che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo
Siani “hanno pagato con la vita la loro solitudine”;
subito si sono mossi opinione pubblica, giornali, capo
della Polizia...
Ma se Saviano è così spaventosamente pericoloso,
per la Camorra, perché questa – impossibilitata
dalla scorta a colpire lui – non minaccia il presentatore
Fabio Fazio, l’indifesa agenzia letteraria, il
regista Matteo Garrone (che, anzi, ha avuto via libera
per tutte le riprese a Scampia), l’ufficio commerciale
di Mondadori, le librerie che espongono il suo libro,
eccetera? Perché non minaccia le redazioni di
Repubblica e de L’Espresso che pubblicano i suoi
preziosi articoli? Perché non intimidisce chi
lo propone come candidato alla presidenza della Regione
Campania?
Quando lui cercava casa a Napoli (al Vomero, il quartiere
bene della città), dopo aver visto sei appartamenti
(alcuni dei quali non andavano bene a lui...) ne ha
scelto uno che però gli sarebbe stato rifiutato
dalla proprietaria perché i vicini le avevano
detto che “nella via si sarebbe persa la pace”.
Saviano, indignato per il rifiuto, avrebbe interrotto
la ricerca dichiarando di voler espatriare, andarsene
via per sempre. Non l’ha fatto.
Ma intanto era subito scattata una grande solidarietà
nei suoi confronti. Gennaro Capodanno, presidente del
Comitato valori collinari di Napoli, si era dichiarato
amareggiato e deluso offrendosi per una collaborazione
alla ricerca di una casa se Saviano avesse cambiato
idea. Il sindaco di Giffoni Valle Piana aveva offerto
a titolo gratuito un antico casale ristrutturato, immerso
tra gli ulivi secolari del borgo medioevale di Terravecchia
e di proprietà del comune, “da cui si gode
il paesaggio mozzafiato e il castello federiciano. Siamo
certi che in quest’oasi di pace e tranquillità
Saviano ritroverà nuovi stimoli per poterci consegnare
altri capolavori. Lo invitiamo, pertanto, fin da ora
a partecipare alla prossima edizione del Giffoni Film
Festival...”.
E la Camorra a loro non dice niente?
Ma che cosa possono pensare i tanti senzacasa napoletani,
o quelli che soltanto con abusi edilizi si sono messi
un tetto sulla testa? Loro sono gli infami, gli zozzi,
gli ignoranti. Loro non meritano una casa regolare.
Tanto più un casale gratis, un’oasi di
pace...no. Loro meritano l’Inferno in cui vivono.
Il caso di Saviano – a mio avviso – è
esemplare dell’ipocrisia di quest’epoca,
dei suoi precipitosi innamoramenti mediatici, della
sua incapacità di analizzare senza schemi precostituiti,
della sistematica mancanza di approfondimento critico
in tanti operatori dell’informazione, della rapidità
nella costruzione di miti ‘facili’ per distrarre
dai veri tragici disastri politici, sociali ed economici
del presente.
Ora,
tocca a Taricone. Saviano non perde
un colpo "Io
e lui compagni di scuola". Dopo Neda e Anna
Politkovskaja un altro cadavere su cui rovesciare la
marmellata di parole che da tempo lo connota come uno
dei peggiori epifenomeni della nostra quotidianità.
Eppoi, tra i due passano 4 anni e mezzo (1975, febbraio,
Taricone e 22 settembre 1979, Saviano). Compagni
di scuola? Ma mi faccia il piacere! MC
[Compagni
di scuola. Anche Ludwig Wittgenstein
e Adolf Hitler erano compagni
di scuola, alla Realschule di Linz nell'anno
scolastico 1904-1905. Ma pur essendo coetanei (Hitler,
20 aprile 1889, Wittgenstein, 26 aprile 1889), non hanno
frequentato la stessa classe in quanto il giovane Adolf
stava due anni indietro – abbandonò l'anno
seguente per via dei mediocri risultati, della serie:
ultimi nella scuola, primi nella vita –,
e comunque non ci sono prove di un loro incontro, magari
in corridoio, né c'è traccia di elogi,
più o meno reciproci. O.]
Walter
G. Pozzi, direttore di paginaUno,
scrive su Roberto
Saviano e la produzione del sapere ai tempi del consumismo
cogliendo l'occasione per ricondurre la vicenda ai garbugli
dell'industria culturale, in cui la figura di Saviano,
più che desantificata, viene svuotata.
Inquietante
o intrigante?
Quali tratti hanno in comune i Wu Ming e Berlusconi?
Demonizzano chi tenta la desantificazione.
I contraddittori avversano perché sono invidiosi.
Comunque, non resta che appellarsi direttamente al popular,
se non al popolo, senza defatiganti mediazioni. Inquietante?
Per molti invece risulterà intrigante! O.
* * *
Il
contratto di libera schiavitù. Quando
la fantasia arriva prima di Marchionne.
Ernesto Screpanti,
che insegna Economia politica all'Università
di Siena, ha pubblicato con noi Un mondo
peggiore è possibile. Sei perle dalla
triste scienza. Sei paradossi, apparenti.
Ecco l'incipit della prima perla, intitolata
La soluzione definitiva al problema della disoccupazione:
«Il
contratto di schiavitù è un patto col
quale i lavoratori assumono un obbligo all’obbedienza
perpetua nei confronti della controparte e rinunciano
a negoziare il salario e le condizioni di lavoro, ricevendo
in cambio un reddito di sussistenza vita natural durante.
La controparte acquista un diritto di proprietà
sul lavoratore.
Cosa succederebbe se tale contratto fosse permesso?
Una percentuale non irrilevante di poveracci (tra i
disoccupati, i sottoccupati, i precari, gli immigrati),
lo accetterebbe subito volontariamente... » Ernesto
Screpanti, Un
mondo peggiore è possibile.
Sei perle dalla triste scienza, prefazione di Francesco
Muzzioli, 2006, Roma Odradek edizioni, p. 25.
Ci
penserà Marchionne
a rendere più
"realistico" il contratto: licenziando
gli schiavi
*
Ernesto
Screpanti, che ci legge, ci fa notare
che:
«Questa
vostra aplicazione empirica delle mie teorie dimostra
che il mio lavoro si sta rivelando scientificamente
utile. Ora mi rendo conto che non era un modello distopico,
ma uno studio adeguato dei processi storici in atto.
Sarebbe interessante se qualcuno si divertisse a spiegare
il mondo attuale sulla base di quel modello. Un
mondo peggiore non è solo possibile: è
in fase avanzata di realizzazione.
Provare a spiegare Berlusconi col modello del dittatore
benevolente (sesta perla). Attraverso
elezioni democratiche i cittadini "assegnano al
presidente il compito di massimizzare una funzione del
benessere sociale basata sul principio: massima libidine
per il più gran numero di persone" (p. 87).
Il presidente trasforma lo stato in un'azienda su cui
ha il potere assoluto di un manager. Governa col consenso
degli azionisti-cittadini, e potrà continuare
a governare fintanto che distribuirà qualche
utile.
Marchionne sta facendo qualcosa di speculare dentro
l'azienda: un manager-presidente che ha potere
assoluto sui sudditi col loro consenso.
Mai l'isomorfismo azienda-stato è stato più
vicino alla realizzazione storica».
E.S.- 25 giugno
Caro
Ernesto,
è nota la tua avversione per Hegel e la dialettica,
e in questa disposizione non rischi certo di sentirti
solo. Sarà per questo, forse, che sei il primo
a stupirti nello scoprire che quello che a te sembrava
la costruzione di un paradosso altro non era
che l'anticipazione della realtà. Il tuo indegno
editore, però, aveva colto che la cortocircuitazione
di elementi apparentemente eterogenei, se non opposti
– democrazia-dittatura, Stato-azienda –
non avrebbe condotto che a rivelare contraddizioni,
contraddizioni reali, rilasciando come effetto
collaterale, e riprova, uno sciame di ossimori
e poi di chiasmi. Nel tuo libro non manchi
– nell'Appendice – di individuare
il processo. Le forme che la scienza economica
ha determinato e liberato – le forme, Ernesto,
le forme – apparivano come il prodursi
di chiacchiere nella testa degli economisti, e invece
rappresentavano interessi in conflitto. C.D.B.-
28 giugno
***
SAGGI
CORSIVI-Che
riguardo alla produzione e alla riproduzione della conoscenza
nulla sia più come prima, editori come Odradek
lo sanno bene. E in particolare, che il libro non è
più l'unità di misura dell'apprendimento
e della costruzione di sé. Sul tema dell'irresponsabilità
delle nuove enciclopedie si era occupata Francesca
Verdecchia sull'Almanacco
Odradek 2007. Giunge a proposito l'acuminata analisi
di Francesco Piccioni su
Alias
del 31 ottobre.
«Carneade,
chi era costui?»
Francesco
Piccioni
Il rovello di Don Abbondio cade in un contesto decisamente
mutato. Lui non poteva che far ricorso alla sua memoria,
ai pochi libri in dotazione o a qualche «sapiente»
casualmente di passaggio. Oggi basta digitare il nome
dell'antico filosofo greco in un qualsiasi motore di
ricerca per trovare oltre centomila citazioni, a cominciare
naturalmente dalle principali enciclopedie on line:
Wikipedia e Encarta. Rispondenti tra l'altro a due diversi
modelli di produzione della conoscenza. Una
prima considerazione riguarda la dislocazione della
memoria: dal soggetto all'archivio. Si tratta di un
trasferimento che ha una sua storia: l'uomo ha fin dall'inizio
affidato ai «depositi» la conservazione
del suo sapere. E fin dalla notte dei tempi la gestione
degli «indici», le mappe per ritrovare le
nozioni immagazzinate è stata un momento essenziale
della conservazione della conoscenza. Mai prima d'ora,
però, si era avuta un altrettanto drastico svuotamento
della memoria del vivente a favore dell'inanimato. Solo
ora si può non sapere assolutamente nulla, se
non le procedure per avviare il computer e formulare
le richieste, e conservare comunque l'impressione di
controllare i processi che preparano le nostre decisioni.
Sembra un problema tecnico, ma si tratta di uno sradicamento
di portata epocale.
Ognuno, infatti, si ritrova a maneggiare informazioni
di cui spesso ignora sia il processo di elaborazione,
sia il tasso di attendibilità. Ciascuno di noi
ha una vita densa di impegni e non dispone di molto
tempo da dedicare alla verifica delle nozioni-base (i
«mattoni della decisione»). Chi garantisce
dunque che una data informazione sia corretta? In altri
termini: a chi affidiamo il controllo di verità
su quel che usiamo per districarci nel mondo?
Non è un problema «nuovo». Anzi,
ha ricevuto una formulazione e una sistematizzazione
importante all'alba dell'epoca moderna, in pieno fermento
illuminista. L'enciclopedia è nata esattamente
per rispondere a queste più che legittime domande,
allorquando la dimensione del sapere ha sorpassato irresistibilmente
i confini della individuale capacità di memorizzazione.
La comunità scientifica era l'unico soggetto
cui era possibile delegare quel che abbiamo chiamato
il «controllo di verità». Un affidamento
comunque esposto all'errore individuale, all'evoluzione
della conoscenza, allo «spirito del tempo»
e quindi alle ideologie dominanti in un determinato
periodo o territorio culturale. Il «controllo
sui controllori» si è perciò concretizzato
per un verso nel ricoscimento dell'infinita perfettibilità
dell'opera di immagazzinamento (le revisioni periodiche
delle singole voci), per l'altro tramite l'attribuzione
di responsabilità individuale o collettiva per
quel che veniva distillato e depositato nelle enciclopedie.
La regola invalsa è stata quindi precisa: ogni
voce andava firmata da una singola persona o da una
redazione collettiva. Un modo onesto di riconoscere
che «la verità» è una costruzione
senza fine, e quindi di «segnare la via»,
piantando segnali e «facendo i nomi».
La conoscenza in rete non possiede più queste
caratteristiche. O meglio: in qualche ambito si è
conservata questa sana stipulazione, in molti casi no.
Questo costringerebbe ogni volta a porsi nuovamente
la domanda: chi lo dice? Ma proprio la modalità
d'uso della rete trasforma in un impaccio l'autointerrogarsi.
Il sogno dell'enciclopedia il deposito di tutto il sapere
– ha ricevuto on line una nuova formulazione,
sposandosi ideologicamente con l'utopia democratica:
ognuno può concorrere. Le due cose, palesemente,
non stanno insieme. Il principio democratico permette
a chiunque di esprimersi, la formulazione di un asserto
scientifico (ossia valido temporaneamente erga omnes)
richiede invece competenze non comuni. Episteme
e doxa sono alternativi, non convergenti.
L'esempio è ovviamente Wikipedia, «l'enciclopedia
libera». Quest'opera collettiva riassume in sé
il meglio e il peggio del problema della conoscenza
totale. Ci dà molta informazione, ma straordinariamente
difforme quanto ad attendibilità. Con qualche
paradosso non inatteso. E' infatti molto attendibile
nelle voci inscrivibili nelle cosiddette «scienze
esatte», mentre è insopportabilmente sciatta
in quelle «storiche» o «umane»
che dir si voglia. La ragione di questa discrasia è
facilmente individuabile nello stesso meccanismo di
elaborazione delle singole voci. Come avviene in una
qualsiasi discussione da bar, infatti, nessuno si azzarda
a dare la «sua versione» della teoria della
relatività o della fotosintesi clorofilliana.
Ma, proprio come nelle «democratiche» discussioni
tra incompetenti, ognuno si sente in grado di dir la
propria sulla migliore formazione possibile per la nazionale
di calcio o la composizione del governo.
Questa irresistibile tensione al protagonismo dell'ignorante
non è ovviamente ignota ai curatori di Wikipedia.
Che hanno risolto il problema facendo un passo indietro
rispetto al programma originario (la possibilità
di modificare ogni voce da parte di chiunque), approdando
alla formazione di «gruppi» responsabili
di un certo campo di voci,. E' un passo nella direzione
tipica dell'enciclopedia «classica», ma
senza l'individuazione di una «comunità
scientifica» universalmente riconosciuta e senza
la decisiva attribuzione di responsabilità per
quel che viene «depositato». Anzi, proprio
sulle voci più controverse (non a caso quelle
storico-politiche) è facilmente verificabile
come esistano vere e proprie «mini-comunità
proprietarie» che esercitano un controllo assoluto
e «irresponsabile» sul piano scientifico,
quindi solo «ideologico» dei contenuti.
Chiunque provi a «modificare» una singola
voce può farne esperienza. Invece della comunità
scientifica abbiamo qui dei «gruppi simpatetici»
privi di ogni caratteristica propria della «scienza».
A partire dalla competenza certificabile e quindi dalla
«firma» sotto ogni formulazione.
Specie nelle discipline storiche o umane l'»imparzialità»
in Wikipedia ridotta a impossibile «neutralità»
è stata tematizzata da molto tempo. Come ricorda
ad esempio Cesare Bermani, «la sola obiettività
possibile per chi fa professione di storico» non
consiste nel negare di possedere «una matrice
ideale, culturale, politica», ma al contrario
nel «dichiararla apertamente», in modo da
permettere ai fruitori presenti e futuri di «fare
la tara» su quel che si dice. Insomma: chi pretende
di esser neutrale non può che essere, sul piano
intellettuale, uno che dissimula la propria opinione;
un modo di procedere «disonesto». Vale per
i singoli individui, ma anche per i progetti collettivi
mal congegnati.
***
Il
«piccolo» annaspa portando con sé
competenze e futuro
Tommaso De Berlanga
il manifesto, 20 ottobre 2009, p. 3
C'è
qualcuno in Italia che batte la sinistra quanto a mancanza
di idee: gli imprenditori. E, come la sinistra, si fanno
male da soli. Ma, al contrario della prima, le imprese
hanno stravinto nell'autoaffermazione ideologico-identitaria:
lasciate fare a noi, lo stato si tiri indietro. Bene,
hanno avuto tutto quel che volevano; ma ora non sanno
più che fare. Ognuno chiuso nel suo business
e la prospettiva - l'esser parte di un sistema - scompare.
Intendiamoci: gli imprenditori non sono tutti uguali.
Da un lato c'è la finanza, che raccoglie profitti
e debiti, li centrifuga in prodotti irriconoscibili
e li piazza in giro per il mondo. Da un'altra c'è
la produzione più o meno materiale, che fa i
conti con la domanda reale e la solvibilità dei
potenziali clienti.
Anche
in questo campo esistono differenze evidenti: ci sono
le imprese internazionalizzate, ormai saldamente piantate
nei flussi produttivi e commerciali globali, e le piccole-medie
imprese (in realtà tutte egualmente piccole,
sulla grande scala) che attendono impazienti una commessa.
Proprio come un dipendente che attende un lavoro. E
in fondo proprio questa è la loro origine, spesso.
La piccola impresa, all'inizio degli anni Ottanta, è
diventata l'«ammortizzatore sociale» per
decine di migliaia di operai e impiegati espulsi dalla
«grande ristrutturazione» avviata con i
35 giorni della Fiat Mirafiori. Ex dipendenti che «sanno
fare» e ragionano «da imprenditori»,
manco fossero Agnelli o Berlusconi.
Le «internazionali» hanno progetti, ricerca,
visione d'insieme. Possono fallire, certamente, ma sono
protagoniste del proprio destino. Le «locali»
sperano. Ma nulla di quel accade di importante dipende
da loro. Al massimo, premono per avere un'amministrazione
locale più o meno attenta ai loro problemi. Che
cambiano continuamente, a seconda dei venti globali.
Il problema è che ora non hanno quasi più
una «nicchia» in cui mantenere radici.
La delocalizzazione (e l'internalizzazione senza progetto,
né diritti del lavoro migrante) ha distrutto
il potere del lavoro dipendente, ma anche la sua «qualità»,
la «differenza specifica», il «valore
aggiunto». La generazione che sta per andare in
pensione, e che viene perciò privilegiata in
caso di «esuberi», rischia di portare in
questo «aldilà» competenze stratificate
nell'operare collettivo di secoli. «Bloccare i
licenziamenti» non è soltanto una sacrosanta
richiesta sindacale in difesa dei lavoratori; è
anche una forma di autodifesa del «sistema paese»
di fronte al deserto di un «saper fare»
che va perso. La crisi delle aree industriali è
ancora malamente mascherata dal ricorso alla cassa integrazione.
Quando finirà - e, se la ripresa «sarà
lenta», non potrà che finire prima di ogni
possibile rilancio - si dovranno contare i caduti. Il
«piccolo è bello» è stata
un'ideologia con effetti concreti. L'arretramento dello
stato sul piano dell'economia lascia un vuoto drammatico:
nessuna politica industriale e una politica economica
ridotta a un confuso agglomerato di «stimoli»,
esenzioni, defiscalizzazioni, scudi fiscali e finanziamenti
dedicati ai grandi gruppi «amici» (dalle
grandi opere infrastrutturali alle piscine comunali).
Come spiega uno degli imprenditori varesini interpellati,
«questa è una borghesia che non ha più
rapporto con il territorio, che chiede soldi allo stato
e piange; sono commercianti trasferiti all'imprenditoria.
E non è la stessa cosa».
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