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Polemiche a sinistra, in fondo
Lo scorso anno avevamo postato due commenti. Brevi, essenziali, nel nostro stile. Certo, non bastavano ad archiviare il caso Saviano – anzi ne prevedevamo la persistenza – ma erano sufficienti a delimitarlo.


*** Saviano, un colpo di Stato, nel suo piccolo
Roberto Saviano scrive una lettera aperta a Berlusconi e la Repubblica on line raccoglie le firme in suo sostegno. Il documento non è banale, come invece sono spesso gli scritti di Saviano; esso apre una nuova pagina in questo martoriato paese, perché riconosce implicitamente a Berlusconi la qualifica di primus super pares (per dirla come i sostenitori del Lodo Alfano) o di monarca, mentre Saviano è il suddito che lo prega di non esercitare il suo potere assoluto in tutta la sua potenza. Saviano, e con lui La Repubblica, sconvolgono i ruoli: scavalcano il presidente della Repubblica, al quale spetta la competenza di apporre la firma su un provvedimento di legge emanato dalle Camere e svuota le Camere della loro funzione legislativa. Il suo è un "colpo di Stato dell'opposizione contro se stessa", operato con argomentazioni vuote, tanto che lo stesso autore ammette: "Non è una questione di destra o sinistra. Non è una questione politica. Non è una questione ideologica".
Le lettere e gli appelli che i sudditi russi scrivevano allo zar provenivano da gente semplice, che non aveva studiato e che credeva nel monarca-piccolo padre buono, circondato da nobili serpenti. Un intellettuale difficilmente cadeva nell'equivoco. Preferiva la prigione, l'esilio interno o la fuga all'estero, da dove continuava a occuparsi del suo paese. Saviano, mai perseguitato dal potere e protetto dal nostro Stato con una scorta, con il suo appello suggella la stagione di antipolitica condotta da la Repubblica dall'aprile scorso. E lo fa nel modo peggiore: senza incidere, senza assumersi un rischio, senza un minimo di coscienza di classe, privo di qualsiasi senso civico. Si tratta solo di una quarantina di righe scritte in attesa dell'applauso. E niente più.
Marco Clementi, 14 novembre 2009


*** Santo subito!
«Non mi stupisco più di niente» è un intercalare ormai vanamente propiziatorio. In realtà, lo stupore è n+1, più di ieri meno di domani. Veniamo a sapere che questo testo di MC ha suscitato scandalo tra i suoi colleghi, e qualcuno gli ha tolto il saluto. Intanto, la repubblica computa in duecentomila le adesioni alla lettera di Saviano [sono arrivate a oltre quattrocentomila]. Una firma, un logo, che viene dal nulla. Cinquecentomila furono le firme all'appello di tre stimati giuristi, in punto di diritto: ma l'ordine di grandezza è lo stesso della supplica di Saviano. La democrazia diretta si manifesta ormai nelle forme accelerate della rete: dalla democrazia cantonale a quella retale. Tutti a ignorare allegramente la Costituzione, tanto c'è Vespa, tanto c'è Santoro. Troppa partecipazione? Ora basta un clic su Saviano, e la democrazia è salva.
O., 17 novembre 2009


Poi è successo che manifestolibri abbia pubblicato "Eroi di carta", un libro di Alessandro Dal Lago sul fenomeno Saviano. Farefuturo, Luciano Violante (!) e Flores D'Arcais hanno menato scandalo, gridato all'iconoclastia - come se le icone si dovessero solo leccare -, alla delegittimazione... Fin qui, tutto bene. Poi è accaduto che il direttore editoriale di manifestolibri, dopo tante polemiche, si è sentito in dovere di intervenire sul manifesto. Non già per difendere Dal Lago e le sue argomentazioni, bensì il suo diritto a pensarla diversamente. Sarà che le tesi di Dal Lago non sono nelle sue corde, e che ha stentato molto ad essere convincente, il povero Bascetta ha scatenato un putiferio tra i lettori del manifesto, che si sono equamente divisi tra pro e contro. Dal Lago, dal canto suo, due giorni prima, aveva ribadito con dignità e senza polemica lo schema del suo ragionamento. Pareggio? Neanche per sogno. La direttora del manifesto esce domenica 6 con un editoriale che difende a spada tratta il Saviano show e attacca lancia in resta chiunque critichi simili personalizzazioni. Si dirà, affari loro - giornalisti e lettori -, se la direttora prende partito scaricando coloro che non si riconoscono in Saviano, e in cui anzi scorgono uno scadimento del discorso, sia politico, sia letterario. Proprio così, affari loro.
Tanto è vero che Gianni Riotta, ex del manifesto, e ora direttore de Il Sole24ore, se ne esce con suo editoriale che più becero non si può - è l'invidia, e solo l'invidia, a muovere i critici di Saviano. In fondo, Rangeri, tranciando, aveva unilateralmente individuato in Saviano un'icona della Sinistra. Riotta invece, criticando il partito Destra Sinistra che attacca Saviano, si mette a capo di un partito Sinistra Destra che invece dovrebbe difendere Saviano. Affari de Il Sole24ore. Appunto.
O., 8 giugno

Inquinamento - Il libro di Saviano ha due grossi difetti: da un punto di vista letterario, è illegibile. Moltissimi in privato confessano di essersi fermati a metà. Ma il maggiore è che nessuno, e sfido chiunque a farlo, è in grado di controllare le cose che Saviano scrive. E questo è un male. E lo è ancora di più quando leggo, sempre di Saviano, l'introduzione a un libro della Politkovskaja, dove egli inventa letterarmente le fasi del suo omicidio, nonostante esistano registrazioni video e già una sentenza. O quando afferma che Neda a Teheran sia stata uccisa perché filmava la manifestazione con il cellulare. Non è vero, e invito Saviano a dimostrare il contrario. Dunque, per me Saviano è un qualunquista che per una serie di coincidenze si è ritrovato a svolgere una funzione che non può fronteggiare con lo studio e l'analisi, ma con l'inquinamento costante degli avvenimenti che cita, per riportare sempre, infine, la sua figura al centro della scena. Marco Clementi 6 giugno

Su «il manifesto» si susseguono da giorni gli interventi pro-Saviano. Dopo l'inedita presa di posizione personale della neo-direttrice Norma Rangeri si cerca evidentemente di cancellare la colpa di aver pubblicato un libro di Alessandro Dal Lago un po' critico con l'icona di Casal di Principe e qualche intervento sulla stessa lunghezza d'onda di altri insospettabili collaboratori storici. L'ultimo, con una «lenzuolata» che deve aver messo non poco in difficoltà un giornale di poche pagine, è di Severino Cesari, noto critico letterario. Guai, insomma, a chi dubita che Saviano sia «una speranza legata a una persona capace di interpretare e di rappresentare qualcosa di più di se stesso», il nuovo incorruttibile anti-regime.
Un solo dubbio ci sia concesso. Questo Severino Cesari è lo stesso che di mestiere fa il condirettore della collana Stile Libero di Einaudi, marchio della catena Mondadori, editrice en passant di Saviano e notoriamente nel novero delle proprietà del premier? Nessuno dubita - ne ha dato spesso prova - che Cesari Severino abbia completa indipendenza di giudizio, ma nel gergo editoriale questo tipo di interventi a difesa del «prodotto di casa propria» si chiamano giustamente marchette. Che il «conflitto di interessi» sia ignorato dall'aspirante dittatore di Arcore è cosa nota. Che facciano lo stesso anche i suoi fieri critici è cosa però disdicevole. Specie se, ahiloro, figurano anche tra i suoi dipendenti. Girano malattie contagiose, nel laboratorio dei mostri chiamato Italia.
Casimiro, 11 giugno

Autocensura. La legge bavaglio fotografa una situazione che nelle redazioni dei giornali esiste da molto tempo. L'autocensura è praticata, anche a sinistra, e il "caso Saviano", aperto in realtà su queste pagine e poi proseguito da Dal Lago per la manifestolibri, lo sta a dimostrare.
In pochi amano la "verità" in questo paese, dove per "verità" intendo ciò che è riscontrabile attraverso delle fonti certe e terze. Quel bavaglio, se a sinistra lo si vuole davvero combatere non in modo opportunistico (lo so che mi illudo), lo si tolga alla libertà di critica e di verifica. Poi, per le intercettazioni, vedremo.
Marco Clementi, 12 giugno

NIE-NTE New Italian Epic-New Tinge Ensemble
È capitato di leggere di Susanna Tamaro Donne che uccidono i figli. Il senso (perduto) della maternità, sul Corriere della sera (qui).
Già la Tamaro, ce ne eravamo scordati. Dire che Tamaro è un Saviano in gonnella sarebbe ingiusto, perché il primato temporale spetta alla Signora. Semmai, è Saviano una Tamaro con le polpe. Ma allora perché non includere Susanna Tamaro nella NIE? Ristabilita la primazia, le analogie sono illuminanti e sconvolgenti. Non la relatività del punto di vista, ma il corto circuito tra senso comune e ideologia. Progredire in soggettiva: non può essere che così, come io lo vedo, la scienza sono io nel suo sviluppo. Il procedere vedendo che è vero, mentre nessuna scienza particolare è lì a temperare o a validare le affermazioni. Non occorrono esperti, l'esperto sono io. Tamaro è donna, quindi chi più di lei può asserire che cosa deve fare una donna per essere donna, proprio come uno di Casal di Principe può dire che cosa sono le società criminali... E vanno dove li porta il cuore. Attraverso la produzione di tasselli che, come tessere di un caleidoscopio vengono costretti in un quadro sorprendente.
Il punto d'arrivo del populismo letterario sembra essere questo: se dopo una vita dedicata alla letteratura l'autore è diventato un personaggio, le nuove leve si dispongano a costruirsi come personaggio a cui riferire le eventuali successive scritture. E infatti, ormai, ogni caso letterario è un'icona. La cui formazione è quasi sempre oscura e incerta, individui senza padri né madri, homines e dominae(?) novi. Un nuovo genere? Beh, sì e no, perché si tratta di un genere che tutti li rappresenta, e da tutti è attraversato. Prima o poi doveva accadere alla generazione che è andata per generi. G. Dekodra, 15 giugno

 

San Roberto dalla Campania
Note sulla fenomenologia di un eroe contemporaneo

di Davide Pinardi
(pubblicato su PaginaUno n. 16, febbraio/marzo 2010)

Lo sguardo è penetrante, l’espressione sofferta. È chiaro, con la vita che fa, con quella scorta che ha tolto ogni rifugio alla sua esistenza, che gli impedisce il nido di una casa, il calore di una famiglia...
L’estetica fotografica con la quale viene ritratto è barocca e sempre uguale: il volto ha tratti caravaggeschi ed è illuminato da una luce che giunge da lontano, che sottolinea la barba lunga, soffertamente impegnata, del nostro eroe e gli dà rilievo nel mezzo di un oceano di ombre. Sì, lui è il Cavaliere della Bellezza – illuminato da una Grazia superiore – che lotta contro il buio del Male.
Il suo sito internet è ricco, ben curato, con versioni in tedesco, francese, inglese e spagnolo.
La sua agenzia editoriale è la più alla moda del Paese. Ma tutto ciò è necessario: Roberto Saviano – di lui stiamo parlando – non è più un personaggio di cronaca locale ma un fenomeno globale, un vero protagonista del nostro tempo, e rappresenta la storia edificante ed esemplare di un giovanotto che, pur nato nell’infame, immonda, sozza provincia campana, sa levarsi animato da una superiore caratura etica, sa riscattarsi con le proprie forze dalle colpe della sua terra, sa ergersi a coscienza etica del mondo...
Giovanni Di Lorenzo, il direttore del settimanale tedesco Die Zeit, nella sua laudatio per il premio Fratelli Scholl – assegnato nel 2007 ad Anna Politkovskaja, senza scorta e assassinata – sostiene che “al momento non c’è nessuno in Italia con una storia che mi commuova e mi indigni quanto quella di Roberto Saviano. […] Si ritrova, lui che ha ancora trent’anni, a portare due fardelli, di quelli che uno solo basterebbe a schiacciare un uomo”.
Pur avendo nome e cognome italiano, il direttore conosce poco e soprattutto male il nostro Paese. In poche ore trascorse non nei salotti ma per le strade, il bravo giornalista potrebbe raccogliere mille e mille storie italiane molto più commoventi e degne di indignazione. Storie di persone con fardelli che schiaccerebbero non uno ma cento uomini. Storie di extracomunitari annegati, di rom perseguitati, di piccoli commercianti taglieggiati, di precari disperati, di prostitute massacrate, di detenuti dimenticati...
Storie di poveretti infelici, microscopici e sfigati, che, purtroppo per loro, non sono sostenuti dalla più grande industria editoriale nazionale di proprietà del capo di governo, non sono idolatrati da grandi giornali di opposizione (opposizione?), non sono ospitati sulle reti pubbliche in prima serata da trasmissioni nazionali e portati in scena con complesse scenografie teatrali.
Roberto Saviano dice di odiare il suo libro Gomorra perché (se anche lo ha reso ricco) gli ha rovinato la vita: “Lo detesto. Quando lo vedo nella vetrina di una libreria guardo subito dall’altra parte”.
C’è da domandarsi quanti siano i testimoni in processi al crimine organizzato che odiano il giorno in cui hanno accettato di denunciare ed esporsi, in cui hanno dovuto cambiare nome, sparire dalla circolazione, abbandonare luoghi, radici, parenti e amicizie: e che non ricevono né
plausi, né nobili inviti, né ammirazione (quasi) generale ma si ritrovano invece nella solitudine (e nella povertà).
Saviano è amato da quasi tutti. Va bene come merce da esportazione: ‘ah, meno male che c’è anche un’Italia pulita...’; va bene all’opposizione ufficiale, che supplisce alla propria inesistenza (o connivenza) politica con il plauso ebete alle icone comiche, culturali e televisive (con le quali bisognerebbe solidarizzare perché perseguitate dal Presidente/Imperatore); va bene a coloro che, con un click telematico al giorno a favore di testi di cui forse non capiscono bene il senso, si sentono sinceramente convinti di contribuire a migliorare il Paese; va bene alla fondazione FareFuturo che lo trova “un grande pensatore di destra”; va bene perfino ai leghisti, perché si erge come l’esule schifato di una cultura meridionale corrotta e inetta (purché non dica che Milano è una città del Sud!). Va bene infine a chi è al governo, perché esprime un’alata testimonianza ‘di coscienza’ che vola alta, altissima, e non si abbassa mai a una concreta contrapposizione ai veri rapporti di potere – dopo l’appello lanciato su Repubblica contro la legge sul processo breve, il ministro Bondi affettuosamente lo invita a “non abbandonare il suo impegno civile e culturale tanto più limpido e ascoltato quanto più alieno da pregiudizi ideologici”; Saviano risponde ringraziando, apprezzando “il tono rispettoso e dialogante”, affermando che “certe questioni non possono né devono essere considerate appannaggio di una parte politica” e che “schierarsi non significa ideologicamente”.
Bisogna riconoscerlo, Saviano sa scegliere con cura le cause per le quali ergersi commosso: apertamente a favore di quelle potenzialmente molto ‘popolari’, sparisce in un silenzio di tomba rispetto a quelle ‘impopolari’ (simile in questo all’altro pezzo di quarzo Nanni Moretti, che si indigna soltanto quando sta per uscire un suo film da ‘promozionare’). Saviano con caschetto da pompiere e molto ben accolto dalla Protezione civile denuncia le vergogne collegate al terremoto in Abruzzo: chi può non essere d’accordo? (Anche se poi si fa prendere la mano e aggiunge generiche considerazioni sulla presenza storica della mafia in quella regione che lasciano basiti molti abruzzesi: tutti conniventi con la criminalità organizzata?) Qualcuno l’ha sentito invece in occasione del quasi pogrom contro i rom di Ponticelli? Qualcuno lo ha sentito dire che lo sfruttamento neo-schiavista degli extracomunitari è dovuto a un sistema economico che in Italia è fisiologico e non patologico? Qualcuno lo ha sentito denunciare la tragedia del precariato? Preferisce una puntatina a Barcellona per una toccante intervista al calciatore Lionel Messi, Pallone d’Oro 2009...
In televisione cita Varlam Salamov e Ken Saro-Wiwa (e si legittima implicitamente come eroico ‘scrittore civile’). Piccolo particolare: Varlam Salamov ha fatto diciotto anni di gulag sotto Stalin, Saro-Wiwa è stato impiccato in Nigeria dopo un processo farsa. Nessuno di loro ha avuto la scorta dal ministero degli Interni.
Settimane fa il comune di Milano – tra Ambrogini d’oro che premiano Marina Berlusconi e i nuclei di vigili che danno la caccia ai clandestini (si badi, gente che viene presa a caso sui tram e messa in gabbia senza aver commesso alcun reato) – ha votato all’unanimità per offrirgli la cittadinanza onoraria: l’offerta non è stata respinta con sdegno.
Pochi criticano Saviano.
L’ha fatto Vittorio Pisani, capo della Squadra mobile di Napoli, che afferma di aver dato parere negativo alla concessione allo scrittore della scorta: “Ho arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato e giro per la città con mia moglie e con i miei figli senza scorta. Non sono mai stato minacciato. […] Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la Camorra da anni”.
L’ha osato fare anche Nicola Tanzi, segretario generale del Sap, Sindacato autonomo di polizia: Saviano “non è un eroe, al contrario dei poliziotti che stanno tutti i giorni in prima linea sul campo. […] La lotta alla Camorra non si fa col varietà, con le luci abbaglianti degli studi televisivi e le paillettes di prima serata, né l’impegno antimafia ha bisogno di showman. La vera lotta si svolge in trincea ed è sostenuta giorno per giorno da migliaia di poliziotti e di appartenenti alle forze dell’ordine che sul campo contrastano il crimine organizzato”.
Qualcuno ha avuto dei dubbi davanti a queste dichiarazioni? Neanche per sogno. In compenso i due poliziotti sono stati quasi additati come complici, più o meno coscienti, della Camorra. Saviano ha denunciato di sentire l’inizio di un abbandono, di un isolamento, di uno sgretolarsi di quella compattezza istituzionale e civile che fino ad allora l’aveva protetto, ricordando che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani “hanno pagato con la vita la loro solitudine”; subito si sono mossi opinione pubblica, giornali, capo della Polizia...
Ma se Saviano è così spaventosamente pericoloso, per la Camorra, perché questa – impossibilitata dalla scorta a colpire lui – non minaccia il presentatore Fabio Fazio, l’indifesa agenzia letteraria, il regista Matteo Garrone (che, anzi, ha avuto via libera per tutte le riprese a Scampia), l’ufficio commerciale di Mondadori, le librerie che espongono il suo libro, eccetera? Perché non minaccia le redazioni di Repubblica e de L’Espresso che pubblicano i suoi preziosi articoli? Perché non intimidisce chi lo propone come candidato alla presidenza della Regione Campania?
Quando lui cercava casa a Napoli (al Vomero, il quartiere bene della città), dopo aver visto sei appartamenti (alcuni dei quali non andavano bene a lui...) ne ha scelto uno che però gli sarebbe stato rifiutato dalla proprietaria perché i vicini le avevano detto che “nella via si sarebbe persa la pace”. Saviano, indignato per il rifiuto, avrebbe interrotto la ricerca dichiarando di voler espatriare, andarsene via per sempre. Non l’ha fatto.
Ma intanto era subito scattata una grande solidarietà nei suoi confronti. Gennaro Capodanno, presidente del Comitato valori collinari di Napoli, si era dichiarato amareggiato e deluso offrendosi per una collaborazione alla ricerca di una casa se Saviano avesse cambiato idea. Il sindaco di Giffoni Valle Piana aveva offerto a titolo gratuito un antico casale ristrutturato, immerso tra gli ulivi secolari del borgo medioevale di Terravecchia e di proprietà del comune, “da cui si gode il paesaggio mozzafiato e il castello federiciano. Siamo certi che in quest’oasi di pace e tranquillità Saviano ritroverà nuovi stimoli per poterci consegnare altri capolavori. Lo invitiamo, pertanto, fin da ora a partecipare alla prossima edizione del Giffoni Film Festival...”.
E la Camorra a loro non dice niente?
Ma che cosa possono pensare i tanti senzacasa napoletani, o quelli che soltanto con abusi edilizi si sono messi un tetto sulla testa? Loro sono gli infami, gli zozzi, gli ignoranti. Loro non meritano una casa regolare. Tanto più un casale gratis, un’oasi di pace...no. Loro meritano l’Inferno in cui vivono.
Il caso di Saviano – a mio avviso – è esemplare dell’ipocrisia di quest’epoca, dei suoi precipitosi innamoramenti mediatici, della sua incapacità di analizzare senza schemi precostituiti, della sistematica mancanza di approfondimento critico in tanti operatori dell’informazione, della rapidità nella costruzione di miti ‘facili’ per distrarre dai veri tragici disastri politici, sociali ed economici del presente.

Ora, tocca a Taricone. Saviano non perde un colpo "Io e lui compagni di scuola". Dopo Neda e Anna Politkovskaja un altro cadavere su cui rovesciare la marmellata di parole che da tempo lo connota come uno dei peggiori epifenomeni della nostra quotidianità. Eppoi, tra i due passano 4 anni e mezzo (1975, febbraio, Taricone e 22 settembre 1979, Saviano). Compagni di scuola? Ma mi faccia il piacere! MC

[Compagni di scuola. Anche Ludwig Wittgenstein e Adolf Hitler erano compagni di scuola, alla Realschule di Linz nell'anno scolastico 1904-1905. Ma pur essendo coetanei (Hitler, 20 aprile 1889, Wittgenstein, 26 aprile 1889), non hanno frequentato la stessa classe in quanto il giovane Adolf stava due anni indietro – abbandonò l'anno seguente per via dei mediocri risultati, della serie: ultimi nella scuola, primi nella vita –, e comunque non ci sono prove di un loro incontro, magari in corridoio, né c'è traccia di elogi, più o meno reciproci. O.]

Walter G. Pozzi, direttore di paginaUno, scrive su Roberto Saviano e la produzione del sapere ai tempi del consumismo cogliendo l'occasione per ricondurre la vicenda ai garbugli dell'industria culturale, in cui la figura di Saviano, più che desantificata, viene svuotata.

Inquietante o intrigante?
Quali tratti hanno in comune i Wu Ming e Berlusconi?
Demonizzano chi tenta la desantificazione. I contraddittori avversano perché sono invidiosi.
Comunque, non resta che appellarsi direttamente al popular,
se non al popolo, senza defatiganti mediazioni. Inquietante? Per molti invece risulterà intrigante! O.

* * *

Il contratto di libera schiavitù. Quando la fantasia arriva prima di Marchionne.


Ernesto Screpanti, che insegna Economia politica all'Università di Siena, ha pubblicato con noi Un mondo peggiore è possibile. Sei perle dalla triste scienza. Sei paradossi, apparenti. Ecco l'incipit della prima perla, intitolata La soluzione definitiva al problema della disoccupazione:

«Il contratto di schiavitù è un patto col quale i lavoratori assumono un obbligo all’obbedienza perpetua nei confronti della controparte e rinunciano a negoziare il salario e le condizioni di lavoro, ricevendo in cambio un reddito di sussistenza vita natural durante. La controparte acquista un diritto di proprietà sul lavoratore.
Cosa succederebbe se tale contratto fosse permesso? Una percentuale non irrilevante di poveracci (tra i disoccupati, i sottoccupati, i precari, gli immigrati), lo accetterebbe subito volontariamente... » Ernesto Screpanti, Un mondo peggiore è possibile. Sei perle dalla triste scienza, prefazione di Francesco Muzzioli, 2006, Roma Odradek edizioni, p. 25.

Ci penserà Marchionne a rendere più "realistico" il contratto: licenziando gli schiavi

*

Ernesto Screpanti, che ci legge, ci fa notare che:

«Questa vostra aplicazione empirica delle mie teorie dimostra che il mio lavoro si sta rivelando scientificamente utile. Ora mi rendo conto che non era un modello distopico, ma uno studio adeguato dei processi storici in atto.
Sarebbe interessante se qualcuno si divertisse a spiegare il mondo attuale sulla base di quel modello. Un mondo peggiore non è solo possibile: è in fase avanzata di realizzazione.
Provare a spiegare Berlusconi col modello del dittatore benevolente (sesta perla). Attraverso elezioni democratiche i cittadini "assegnano al presidente il compito di massimizzare una funzione del benessere sociale basata sul principio: massima libidine per il più gran numero di persone" (p. 87). Il presidente trasforma lo stato in un'azienda su cui ha il potere assoluto di un manager. Governa col consenso degli azionisti-cittadini, e potrà continuare a governare fintanto che distribuirà qualche utile.
Marchionne sta facendo qualcosa di speculare dentro l'azienda: un manager-presidente che ha potere assoluto sui sudditi col loro consenso.
Mai l'isomorfismo azienda-stato è stato più vicino alla realizzazione storica». E.S.- 25 giugno

Caro Ernesto,
è nota la tua avversione per Hegel e la dialettica, e in questa disposizione non rischi certo di sentirti solo. Sarà per questo, forse, che sei il primo a stupirti nello scoprire che quello che a te sembrava la costruzione di un paradosso altro non era che l'anticipazione della realtà. Il tuo indegno editore, però, aveva colto che la cortocircuitazione di elementi apparentemente eterogenei, se non opposti – democrazia-dittatura, Stato-azienda – non avrebbe condotto che a rivelare contraddizioni, contraddizioni reali, rilasciando come effetto collaterale, e riprova, uno sciame di ossimori e poi di chiasmi. Nel tuo libro non manchi – nell'Appendice – di individuare il processo. Le forme che la scienza economica ha determinato e liberato – le forme, Ernesto, le forme – apparivano come il prodursi di chiacchiere nella testa degli economisti, e invece rappresentavano interessi in conflitto.
C.D.B.- 28 giugno

 

***

SAGGI CORSIVI-Che riguardo alla produzione e alla riproduzione della conoscenza nulla sia più come prima, editori come Odradek lo sanno bene. E in particolare, che il libro non è più l'unità di misura dell'apprendimento e della costruzione di sé. Sul tema dell'irresponsabilità delle nuove enciclopedie si era occupata Francesca Verdecchia sull'Almanacco Odradek 2007. Giunge a proposito l'acuminata analisi di Francesco Piccioni su Alias del 31 ottobre.

«Carneade, chi era costui?»

Francesco Piccioni

Il rovello di Don Abbondio cade in un contesto decisamente mutato. Lui non poteva che far ricorso alla sua memoria, ai pochi libri in dotazione o a qualche «sapiente» casualmente di passaggio. Oggi basta digitare il nome dell'antico filosofo greco in un qualsiasi motore di ricerca per trovare oltre centomila citazioni, a cominciare naturalmente dalle principali enciclopedie on line: Wikipedia e Encarta. Rispondenti tra l'altro a due diversi modelli di produzione della conoscenza.
Una prima considerazione riguarda la dislocazione della memoria: dal soggetto all'archivio. Si tratta di un trasferimento che ha una sua storia: l'uomo ha fin dall'inizio affidato ai «depositi» la conservazione del suo sapere. E fin dalla notte dei tempi la gestione degli «indici», le mappe per ritrovare le nozioni immagazzinate è stata un momento essenziale della conservazione della conoscenza. Mai prima d'ora, però, si era avuta un altrettanto drastico svuotamento della memoria del vivente a favore dell'inanimato. Solo ora si può non sapere assolutamente nulla, se non le procedure per avviare il computer e formulare le richieste, e conservare comunque l'impressione di controllare i processi che preparano le nostre decisioni. Sembra un problema tecnico, ma si tratta di uno sradicamento di portata epocale.
Ognuno, infatti, si ritrova a maneggiare informazioni di cui spesso ignora sia il processo di elaborazione, sia il tasso di attendibilità. Ciascuno di noi ha una vita densa di impegni e non dispone di molto tempo da dedicare alla verifica delle nozioni-base (i «mattoni della decisione»). Chi garantisce dunque che una data informazione sia corretta? In altri termini: a chi affidiamo il controllo di verità su quel che usiamo per districarci nel mondo?
Non è un problema «nuovo». Anzi, ha ricevuto una formulazione e una sistematizzazione importante all'alba dell'epoca moderna, in pieno fermento illuminista. L'enciclopedia è nata esattamente per rispondere a queste più che legittime domande, allorquando la dimensione del sapere ha sorpassato irresistibilmente i confini della individuale capacità di memorizzazione.
La comunità scientifica era l'unico soggetto cui era possibile delegare quel che abbiamo chiamato il «controllo di verità». Un affidamento comunque esposto all'errore individuale, all'evoluzione della conoscenza, allo «spirito del tempo» e quindi alle ideologie dominanti in un determinato periodo o territorio culturale. Il «controllo sui controllori» si è perciò concretizzato per un verso nel ricoscimento dell'infinita perfettibilità dell'opera di immagazzinamento (le revisioni periodiche delle singole voci), per l'altro tramite l'attribuzione di responsabilità individuale o collettiva per quel che veniva distillato e depositato nelle enciclopedie. La regola invalsa è stata quindi precisa: ogni voce andava firmata da una singola persona o da una redazione collettiva. Un modo onesto di riconoscere che «la verità» è una costruzione senza fine, e quindi di «segnare la via», piantando segnali e «facendo i nomi».
La conoscenza in rete non possiede più queste caratteristiche. O meglio: in qualche ambito si è conservata questa sana stipulazione, in molti casi no. Questo costringerebbe ogni volta a porsi nuovamente la domanda: chi lo dice? Ma proprio la modalità d'uso della rete trasforma in un impaccio l'autointerrogarsi.
Il sogno dell'enciclopedia il deposito di tutto il sapere – ha ricevuto on line una nuova formulazione, sposandosi ideologicamente con l'utopia democratica: ognuno può concorrere. Le due cose, palesemente, non stanno insieme. Il principio democratico permette a chiunque di esprimersi, la formulazione di un asserto scientifico (ossia valido temporaneamente erga omnes) richiede invece competenze non comuni. Episteme e doxa sono alternativi, non convergenti.
L'esempio è ovviamente Wikipedia, «l'enciclopedia libera». Quest'opera collettiva riassume in sé il meglio e il peggio del problema della conoscenza totale. Ci dà molta informazione, ma straordinariamente difforme quanto ad attendibilità. Con qualche paradosso non inatteso. E' infatti molto attendibile nelle voci inscrivibili nelle cosiddette «scienze esatte», mentre è insopportabilmente sciatta in quelle «storiche» o «umane» che dir si voglia. La ragione di questa discrasia è facilmente individuabile nello stesso meccanismo di elaborazione delle singole voci. Come avviene in una qualsiasi discussione da bar, infatti, nessuno si azzarda a dare la «sua versione» della teoria della relatività o della fotosintesi clorofilliana. Ma, proprio come nelle «democratiche» discussioni tra incompetenti, ognuno si sente in grado di dir la propria sulla migliore formazione possibile per la nazionale di calcio o la composizione del governo.
Questa irresistibile tensione al protagonismo dell'ignorante non è ovviamente ignota ai curatori di Wikipedia. Che hanno risolto il problema facendo un passo indietro rispetto al programma originario (la possibilità di modificare ogni voce da parte di chiunque), approdando alla formazione di «gruppi» responsabili di un certo campo di voci,. E' un passo nella direzione tipica dell'enciclopedia «classica», ma senza l'individuazione di una «comunità scientifica» universalmente riconosciuta e senza la decisiva attribuzione di responsabilità per quel che viene «depositato». Anzi, proprio sulle voci più controverse (non a caso quelle storico-politiche) è facilmente verificabile come esistano vere e proprie «mini-comunità proprietarie» che esercitano un controllo assoluto e «irresponsabile» sul piano scientifico, quindi solo «ideologico» dei contenuti. Chiunque provi a «modificare» una singola voce può farne esperienza. Invece della comunità scientifica abbiamo qui dei «gruppi simpatetici» privi di ogni caratteristica propria della «scienza». A partire dalla competenza certificabile e quindi dalla «firma» sotto ogni formulazione.
Specie nelle discipline storiche o umane l'»imparzialità» in Wikipedia ridotta a impossibile «neutralità» è stata tematizzata da molto tempo. Come ricorda ad esempio Cesare Bermani, «la sola obiettività possibile per chi fa professione di storico» non consiste nel negare di possedere «una matrice ideale, culturale, politica», ma al contrario nel «dichiararla apertamente», in modo da permettere ai fruitori presenti e futuri di «fare la tara» su quel che si dice. Insomma: chi pretende di esser neutrale non può che essere, sul piano intellettuale, uno che dissimula la propria opinione; un modo di procedere «disonesto». Vale per i singoli individui, ma anche per i progetti collettivi mal congegnati.

*** Il «piccolo» annaspa portando con sé competenze e futuro
Tommaso De Berlanga
il manifesto, 20 ottobre 2009, p. 3

C'è qualcuno in Italia che batte la sinistra quanto a mancanza di idee: gli imprenditori. E, come la sinistra, si fanno male da soli. Ma, al contrario della prima, le imprese hanno stravinto nell'autoaffermazione ideologico-identitaria: lasciate fare a noi, lo stato si tiri indietro. Bene, hanno avuto tutto quel che volevano; ma ora non sanno più che fare. Ognuno chiuso nel suo business e la prospettiva - l'esser parte di un sistema - scompare. Intendiamoci: gli imprenditori non sono tutti uguali. Da un lato c'è la finanza, che raccoglie profitti e debiti, li centrifuga in prodotti irriconoscibili e li piazza in giro per il mondo. Da un'altra c'è la produzione più o meno materiale, che fa i conti con la domanda reale e la solvibilità dei potenziali clienti. Anche in questo campo esistono differenze evidenti: ci sono le imprese internazionalizzate, ormai saldamente piantate nei flussi produttivi e commerciali globali, e le piccole-medie imprese (in realtà tutte egualmente piccole, sulla grande scala) che attendono impazienti una commessa. Proprio come un dipendente che attende un lavoro. E in fondo proprio questa è la loro origine, spesso. La piccola impresa, all'inizio degli anni Ottanta, è diventata l'«ammortizzatore sociale» per decine di migliaia di operai e impiegati espulsi dalla «grande ristrutturazione» avviata con i 35 giorni della Fiat Mirafiori. Ex dipendenti che «sanno fare» e ragionano «da imprenditori», manco fossero Agnelli o Berlusconi.
Le «internazionali» hanno progetti, ricerca, visione d'insieme. Possono fallire, certamente, ma sono protagoniste del proprio destino. Le «locali» sperano. Ma nulla di quel accade di importante dipende da loro. Al massimo, premono per avere un'amministrazione locale più o meno attenta ai loro problemi. Che cambiano continuamente, a seconda dei venti globali. Il problema è che ora non hanno quasi più una «nicchia» in cui mantenere radici.
La delocalizzazione (e l'internalizzazione senza progetto, né diritti del lavoro migrante) ha distrutto il potere del lavoro dipendente, ma anche la sua «qualità», la «differenza specifica», il «valore aggiunto». La generazione che sta per andare in pensione, e che viene perciò privilegiata in caso di «esuberi», rischia di portare in questo «aldilà» competenze stratificate nell'operare collettivo di secoli. «Bloccare i licenziamenti» non è soltanto una sacrosanta richiesta sindacale in difesa dei lavoratori; è anche una forma di autodifesa del «sistema paese» di fronte al deserto di un «saper fare» che va perso. La crisi delle aree industriali è ancora malamente mascherata dal ricorso alla cassa integrazione. Quando finirà - e, se la ripresa «sarà lenta», non potrà che finire prima di ogni possibile rilancio - si dovranno contare i caduti. Il «piccolo è bello» è stata un'ideologia con effetti concreti. L'arretramento dello stato sul piano dell'economia lascia un vuoto drammatico: nessuna politica industriale e una politica economica ridotta a un confuso agglomerato di «stimoli», esenzioni, defiscalizzazioni, scudi fiscali e finanziamenti dedicati ai grandi gruppi «amici» (dalle grandi opere infrastrutturali alle piscine comunali).
Come spiega uno degli imprenditori varesini interpellati, «questa è una borghesia che non ha più rapporto con il territorio, che chiede soldi allo stato e piange; sono commercianti trasferiti all'imprenditoria. E non è la stessa cosa».

 

 

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