ODRDEK EDIZIONI
COLLANA ROSSA - CULTURE SUL MARGINE COLLANA BLU - STORIA E POLITICA COLLANA VERDE - STORIA ORALE FUORILINEA COLLANA GIALLA - LA MACCINA DA PROSA AZIMUTH IDEK IDEOLOGIA E CONOSCENZA PHOTOS
HOME PINOCCHIO CATALOGO-02
   
CATALOGO
LIBRERIE
CULTURE SUL MARGINE
STORIA ORALE
IDEK
STORIA E POLITICA
AZIMUT
LA MACCHINA DA PROSA
PHOTOS
IDEOLOGIA E CONOSCENZA
GIANO
 
 
 

 

Persona&Società è la rivista dell'Anpi di Roma e del Lazio, una rivista quasi clandestina, come si conviene alla stampa partigiana. In realtà, costa talmente poco che nessun distributore o libreria ha interesse a richiederla e a tenerla sugli scaffali. Peccato, perché non è un bollettino riguardante la vita associativa come i fogli parrocchiali, bensì un laboratorio di idee e discussioni. Grazie al suo direttore, Massimo Rendina - il Comandante "Max" - a Davide Conti e a Odradek che la animano, è giunta al nono numero e al terzo anno di vita. Qui sotto si possono trovare i sommari, dalla cui lettura si può apprezzare sia il livello dei collaboratori, sia i temi che vi ricorrono.

 

È morto Massimo "Max" Rendina, comandante partigiano, ottimo giornalista - era stato il primo direttore del TG - e docente. Ci ha permesso di fare un pezzo di strada assieme. Odradek ha pubblicato Cronache dalla prima Repubblica un'intervista a cura di Davide Conti, ma soprattutto Persona&Società, una importante rivista, da lui diretta, e che è uscita per 10 numeri, fino a quando cioè il Comandante Max ha avuto la forza e la lucidità per dirigerla, da fine intellettuale e da politico critico quale era. Un caro e grato saluto!

 

ULTIMI NUMERI

09 la Carta

GIULIANO VASSALLI • SULLA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE
GIOVANNI MARIA FLICK • Giuliano Vassalli: da partigiano a presidente della Corte costituzionale
GIULIO ALFANO • La Filosofia Politica e il concetto di Stato tra etica e società
MASSIMO RENDINA • Proposte per difendere e promuovere la democrazia
DAVIDE CONTI • L’eredità di Lelio Basso e lo sviluppo storico della democrazia al tempo della crisi
MASSIMO RENDINA• LE PROSPETTIVE DELLA FEDERAZIONE DELLE SINISTRE

Dibattito

Ancora sulla filosofia della contraddizione

08 Frangenti

MASSIMO RENDINA • POST MARXISMO E POST CAPITALISMO
FERDINANDO IMPOSIMATO • Il Pubblico Ministero e il giudice in Italia
MASSIMO RENDINA • IL CONCILIO VATICANO II E IL POPOLO DI DIO
CIVIS • CONSIDERAZIONI SULLA DEMOCRAZIA
ANGELO D’ORSI • Il delirio del Cavaliere dimezzato
MAX MANARA • HITLER AVREBBE POTUTO AVERE L’ATOMICA E VINCERE LA GUERRA?
MATTIA STELLA • LODO ALFANO: THE DAY AFTER
ERNESTO NASSI • UNA NUOVA STAGIONE PER L’ANPI
MASSIMO RENDINA • CONSIDERAZIONI SULLA FILOSOFIA DELLA CONTRADDIZIONE

7 Passaggi

Massimo Rendina • Il futuro dell’ANPI
Mariano Gabriele • FOIBE E DINTORNI
Giulio Alfano • La democrazia tra diritti e doveri
Federico Goddi • L’occupazione delle fabbriche
Ferdinando Imposimato • La Costituzione e gli stranieri
Curzio Bettio • Considerazioni sui prossimi referendum
Incontro internazionale
RESISTENZA E COMUNITA’ EUROPEA

5-6 su Moro

Massimo Rendina • UN ASSASSINIO CHE HA CAMBIATO LA STORIA
Marco Clementi • Aldo Moro. La solidarietà nazionale,
il compromesso storico e gli alleati
Giulio Alfano • Ricordo di Aldo Moro, “costruttore” della politica
Davide Conti • I soggetti in campo. Dc, Pci e Br: tre diverse letture strategiche della politica del “compromesso storico”
Tavola rotonda virtuale
Interventi di Aldo Giannuli, Vladimiro Satta, Vincenzo Tessandori
Claudio
Del Bello • Risultanze e misteri
testimonianze
Curzio Bettio • Delitti e misfatti

Presentazione

Questo numero doppio di Persona&Società, dedicato alla figura di Aldo Moro, esce all’indomani di elezioni politiche che hanno mutato profondamente il quadro parlamentare italiano.
In paesi di solida democrazia, garantita da un patto costituzionale, le elezioni politiche che fanno avvicendare forze conservatrici e forze progressiste, destra e sinistra – soprattutto quando ovunque la differenza tra queste nozioni tende sempre più a sfumarsi – non rappresentano motivo di preoccupazione.
Infatti, per quasi nessuno dei popoli dell’Occidente la costituzione è più un problema per cui battersi. L’importanza dell’assetto costituzionale è sentito, ancora, solo da quei popoli che ne hanno fatto esperienza recente (come la Spagna), o che più hanno dovuto “elaborare il lutto” dell’approdo a un’altra concezione del mondo e del “destino della nazione” (come la Germania). Persino là dove la modernità costituzionale è nata (Inghilterra e Francia) la sensibilità è in calo. Decenni di lavoro “antiideologico” hanno alla fine sedimentato la convinzione pubblica che valori e principii non c’entrino molto con l’organizzazione sociale e istituzionale, col pagare più o meno tasse, o con le politiche più o meno redistributive. In Italia non è così.
Questa rivista, che ha come sottotitolo «Resistenza Democrazia Costituzione Cittadinanza», è costretta a manifestare preoccupazione nei confronti di una ventilata “legislatura costituente” in un Parlamento in cui poco rappresentate sono le istanze della difesa della Costituzione, tradizionalmente agite dalle forze di sinistra.
Non dovrebbe esserci peoccupazione per un assetto che può necessitare di alcuni emendamenti, sia pure integrativi, solo se condivisi ma soprattutto coerenti con l’impianto. Ma quando la tensione tra costituzione materiale e costituzione formale persiste, diventa un dato di fatto politicamente preoccupante perché, se permane la tensione, la situazione resta aperta, e suscettibile di inversioni di tendenza.
D'altra parte, la riscrittura è sempre eversiva nei confronti dei principii, decostruzione della convivenza sia pure conflittuale – ma regolata – e riapertura del bellum omnium contra omnes, guerra civile permanente. Per questa ragione la critica, che pure c'è stata da parte della sinistra non tanto alle regole costituzionali, quanto alle modalità con cui l’apparato dello Stato esercita la sua funzione arbitrale, non può mai avere punti di contatto – né logico né politico – con la distruzione delle regole promossa dagli eversori.
Come i lettori potranno apprezzare, in questo numero più di un intervento insiste nel sottolineare la volontà di Aldo Moro di lavorare per l’alternanza come unico modo per uscire dalla nostra democrazia bloccata, ma nella prospettiva di una applicazione finalmente completa della lettera e dello spirito della Costituzione.
La Carta del 1948 era considerata, dallo statista pugliese, come l'unico perimetro istituzionale entro il quale, anche in un quadro internazionale caratterizzato dall'equilibrio bipolare della guerra fredda, sarebbe stato possibile completare un processo di piena maturazione della dinamica democratica sul piano della partecipazione attiva dei cittadini alla vita pubblica e di una più complessiva convergenza tra le componenti sociali del Paese.
Persona&Società

Risultanze e misteri
di Claudio Del Bello

1. I tragici eventi che iniziano in Via Fani e terminano in via Caetani costituiscono il segmento più cospicuo di una storia (o una fenomenologia) durata 18 anni. Ne rappresentano anche il segmento più indagato, al punto da oscurare spesso – nel senso comune e mediatico – tutto il resto. Gli sforzi di ricostruzione sia di quel segmento, sia dell'intera storia hanno prodotto figure specializzate, distinte e riconoscibili per via della regolarità con cui producono i loro interventi:
- coloro che lavorano sulla totalità dei documenti, come gli archivisti e i documentaristi;
- coloro che lavorano sulla totalità delle fonti e dei documenti, come gli storici;
- coloro che rispondono della, e riferiscono sulla, totalità degli eventi relativi, come i giornalisti giudiziari;
- coloro che rispondono sulle questioni che vengono loro proposte, come i consulenti dei magistrati inquirenti o delle commissioni parlamentari;
- i giornalisti investigativi, segugi dello scoop, che permangono sul margine degli eventi giudiziari, proponendo continuamente nuove piste, riproponendo piste scartate nell'iter giudiziario;
- scrittori di misteri che in genere diffidano proprio delle fonti giudiziarie.
Queste figure tipiche, nella realtà, possono presentarsi integrando aspetti diversi delle stesse. Resta il fatto che, mentre le prime quattro figure tendono a convergere sulla centralità dell'iter giudiziario, le altre tendono a diffidare e superare le fonti giudiziarie ritenendo inattendibili sia gli imputati, sia i diversi testimoni, se non, addirittura, anche gli inquirenti e la magistratura giudicante. Un'autentica furia distruttrice che non prevede – né lascia – superstiti.
Agli apporti di documentaristi, storici, giornalisti, consulenti e scrittori vanno aggiunte le interviste, le memorie e i memoriali di coloro che a diverso titolo possono essere considerati attori, più o meno protagonisti, degli eventi. Non dovrebbero inoltre essere tralasciate le riduzioni cinematografiche o televisive, cioè le fiction, che nei confronti di fonti e documenti rivendicano una maggiore – anzi, totale – libertà di manipolazione e interpolazione.
Occorre infine registrare che il medesimo atteggiamento di sufficienza e fastidio nei confronti del corpus documentale comincia sorprendentemente a manifestarsi anche da parte di alcuni giovani storici, i quali riluttano perché l'intera trentennale vicenda "non può e non deve considerarsi ancora materia per gli storici", ma forse, come è probabile, per avere la possibilità di cimentarsi in "narrazioni" più avvincenti.
I tempi della ricerca scientifica, quelli della giustizia, quelli della memoria e quelli del mercato mediatico ed editoriale sono ovviamente molto differenti. Ma ancora più differenti, quando non opposti, sono i metodi e le procedure di validazione.
Quando càpita di vedere insieme queste figure professionali in un convegno, ovvero in un talk show, lungi dal poter pervenire a una qualche analisi condivisa, si assiste per lo più ad una contrapposizione tra coloro che ritengono che le ricostruzioni storiche e giudiziarie difficilmente possano essere ribaltate dalla eventuale scoperta di un nuovo documento, e coloro che invece propongono nuove ricostruzioni a partire da piste scartate o non prese in considerazione, e tali, appunto, da poter rovesciare completamente il senso della vicenda.
È mia convinzione che queste considerazioni molto generali mantengano la loro validità anche in previsione della apertura degli archivi e della “liberazione” delle carte ancora riservate sul caso Moro, prevista per il prossimo mese di maggio. Resta però da registrare come in questo paese, anche per il protrarsi della “strategia della tensione” e il perdurare dell’impunità delle stragi, persista un diffuso scetticismo nei confronti delle attività inquirenti e giudicanti della magistratura. Tanto più grave se si considera il coinvolgimento delle giurie popolari.

2. Da Edgar Allan Poe, e poi da Arthur Conan Doyle la letteratura poliziesca si è sviluppata incontrando un grande successo costituendosi in genere e poi in vari sottogeneri. La logica dell'investigazione letteraria è basata sull'abduzione, cioè su un tipo di ragionamento, diverso dalla deduzione e dall'induzione, e tale da essere generalmente considerato improponibile nelle aule giudiziarie, risultando peraltro utile all'investigatore. Non a caso, tutti i sistemi giudiziari prevedono una rigida distinzione di ruolo tra una magistratura inquirente (che cerca prove e formula ipotesi) e una giudicante (che le sottopone a verifica dibattimentale, nel confronto-scontro tra le parti). L'abduzione infatti è una sorta di "logica del verosimile", del resto molto vicina al senso comune, e con riferimento alle indagini di Sherlock Holmes, chiamata anche "retroduzione"; cioè, supposta la verità della conclusione, viene assunta la verità della premessa. Resta il fatto per cui quando dico "se la batteria è scarica, le luci non si accendono" l'affermazione è vera, mentre se dico "se le luci non si accendono, la batteria è scarica" l'affermazione è non valida, ancorché probabile, e comunque tale da essere verificata. Già Charles Sanders Peirce vedeva nell'abduzione un'inferenza atta a formulare un'ipotesi esplicativa e tale da costituire la prima inferenza: l'abduzione formula delle ipotesi, la deduzione ne trae tutte le conseguenze implicite nell'assunzione delle ipotesi, l'induzione le valuta portando il processo di verifica sperimentale delle conseguenze dell'ipotesi. Insomma, l'abduzione cerca una teoria, l'induzione cerca i fatti.
Le esigenze della verosimiglianza del senso comune sono state in qualche modo riprese anche all'interno del dibattito epistemologico. Verso la metà del ’900, infatti, nella filosofia della scienza si è sviluppato un dibattito sulla logica della scoperta scientifica, in qualche modo distinta dalla logica della sua giustificazione. Verso la fine del secolo scorso, poi, l'interesse per l'abduzione si è decisamente rivolto all’esplicazione del senso comune, alla percezione, all’intelligenza artificiale. Questo per dire che le esigenze dell'abduzione o della retroduzione (rovesciamento del verso dell'implicazione: da «p implica q» a «q implica p») non sono proprie soltanto della letteratura più o meno poliziesca, ma in qualche modo avanzate all'interno della stessa ricerca scientifica, per lo più di tipo interdisciplinare. Resta però il fatto che ogni scoperta, comunque perseguita e raggiunta, deve pur sempre sottoporsi a regole condivise di verificazione.

3. La domanda che si può formulare è: quanto è utile alla comprensione della storia italiana – e soprattutto a quella che si vorrebbe da parte dei giovani – questa gigantesca insistenza sul carattere investigativo e poliziesco della vicenda, e soprattutto, quanto giova alla comprensione della figura di Aldo Moro, della sua attività di politico e di statista?
Non c'è forse il pericolo di stornare l'attenzione dall'oggetto al genere prescelto per parlarne?
Così, la “tragedia italiana”, il grande statista, vengono ridotti e immiseriti a gioco poliziesco, a ridda di congetture, in un potente rigurgito di enumerazioni di ipotesi, nel quale ognuna ha pari dignità e pretende di permanere senza attendere verifica.
Il relativismo, cioè la relatività del punto di vista, è una condizione della modernità, e la possibilità di esprimere opinioni diverse è garantita dalla maggior parte degli ordinamenti costituzionali, e la nostra Costituzione garantisce anche la libertà di ricerca. Non per questo chi presentasse, poniamo, i propri studi sul moto perpetuo potrà pretendere cattedre e sovvenzioni, essendo scontata una pregiudiziale avversione da parte della comunità scientifica, abituata a chiedere l'onere di numerose prove. Simile sembra essere la reazione di molti storici, molti cronisti e molti magistrati nei confronti della ennesima proposta interpretativa che non tiene conto dell'insieme delle acquisizioni pregresse.
La verità storica, continuamente soggetta a revisioni, è diversa e ha tempi diversi da quella giudiziaria, si diceva; ma, comunque, come quella, quasi mai soddisfa le aspettative del pubblico. Il vero e lo stupefacente difficilmente coincidono. Il pubblico sembra così vendicarsi determinando una "domanda di sorprendente" a cui il mercato puntualmente va incontro con ricostruzioni in cui la fantasia occorre per riempire lacune, e l'interpretazione viene prima dei fatti. Domanda di verità, senza richiesta di procedure di verifica, genera paradossalmente una incessante e inesauribile produzione di misteri. La domanda di verità, fuori delle aule giudiziarie, e fuori del controllo della comunità degli storici, alimenta generi letterari, perché la letteratura è infatti la produzione di mondi possibili, meglio se fattualmente inconfutabili (basta saperli immaginare). Non occorre infatti neppure che siano verosimili, ma semplicemente che istituiscano un ambiente in sé coerente (tutta la fantascienza ne è un esempio illuminante).
Non sarà che proprio coloro che hanno fatto della produzione di ipotesi un autentico mestiere determinano la conseguenza per cui una storia condivisa non potrà mai essere raggiunta?

 

 

01

MASSIMO RENDINA • Perché questa pubblicazione
GIULIO ALFANO • Attualità del personalismo cristiano
CLAUDIO DEL BELLO• Marxismo e libertà
GIULIANO VASSALLI • Costituzione e garanzia di convivenza civile
ALESSANDRO PACE• Costituzione: dibattito aperto
FERDINANDO IMPOSIMATO • Costituzione e legalità democratica
CLEMENTINA FORLEO • Educazione alla legalità
FRANCO IPPOLITO• Riformare la giustizia o governare i giudici?
IGNAZIO J. PATRONE • Legalità e giustizia
LUCA TESCAROLI• Mafia: un delitto emblematico
DOCUMENTI
• Guerriglia o terrorismo? • Sistema informazione
OSSERVATORIO • A proposito di revisionismo


Persona e Società
Anno I - numero 1 - in corso di registrazione dal Trib. di Roma
Direzione e redazione
A.N.P.I.-ROMA
via san Francesco di Sales 5-00165 ROMA
tel. e fax 06 6896519
e-mail: anpi.roma@comune.roma.it
web: www.storiaxxisecolo.it


Comitato di direzione
Giulio Alfano, Mario Avagliano, Primo De Lazzari, Fabrizio De Sanctis,
Claudio Del Bello, Ferdinando Imposimato, Massimo Rendina


Direttore responsabile
Massimo Rendina

02

 

 

OSCAR LUIGI SCALFARO• A difesa della Carta
LEOPOLDO ELIA • Sana e robusta Costituzione
FILIPPO FOCARDI• Marxismo e libertà
RAOUL PUPO • Costituzione e garanzia di convivenza civile
CARLO S. CAPOGRECO • Costituzione: dibattito aperto
FRANCESCO PICCIONI • Costituzione e legalità democratica
DOCUMENTI • Quindi NO: appelli per il Referendum
TESTIMONIANZE Ennio Tassinari

Presentazione del numero 02

L'uscita del secondo numero di Persona e Società cade proprio nella settimana che precede lo svolgimento del referendum confermativo della riforma costituzionale voluta dal governo di centro-destra nella legislatura appena trascorsa. Per questo motivo abbiamo deciso di dividere in due sezioni principali, apparentemente distinte ma in realtà fortemente connesse, la rivista.
La prima parte è dedicata ai temi della riforma costituzionale e comprende interventi del Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e del Presidente Emerito della Corte Costituzionale Leopoldo Elia. I loro contributi illustrano i rischi di involuzione autoritaria e di divisione sociale insiti nella riforma, partendo dall'analisi degli effetti della "devoluzione" dei poteri alle regioni e affrontando il nodo centrale dell'esautoramento di fatto del ruolo del Parlamento e del Presidente della Repubblica in luogo di un rafforzamento, senza contrappesi, delle funzioni del Presidente del Consiglio dei ministri.
La seconda parte tratta invece del complesso processo di definizione della memoria storica pubblica del Paese e delle sue ricadute sulla stessa formazione delle istituzioni democratiche della Repubblica nate dopo il crollo del fascismo. Tre storici, Filippo Focardi, Raul Pupo e Carlo Spartaco Capogreco, affrontano temi complessi, e certamente controversi, della storia d'Italia (dall'occupazione italiana dei Balcani e dell'Africa alle politiche d'internamento varate dal fascismo contro i civili, dai mancati processi contro i militari italiani macchiatisi di crimini di guerra alle foibe) accompagnandoci in una riflessione articolata sui motivi, le ragioni e gli elementi che hanno concorso a formare, non senza contraddizioni, l'identità repubblicana dell'Italia antifascista.
Confrontandoci con i temi delle due sezioni ci siamo resi conto di quanto fossero vicendevolmente connessi. Come non notare la convergenza e la comune radice tra il mito autoassolutorio del "bravo soldato italiano" che occupa le regioni dei Balcani e dell’Africa e le certe missioni militari "di pace" che ledono l’articolo 11 del testo costituzionale? Come non notare la similitudine tra la malcelata ostilità nei confronti della Costituzione di buona parte della classe dirigente italiana di allora con l’insofferenza e la messa in discussione proposta dall’attuale establishment nazionale di oggi? Se è vero che l’uso pubblico della storia è servito in questi anni per finalità politiche di piccolo cabotaggio, cui non sono estranee forze della sinistra, tra i maggiori danni da esso arrecati dobbiamo annotare non solo la proliferazione di tesi revisioniste, quali quelle del fascismo "regime bonario" o la parificazione di repubblichini e partigiani, ma la perdita quasi totale della memoria storica del paese. In questo modo, in nome di una seconda repubblica non più fondata sull’antifascismo, e che vede in Parlamento l’intero arco dei partiti del centro-destra – ad esclusione degli ex democristiani – estranei al processo di formazione della Repubblica e della sua Carta Costituzionale, il passaggio successivo alla delegittimazione dell’elemento fondativo della Repubblica, la Resistenza, non poteva che essere quello dello stravolgimento del testo nato dalla convergenza dei partiti antifascisti del CLN.
Abbiamo riscontrato negli interventi degli storici molti elementi di riflessione che rimandano alla crisi costituzionale e allo stato di permanente transizione politico-istituzionale dei tempi moderni. Tuttavia, la ricerca della verità storica non può intaccare il rispetto che non si può non avere nei confronti di chi, come le forze armate, ha il compito di difendere la Costituzione e di salvaguardare, senza mistificazioni, la pace. Va ricordato, d’altra parte, che i Partigiani hanno fatto parte del Corpo Volontari della Libertà (CVL, oggi Fondazione), riconosciuto come Forza armata dello Stato.
Nella mancata elaborazione della storia e dell’identità nazionale del Paese risiedono molte delle cause della crisi italiana di cui il tentativo di stravolgimento del patto costituzionale rappresenta solo la punta visibile.
Ma molti altri sono i processi da tempo messi in moto che sfregiano, in modo più sottile e al tempo stesso irreversibile, sia la "costituzione formale", sia le quotidiane relazioni sociali. La precarizzazione del lavoro è il più macroscopico di questi processi, che per la massa di popolazione coinvolta – soprattutto le generazioni più giovani – diventa anche il più distruttivo della coesione sociale. Le risposte, anche politico-culturali, alla precarizzazione diventano perciò indicative degli slittamenti e smottamenti di senso indotti nel corpo sociale, a partire dalle fasce che dovrebbero essere intellettualmente più avvertite. In questo quadro abbiamo trovato di grande utilità il provocatorio intervento del giornalista economico del manifesto, Francesco Piccioni, sulla contrapposizione strisciante tra l’ideologia del "reddito garantito" e l’articolata difesa del binomio salario-contratto. Rendendo così evidente che le parti altrimenti marginali e centrifugate della società non possono non assumere la Costituzione del ’48 come l’elemento che permette loro di esistere e migliorare, agendo conflittualmente ma in modo regolato, la propria condizione.
A dimostrazione della rinnovata e attualissima necessità di "difendere" la Carta del ’48, infine, proponiamo anche una serie di appelli, molto eterogenei, di parti sociali – dalle associazioni femministe agli autonomisti sardi, dagli insegnanti democratici alle associazioni più radicali della sinistra – che, pur nella loro particolarità e unilateralità (o forse proprio per questo) insistono nel chiedere un No che garantisca una pluralità di visioni, interessi e culture sorte solo grazie al "patto condiviso" del dopoguerra.

Dal secondo numero riproduciamo il nostro appello per il NO e l'articolo di Francesco Piccioni.

Quindi, NO.
Molte sono le ragioni per votare No al Referendum del 25-26 giugno, ma per noi la più importante e riassuntiva è la salvaguardia della legalità del conflitto sociale. Proponiamo allora il seguente ragionamento:

Una Costituzione – in regime capitalistico – deve garantire la libera contrattazione del salario tra impresa e lavoratori. Vista la sproporzione di forza contrattuale tra i due soggetti, è democratica solo quella Costituzione che permette e garantisce la rappresentanza collettiva degli interessi dei lavoratori, e quindi la libertà di organizzazione sindacale e di sciopero.Troppe sono state però in questi anni le modifiche legislative che hanno messo in discussione la materialità di questo quadro costituzionale: dalla legalizzazione della precarietà, alla riproposizione delle gabbie salariali, dalla fortissima limitazione al diritto di sciopero nei servizi pubblici, alla strisciante criminalizzazione del conflitto sociale quotidiano. La tensione tra costituzione materiale e formale, dunque, è un dato di fatto politicamente preoccupante perché, se permane la tensione, la situazione resta aperta, suscettibile di inversioni di tendenza. La Costituzione vigente, pur con tutti i suoi limiti, è stata una scrittura rivoluzionaria, in quanto ha riconosciuto un nuovo sistema di relazioni – la soggettività economica e politica del lavoro. Un assetto condiviso che può necessitare di alcuni emendamenti, sia pure integrativi, solo se condivisi e coerenti con l’impianto. La riscrittura della Costituzione della Repubblica italiana fondata sul lavoro, sia pure in forma di semplificazione delle regole, attacca non solo e non tanto la centralità del lavoro, ma l’identità e la dignità del lavoratore. Il suo essere cittadino portatore di interessi e diritti. La riscrittura è infatti sempre eversiva nei confronti dei principii, decostruzione della convivenza conflittuale – ma regolata – e riapertura del bellum omnium contra omnes, guerra civile permanente. La società industriale può essere criticata solo da una emergente e reale istanza sociale, non già da un invocato, aberrante medioevo. Per questa ragione la critica di sinistra alle regole costituzionali, o alle modalità con cui l’apparato dello Stato esercita la sua funzione arbitrale, non può mai avere punti di contatto – né logico né politico – con la distruzione delle regole promossa dagli eversori. Forzare l’assetto costituzionale per via referendaria è, tra le vie extraeconomiche, quella più pericolosamente eversiva: e tra eversione e regola costituzionale purchessia, non può esserci scelta. Quindi, No.
Odradek, 2 giugno 2006

 

Il fondamento eroso dalla precarietà
di Francesco Piccioni


Il lavoro, vero perno centrale della Carta del ‘48, è stato decostituzionalizzato in primo luogo sul piano delle relazioni industriali materiali. La chiave di volta, il vero inizio della rottura, è rappresentato dall’introduzione per via legislativa della precarietà, dando piena cittadinanza legale a forme contrattuali apertamente in contrasto con il "fondamento", cioè con l’articolo 1. Anche le varie risposte a questa condizione, dunque, entrano direttamente o meno in rapporto con il dibattito su difesa/riforma della Costituzione. Per questo riportiamo qui un intervento di Francesco Piccioni, giornalista della sezione economica de il manifesto.

Giovani romanzieri ne scrivono. Settori del sindacato – con risultati il più delle volte deludenti – provano a organizzarli. Gli uffici lavoro dei partiti li indagano, promuovendo "inchieste" che un po’ tutte si somigliano, chine come sono sul dettaglio esistenziale che vela, alla fin fine, il nocciolo tematico.
Il termine "inchiesta" evoca altri tempi, ma soprattutto altre pratiche e ben più strutturate linee politiche. Ciò nonostante, questo sforzo generale di indagine conoscitiva, nei più accorti o soltanto dotati di ricordo, solleva qualche attesa non semplicemente empirica. Alcuni giornalisti appena meno vecchi di me, ma con la memoria ben piantata nella storia della sinistra di questo paese, se lo sono chiesti in modo un po’ più deciso: da tutte queste inchieste sul lavoro precario può uscire qualcosa di simile all’innovazione teorica rappresentata a suo tempo dai "Quaderni rossi", quando individuarono la figura dell’"operaio-massa"?
Attesa un po’ esagerata, forse, perché la consapevolezza teorica dei "ricercatori" attuali è in genere poco o nulla superiore a quella dei "ricercati", o intervistati che dir si voglia. E si sa che si trova soltanto quello che si va cercando.
Comunque sia, la domanda posta merita una risposta non evasiva.
E quindi: "può uscire qualcosa di simile all’innovazione teorica rappresentata a suo tempo dai "Quaderni rossi", quando individuarono la figura dell’operaio-massa?"
Dipende.
Se ci facciamo catturare dalla molteplicità dei lavori che in queste ricerche vengono rappresentati, sicuramente no. Basta entrare in una sola azienda medio-grande per capire che non ci sono praticamente più due soli lavoratori che svolgano esattamente la stessa mansione.
Siamo praticamente all’opposto dell’operaio-massa degli anni ’60. Eppure non troviamo traccia di ritorno all’operaio professionale del ciclo pre-fordista. Anche e forse soprattutto nei lavori che impropriamente vengono chiamati "immateriali", dove si presume che sia messa a valore la "conoscenza", scopriamo che la mansione lavorativa è talmente parcellizzata che la conoscenza necessaria è limitata a un singolo frammento, assolutamente povero.
Cos’è accaduto e sta ancora accadendo?
L’innovazione tecnologica ha fatto una parte del suo lavoro spezzettando all’infinito le fasi e le funzioni del lavoro. Fasi e funzioni che, quasi sempre, non richiedono più professionalità di quanta ne possa essere acquisita con un corso di formazione di poche ore.
Un processo di dequalificazione e frammentazione che ha coinvolto la scuola superiore e l’università, oltre che il lavoro. E che produce "formazione professionalizzante", ovvero apprendimento delle procedure, ma non più sapere scientifico, ossia critico. Se non in qualche facoltà scientifica di alto livello che la maggior parte dei giovani, infatti, sfugge come la peste, essendo stati formati in modo tale da non poterla frequentare neppure volendo. Alleviamo generazioni di studenti sistematicamente istruiti a non chiedersi il perché delle cose che studiano, così come abbiamo i luoghi di lavoro pieni di "operatori" scientificamente privati della capacità di ricostruire la complessità e la completezza del ciclo di cui sono parte. La conoscenza procedurale è infatti applicazione standardizzata dei risultati di problemi già risolti. Il sapere critico, al contrario, è un processo di costruzione della capacità di risolvere problemi nuovi o comunque irrisolti.
è la coscienza dei singoli che non riesce a tener dietro alla realtà, neppure ai più alti livelli della direzione di impresa o statuale. Basti guardare alla presidenza degli Stati uniti per rendersene conto.
Cercare di trovare in questo apparente caos, peraltro organizzatissimo, l’elemento interno al processo lavorativo che identifica una nuova figura capace di diventare polo aggregante di una nuova fase del movimento operaio è, secondo me, tempo perso.
è altro ciò che unifica l’immensa varietà di figure al lavoro.
Come durante l’ottocento e all’inizio del novecento – prima delle grandi rivolte operaie e della rivoluzione sovietica, prima delle grandi e vincenti battaglie per la riduzione dell’orario di lavoro e della legiferazione dei diritti conquistati sul campo – è la condizione precaria a fare da massimo comun denominatore alle innumerevoli singolarità al lavoro (anzi: ai lavori).
Non è quello che si fa concretamente lavorando che unifica i soggetti. L’elemento comune ai diversi lavoratori diventa allora il rapporto con il datore di lavoro, o capitale che dir si voglia; ovvero la misura del salario e la tipologia contrattuale.
La condizione precaria pesa già ora anche sui residui di forza-lavoro cosiddetta "garantita". Pesa sui pensionandi e sui pensionati, sulla rete familiare. Pesa persino su chi si crede, pensa e ragiona come un proprietario. Ed è logico. L’87% delle famiglie italiane vive in una casa di proprietà, un dato abnorme che implica una constatazione: buona parte di questi "proprietari" vive comunque sotto la soglia di povertà o in condizioni di reddito precario.
La condizione precaria investe direttamente le identità sociali, scomponendole a loro volta in tanti frammenti orientati da interessi parziali e scollegati o addirittura contraddittori. Cercare di capire gli spostamenti elettorali senza tener conto di questa instabilità indotta e voluta significa condannarsi, come la sinistra di questo paese fa quasi sempre, a inseguire l’avversario sul suo terreno.
Ma se misura del salario e tipologia contrattuale sono gli unici temi in grado di mettere in comune esperienze lavorative sempre più diverse, allora è necessario decidere fin da subito quale proposta politica, quale rivendicazione, fa da baricentro all’iniziativa politica e sindacale di aggregazione dell’universo precario.
Il mercato politico ha fin qui prodotto due proposte, opposte e incompatibili: la richiesta di reddito garantito a prescindere dalla prestazione lavorativa e la stabilizzazione del posto di lavoro. La prima campeggia in testa a manifestazioni di una parte di movimento, variegato e instabile. La seconda in tutti i conflitti di lavoro, nelle piattaforme contrattuali migliori, nella mente e nei timori di quanti materialmente sono alle prese con la realtà della condizione precaria.
La prima intuisce che esiste qualcosa che si chiama "distribuzione secondaria del plusvalore estratto dal lavoro" e ne pretende, o più educatamente chiede, una parte. La seconda si innesta sulla "distribuzione primaria del plusvalore", ovvero sulla misura della ripartizione tra imprenditore e lavoratore.
La prima rivendicazione, il reddito garantito, parla berlusconianamente all’immaginario, discende dalla presa d’atto della inarrestabilità delle trasformazioni nel lavoro, dalla "messa in positivo" della precarietà come aumento, addirittura, dello spazio di vita individuale; dai discorsi sulle "moltitudini" che nascondono le differenze reali di soggetti sociali magari contigui ma non eguali. Accetta la condizione precaria e suppone di poterne minimizzare soggettivamente le implicazioni devastanti. è un’idea da ceto politico, buona per cacciatori di prebende che si vanno ad annidare nelle anticamere delle amministrazioni locali. Quanto sia lontana dalla realtà ce lo hanno dimostrato tutte, ma proprio tutte, le ricerche già svolte sul precariato. Ma possiede il fascino della proposta che – di fronte a un compito sinceramente immane – appare come l’idea semplice che evita di sobbarcarsi di troppa fatica. Basta non chiedersi da dove verranno prese le risorse necessarie a "garantire il reddito" anche del "non lavoro". Basta non interrogarsi su chi dovrebbe essere sfruttato di più per consentire tale trasferimento di reddito.
La seconda proposta, la stabilizzazione del posto di lavoro, parte invece dai bisogni materiali. Implica certamente un massiccio impegno di organizzazione politica e sindacale a partire dai posti di lavoro e dal confronto con la politica, la legislazione, tanto a livello nazionale che europeo. Ovvero con i luoghi e i momenti dove il conflitto sociale trova rappresentazione e mediazione anche istituzionale. Tra parentesi, la dinamica implicita in questa seconda rivendicazione comporta anche una tensione positiva che può contribuire a riavvicinare la politica stessa ai soggetti sociali in carne e ossa, cioè alla popolazione e ai suoi bisogni. Implica impegno continuativo, applicazione di passione e intelligenza, socializzazione delle esperienze e riduzione delle differenze, conflitto sociale e capacità di farsi strada individuando bene le tappe di un percorso vincente.
Ma non ha alternative.

 

03

 

 

Massimo RENDINA • Resistenza Costituzione Democrazia
Aldo AGOSTIOratio brevis
Mario LUNETTA • I destini generali
Giulio ALFANO • L’etica politica tomista
Marco PALLADINI • Nemocrazia
Vito Francesco POLCARO • Intervista su pace e disarmo
TESIMONIANZE
Giovanni RUSSO • Su Lauro de Bosis
Marco MALAGOLA • Il messaggio del Ponte della pietà


04

Massimo Rendina • Crisi dei partiti, crisi delle istituzioni
Raffaele D’agata • PER IL PARTITO NUOVO
Francesco Muzzioli • 25 aprile
Angelo D’orsi • INTERVISTA sull’antifascismo
ma. re. • i fascisti dentro di noi
DOCUMENTI
E.A. Cicchino R. Olivo • Il primo attentato a Mussolini
TESTIMONIANZE
Emanuela Pucci Boncambi • Su mio padre

Presentazione

Il “sistema Italia” sembra destinato a un inevitabile declino relativo non soltanto agli aspetti economici, politici e sociali, ma sopratutto in rapporto alla capacità di rappresentanza di una società aperta e dunque alla sua stessa legittimazione popolare, e ciò nel quadro della riconosciuta, dalle stesse forze partitiche organizzate, quanto generalizzata, crisi del sistema politico nazionale e di una più ampia e complessa disarticolazione sociale e partecipativa, resasi più visibile dopo la fine della Guerra Fredda. Partendo da una siffatto quadro generale, in questo numero abbiamo voluto avviare una prima serie di ragionamenti finalizzati alla comprensione delle cause profonde della crisi italiana, analizzandone le radici profonde e provando ad individuarne alcuni possibili sviluppi futuri.
Massimo Rendina, nel suo intervento di apertura, rifuggendo dalla facile tentazione dell'antipolitica, pone al centro del ragionamento la crisi dei partiti e la loro manifesta insufficienza rispetto alla funzione che essi sarebbero chiamati a svolgere nell'età contemporanea.
Una critica costruttiva, dunque, che riconoscendo la necessità della presenza, in una società oggi fortemente atomizzata, di organismi aggregativi di massa pone al centro della riflessione l'insufficienza dei partiti di fronte all'esigenza sociale di ricomposizione e riorganizzazione, in termini progressivi, del tessuto connettivo nazionale.
In questo quadro la possibile inversione della tendenza qualunquistica e disgregativa dell'antipolitica viene individuata da Rendina nella riproposizione, aggiornata, della partecipazione diretta e popolare alla vita pubblica proprio attraverso le forme organizzative non solo dei partiti ma anche delle associazioni, dei sindacati o dei comitati territoriali.
Con l'intervista ad Angelo D'Orsi abbiamo cercato di risalire alle possibili origini di quella che pare essere una crisi strutturale dell'impianto istituzionale repubblicano nato al termine del secondo conflitto mondiale. Partendo dall'analisi delle ragioni e delle conseguenze comportate dall'affermazione della vulgata anti-resistenziale come senso comune dell'opinione pubblica moderata D'Orsi pone, come premessa alla crisi del sistema italiano, proprio la messa in discussione dell'antifascismo quale genesi dello Stato democratico. Questo processo, apertosi con l'affermazione sul piano nazionale ed internazionale del revisionismo storico, ha finito per incidere sul piano interno sulla ridefinizione dell'identità nazionale del paese e su quello estero sulla composizione fragile, dal punto di vista della condivisione politica, storica e sociale, dell'unità europea.
Raffaele D'Agata, dal canto suo, sviluppa un'articolata riflessione critica sulla formazione di nuovi soggetti politici nazionali e sui compiti a loro spettanti in relazione alla crisi di partecipazione politica e di rappresentanza di istanze sociali coniugate nel quadro della nuova dimensione internazionale e globale assunta dalla società.
Al fine di rilanciare un dibattito quanto mai necessario su questi temi centrali proponiamo perciò questi interventi, ai quali vanno aggiunte le consuete rubriche storiche (Documenti e Testimonianze) e letterarie – notevole il 25 aprile di Francesco Muzzioli –, nell'ottica di costruire all'interno della rivista un momento di discussione critica, inquadrata nella prospettiva storica di lungo periodo, sulle questioni principali della nostra stretta attualità.

Sommessamente, l'editore vuole richiamare l'attenzione su quattro pezzi: quelli di Massimo Rendina e Raffaele D'Agata, perché pongono giù dura la questione dei partiti in questo momento preagonico; quello di Angelo D'Orsi, perché si leva qualche sassolino dalla scarpa sull'antifascismo rituale; e quello di Francesco Muzzioli, perché mostra come si possa fare alta letteratura su un tema abusato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INFO CONTATTI MAPPA
Odradek Edizioni srl - Via san Quintino 35 - Tel e Fax. 067045 1413