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Tornata elettorale

Visto che abbiamo commentato con brevi flash (vedi Bacheca e Zibaldone) questa campagna elettorale, non ci sottraiamo a un breve commento finale. [Che ha suscitato una interessante discussione, vedi di seguito]


La pericolosa ascesa del Priapo Impotente è stata bloccata «grazie a una ben orchestrata campagna di stampa con l'aiuto di consorterie internazionali», in quanto ha potuto determinare un massiccio astensionismo in parte della "maggioranza silenziosa" che si è limitata a disertare le urne, e non già a orientarsi verso altri partiti.
Constatato lo scampato pericolo – non avrebbe preso prigionieri – non resta che cogliere la decomposizione irreversibile dell'elettorato di sinistra che, di fronte a una epocale crisi interna e internazionale, risponde in ordine sparso affidandosi a formule testimoniali, esorcistiche e identitarie: esprime sogni e aspettative, anziché riconoscersi in interessi: il lavoro e i suoi diritti – che altro?
Odradek, 8 giugno 2009

[La discussione si è sviluppata - vedi sotto - ma di seguito riportiamo le ultime battute]

Replica - Ci si sorprende, e non poco, nel leggere delle risposte non a quanto ho scritto ma, evidentemente, a quello che ci si vorrebbe sentir dire per poter meglio controbattere. Non ho mai parlato di somma elettorale di alcunché, né di elezioni. Al contrario, ritengo proprio che non abbiamo il tempo di attendere altri tre anni e mezzo per cercare di battere Berlusconi in cabina elettorale con una coalizione urbi et orbi che poi rigoverni in malo modo. Questo governo deve cadere al più presto per volontà popolare e politica di tutti gli italiani che non si riconoscono nel centro destra. Continuare a parlare di unità delle sinistre, o di mancata unità, di somma elettorale, di cartello antifascista o altre cose del genere è fuori luogo, nonché pericoloso. Abbiamo un problema gravissimo, come l'occupazione eversiva delle nostre istituzioni, lo stravolgimento della costituzione erede della Resistenza e l'instaurazione di un regime mediatico senza precendeti nell'Europa postbellica. Per risolverlo serve un'azione collettiva, decisa, generale, e non l'accademia o la teoria. Repubblica e il Corriere, tanto per fare un esempio, stanno continuando. Famiglia Cristiana, non lo so. Solo dopo la ripresa di una normale dialettica democratica ci si potrà nuovamente impegnare seriamente a farsi del male a sinistra, dentro e fuori la cabina elettorale. Allora, forse, ne riparleremo. MC, 18 giugno 2009.

Plotone d'esecuzione - Il problema della rimozione del Priapo Impotente per ora è l'assillo della borghesia tutta, nazionale e internazionale. Il fatto che il Corriere abbia allargato il fronte mi sembra abbastanza indicativo. Così come anche lo sparigliamento siciliano di Lombardo aveva annunciato che i "poteri forti locali" stavano sciogliendo la muta dei cani. La Chiesa - con l'Avvenire - ha aggiunto un altro pezzo a quello che, più che un complotto, sembra ormai un plotone di esecuzione.
Testimonianze dal vivo dànno una descrizione dell'uomo ormai abbastanza fuori di testa. Vedo più probabile che un gruppo di notabili e uomini
d'arme lo prendano in consegna per portarlo dallo psichiatra, che non una ahimé improbabile sollevazione della "volontà popolare e politica
di tutti gli italiani che non si riconoscono nel centro destra".
Temo che la sua uscita di scena avverrà come la caduta di un malato, che mette in discussione ben poco delle politiche e della cultura fin qui
devastata. Temo che ci toccherà un "governissimo" molto "tecnico", che congela ogni movimento perché la parte "democratica" si sentirà come sempre investita della sacra missione di "salvare il paese".
Questo segna però, a medio-breve termine, anche la riapertura di tutti i giochi. Il centrodestra senza padrone dovrà spaccarsi necessariamente, la Lega darà fuori di matto (a parole) perché gli viene a mancare l'unico
alleato vero, e anche a sinistra si potrà ricominciare a ragionare senza l'obbligo dell'unità "contro" invece che "per".
Insomma: anche l'uscita di scena di Berluska sarà una sconfitta per la sinistra. Ma con un margine in più per tentare di risollevarsi. Forse.
p.s. In politica, se si invoca un "prima liberiamoci del tiranno e poi discutiamo tra noi", l'analogia con il "fronte antifascista" è d'obbligo. Anche se non lo si è nominato. E non lo si fa "per comodità polemica", - che in questo caso neppure mi sentivo addosso... - , perché a ben vedere si tratta di un argomento piuttosto complesso e controverso, nella storia del movimento operaio e comunista. Detto tra parentesi, io negli anni '30 sarei stato per l'unità antifascista ben prima del '36...
Casimiro, 20 giugno 2009.

Hotel Lux Come molti ricorderanno, l'Hotel Lux era negli anni Trenta a Mosca la sede dei massimi dirigenti dell'Internazionale comunista. Non era una sede di lusso; si trattava di semplici camere modestamente arredate, neanche sempre abitate da una singola famiglia. La penuria di alloggi toccava anche la cima della piramide. Ebbene, sotto altra forma e in ben altro contesto, una genia di dirigenti internazionalisti, un'Europa antifascista, si è riunita nell'ultima settimana di campagna elettorale e ha contribuito in modo determinante a fermare l'ascesa della bestia. El Pais, The Times, il Financial times, la Suddeutesche Zeitung hanno contribuito a convincere qualche elettore del centro-destra italiano che l'attuale non è un governo di destra, ma una masnada di ceffi, marionette ed ex amanti incapaci: il peggiore governo della storia italiana, ventennio compreso. Nessuno, fuori da questi nostri confini, vuole più avere a che fare con il capocomico, il camorrista, il corruttore, bancarottiere, evasore e concussore. L'Hotel Lux questa volta ci ha aiutato. Il giornale di Ezio Mauro ha avuto un ruolo non piccolo e gliene va dato atto. Ma non ci si può accontentare né di Repubblica, né di Di Pietro, anche se la sinistra ora è fuori anche dal parlamento europeo. Nulla da dire, lo meritava. Ma, a maggior ragione, occorrerà insistere che solo intorno al lavoro potrà rinascere un partito in grado di raccogliere un vero consenso.
MC, 9 giugno 2009.

Famiglia Cristiana L’analisi del voto effettuata sui dati finali riserva qualche sorpresa. Un anno fa, il Pdl aveva preso oltre 13.600.000 voti, il 37,4%. L’altro ieri ha mantenuto una percentuale di poco inferiore (35,3%) pur avendo
avuto 10milioni e 800mila voti. Quasi 3 milioni in meno. Peggio ha fatto il Pd, che un anno fa era stato scelto da 12.092.000 italiani, il 33,2%. Domenica ha «tenuto» con il 26,1%, ma con soli 8 milioni di voti: in 12 mesi 4 milioni di voti in meno. E veniamo ai «trionfatori». La Lega ha guadagnato in un anno appena 100 mila preferenze, ma 1,9 punti (dall’8,3 al 10,2%). Molto meglio ha fatto l’Italia dei valori, che ha raddoppiato le percentuali (dal 4,4 all’8%) con 800mila voti in più. Poi c’è il caso singolarissimo degli «sconfitti di successo». La Lista comunista un anno fa era parte dell’Arcobaleno, così come la maggior parte dei componenti di Sinistra e libertà. Tutti insieme presero il 3,1% con 1.124.000 voti. Fuori dal parlamento, anche da separati, i comunisti hanno guadagnato 1 milione e 38mila preferenze, mentre Sl 958mila. Una marea, in una tornata dove sono rimasti a casa oltre 5 milioni di persone. Segno che c’è un popolo numeroso e vivo, ma una classe politica «radicale» incapace sia di rappresentarlo che di organizzarlo.

Il giudizio politico sull’esito del voto resta negativo; quello sugli spostamenti sociali, invece, merita di essere rivisto. E rapidamente, pena il confondere con interpretazioni depressive un popolo già incline allo smarrimento.
Poche considerazioni numeriche aggiuntive. Già prima del voto i pubblicitari e i sondaggisti calcolavano un’astensione oscillante tra il 3 e il 5% nel solo campo berlusconiano. La previsione si è rivelata esatta, semmai addirittura ottimistica. La folla che ha abbandonato per ora il Cavaliere è fatta di cattolici. Su di essi Repubblica non ha alcuna influenza siginificativa. Mentre c’è un giornalino che nessuno di noi legge, ma che da settimane sta facendo polpette di ogni ambizione di Silvio. Viene venduto in 800.000 copie ogni settimana, all’interno di tutti i recinti parrocchiali. Si chiama Famiglia Cristiana.
La politica, se si tiene di vista l’insieme e non i desideri del “ceto medio riflessivo” di area democratico-progressista, risulta un po’ più complessa e non riconducibile allo schema moralistico semplificante legalità-illegalità.
Casimiro, 9 giugno 2009.

Sia detto una volta per tutte. Il problema non è Berlusconi. Semmai, risulta essere la necessaria, tragica soluzione.
Il problema è l'Opposizione. Il giorno stesso in cui, anziché rivendicare la politica del governo Prodi che l'aveva propiziato, sputava nel ricco piatto offerto da Gheddafi, quello stesso giorno diciassette "democratici", collusi con la Mafia, votavano con la maggioranza - un voto al Governo, che aveva posto la fiducia - a favore del ddl sulle intercettazioni.
Tutto questo, nei giorni in cui ci si compiaceva delle celebrazioni bipartisan (Alemanno, Fini) di Enrico Berlinguer, il "comunista" passato alla storia come "quello della questione morale", ma soprattutto come colui che offerse il collo al compromesso storico, che chiamarlo errore strategico è un eufemismo come chiamare transizione il suicidio.
Quell'errore strategico di trenta anni fà, è stato reiterato con il PD. Ma non sarà la Serracchiani a salvarlo. Ci si augura.
O., 13 giugno 2009

Una notizia buona e una cattiva

Il primo elemento è che per la prima volta in Italia la percentuale dei votanti è scesa sotto al 70% in una elezione generale. Rispetto alla percentuale di voto attesa, il calo è del 3,4%. In realtà, però, l'alto astensionismo è stato determinato da poche regioni, che sono la Sicilia, La Sardegna, la Calabria, il Molise e la Campagna. In Toscana, Umbria e Marche la partecipazione è stata addirittura superiore alle attese. Rispetto alle elezioni europee del 2004, i voti validi sono diminuiti di 1,9 milioni (6%); rispetto alle politiche dello scorso anno si sono persi 5,9 milioni di voti validi, il 16%. Rispetto alle Europee, i partiti della sinistra radicale hanno perso 1,4 milioni di voti, ma ne hanno guadagnati 650mila rispetto alle politiche. Il Pdl ha guadagnato 231mila voti rispetto alle europee, ma ne ha persi 2,9 milioni rispetto alle Politiche.
La buona notizia è che il Pdl non ha raggiunto il 40% dei voti, come aveva dichiarato alla vigilia. La cattiva è che le elezioni europee non sono le politiche. Il Pdl, e in particolare Berlusconi, ha sempre dimostrato di saper mobilitare il proprio elettorato durante le politiche, elezioni alle quali sono comunque più interessati gli elettori rispetto alle europee, che in alcuni paesi (per esempio Repubblica Ceca, Slovacchia) porta alle urne non più del 20% degli aventi diritto. Non sono convinto, come ha scritto qualche osservatore, che in Italia ogni elezione assume una connotazione politica. In altre parole, le europee non sono state un test attendibile per capire il polso del paese. I risultati delle amministrative, che in alcune città si discostano di molto da quelli delle europee, ne sono una prova ulteriore.
Il problema che ci troviamo di fronte, però, non è stato risolto. Berlusconi è sempre lì e vuole arrivare al Quirinale. Si deve impedire che ciò accada. Per fare ciò servirebbe un'opposizione vera, che però ancora non abbiamo perché la classe dirigente del centro sinistra e della sinistra radicale non è mai cambiata. Sono mutati i nomi, ma le persone sono le stesse di circa venti anni fa. Cercare oggi l'unità delle sinistre è un'utopia irrealizzabile. Ha ragione Asor Rosa a rievocare il 2005. Ma se non si è riusciti allora, perché insistere oggi? Servirebbe, invece, una unità democratica che abbia come unico scopo quello di fermare l'ascesa di Berlusconi al Quirinale. Realizzato questo, ripulito il paese dai piduisti e dagli eversori del Pdl, ci si conterà a sinistra e si vedrà allora con chi stare e come stare. Bertinotti, che si è rivelato sempre la persona sbagliata nel posto giusto, dovrebbe essere radiato da ogni qualsivoglia formazione della sinistra. Che se lo prendano quelli del Pd, se ancora esisteranno.
MC,18 giugno 2009.

L'amore, come la guerra, si fa in due

Numeri compresi, il discorso si riduce all'auspicio di una grande unità antifascista.Il che è in parte un'ovvietà, in parte una pia illusione. veniamo infatti
da un biennio di governo Prodi che è stato esattamente questo (maggioranza per 24.000 voti...), riuscendo a dimostrare che il problema riguarda non le sommatorie elettorali, ma la composizione della società italiana, gli
interessi strutturati esistenti, le capacità della politica di
rappresentarle. Se quell'"unità" si è sciolta come neve d'agosto non dipende solo da una classe politica "vecchia", ma dall'impossibilità – nelle condizioni date – di resuscitare una sorta di "patto tra produttori" in grado di mettere all'angolo il "patto tra corruttori e concussori".
Dipende insomma dalla natura dell'imprenditoria italiana, che non è ancora
riuscita a diventare e a costruirsi come "classe generale" e quindi tende, in ogni fase critica, a massimizzare i benefici economici immediati per sé
a scapito della forza lavoro. Senza alcuna mediazione, anzi cercando di spazzar via gli istituti storici della mediazione (il sindacato, in primis).
S e si allontana per un attimo lo sguardo dalle colonne dei numeri post-elettorali, e quindi anche l'idea un po' semplicistica della somma che magicamente rovescia l'indirizzo del paese, si vede che esistono processi profondi che non si ricompongono – per ora – sul piano
partitico-elettorale perché certi interessi non trovano modo di esser conciliati.
Non appare un paradosso evidente che la "sinistra" meno "radicale" della storia italiana, la più disponibile ai compromessi e alle contrattazioni in perdita, tuttavia non sia riuscita ad esser compresa in un asse sociale
solido da tradurre in maggioranza istituzionale?
L'amore, come la guerra, si fa in due.
Casimiro, 18 giugno 2009

L'egemonia stenta a manifestarsi, gli interessi non si compongono, le classi si frammentano. Più in particolare, a sinistra, Bertinotti ci ha messo del suo, e così assistiamo alla contrapposizione feroce delle due anime che da sempre s-compongono la sinistra "radicale"; tra coloro che studiano Marx, come occasione per conoscere il capitalismo e prevederne i futuri movimenti, e coloro che vi scorgono la possibilità di dilatare la propria coscienza individuale cogliendo le progressive modificazioni della cultura e della società propiziate dallo sviluppo del capitalismo. Che è in qualche modo la contrapposizione di un marxismo come comunità politica a uno come salotto letterario. Odramaster, 18 giugno 2009

 

Seguono due sezioni: la prima si occupa di Veltroni – a proposito, che fine ha fatto Veltroni? – la seconda di salario. I due temi sembrano molto distanti: ciò che li unifica, forse, è la disposizione, di chi ha selezionato i materiali, alla critica del linguaggio.

 

ORRORE PURO

Contemporaneamente alla pubblicazione di Modello Roma. L'ambigua modernità (a cura di Enzo Scandurra), articolata analisi della politica veltroniana al comune di Roma, diversi e qualificati collaboratori di Odradek [Felice Accame, Marco Clementi, Davide Pinardi, Mario Lunetta, Sergio Giuntini e Francesco Ranci] si sono impegnati nell'analisi del veltronismo, in particolare del discorso del Lingotto [vedi sotto]. Cioè, alla critica della Modernità veltroniana – ovvero,
della sistematica del futile: il luccichio delle vetrine, l’opacità dei poteri, l’invisibilità del disagio – hanno fatto corrispondere una critica più interna, che va alle radici del pensiero veltroniano, se l'espressione non risulta azzardata. Certo, qualcuno potrebbe osservare che si tratta di «pezzi facili» e maramaldeschi di intellettuali con gli studi giusti che si accaniscono sulla prosa di un perito cameramen. Ma, si capisce, qui non si tratta della puzza sotto il naso di chi ha fatto il liceo e l’università, ma delle analisi di chi maneggia il pensiero astratto a carico di chi produce immagini, e con le quali intende raggiungere e poi gestire il potere.


Si è molto insistito sul "ma anche" per sottolineare l'ansia di composizione e attenuazione dei conflitti. Ma il "ma anche" evoca contrapposizione, e chissà quali possibili esiti. Sarebbe più appropriato l'"e anche", cioè la disposizione all'enumerazione indefinita. Qualcuno in passato parlò di pensiero (e dàgli) "tautoeterologico", cioè di pensiero del "questo" e del "quello", di dialettica diadica e compensativa. Se il pensiero ci perde, però, la politica non ci guadagna. Industriali e anche operai, e anche ricercatori, e anche generali, e anche veline, e anche la moglie di, e anche casalinghe, e anche un precario, ...

E anche Malpensa... è di oggi, 21 marzo, l'ennesima uscita compulsiva. L'hub ha da essere uno, o Roma o Malpensa. Ma quando mai? Su, da bravi, non litigate: un hub per ciascuno. Alla prossima...

Anziché tuonare - come peraltro ha fatto Di Pietro che ha parlato, quanto meno, di turbativa di mercato - contro l'Osceno di Arcore che promette di bocciare il piano Air France una volta Presidente del Consiglio proponendo nel contempo i suoi figli come acquirenti di Alitalia, l'Insulso capitolino abbassa i toni. Ha perso.

È passato un angioletto e ha detto amen.

 

COMMENTI AL DISCORSO DEL LINGOTTO

Felice Accame, Marco Clementi, Davide Pinardi, Mario Lunetta, Sergio Giuntini e Francesco Ranci si sono impegnati nell'analisi del discorso torinese di Walter Veltroni. A questi interventi aggiungiamo le lettere di C.G.Dekodra, sempre attento ad evitare che la critica scada a satira e a vaudeville.


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Tandem La leader da affiancare a Veltroni alla guida del nascente Partito democratico potrebbe essere
"donna" Assunta Almirante. Ha infatti dichiarato recentemente di non essere mai stata fascista. Proprio come Veltroni che volle assicurare di non essere mai stato comunista. MC


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Cari Odradekki, il tono leggero da voi usato, magari satirico, nei confronti di questa neoformazione politica – il veltronismo, intendo – è pericoloso e mistificante. L’ha capito un conservatore intelligente come Sergio Romano che ha firmato il 2 novembre un editoriale del Corriere della sera. Relativamente al fattaccio di Tor di Quinto, ha rilevato sia la gravità del comportamento del governo – che trasforma un disegno di legge in decreto legge sotto la spinta di un fatto di cronaca, “uno dei tanti che affollano le statistiche criminali di qualsiasi Paese europeo” –, sia la pericolosità delle dichiarazioni di Veltroni – “il pericolo romeno” – riguardo al rafforzamento di “prevenzioni ingiuste e pregiudizi xenofobi”. Come conseguenza, in un quartiere della periferia romana, è scattata la spedizione punitiva di una decina di fascisti contro un gruppo di romeni.
Il Corriere della sera aveva salutato la nascita del PD con un editoriale del suo direttore Paolo Mieli intitolato “Il Partito americano” in cui naturalmente si auspicava come leader il sindaco di Roma. Ora comincia ad affiorare qualche dubbio.
Il comportamento di Veltroni, in effetti, preoccupa. Poteva difendere la sua politica di chiusura dei campi Rom, invece che un loro potenziamento. Certo era più difficile giustificare lo stato del sistema ferroviario metropolitano di Roma – la stazione di Tor di Quinto è come una stazioncina del far West, ma senza il telegrafista. Ha scelto invece di indicare come capro espiatorio gli immigrati romeni. Un comportamento
talmente irresponsabile da preoccupare non solo i cattolici (o i
valdesi), ma persino gli sprovveduti che ne hanno assecondato la fortuna politica.
Un dirigente politico che grida “all’emergenza” mutuando dalla parte formalmente avversa – cioè Fini – analisi e rimedi, è inutile e inaffidabile soprattutto per quei poteri che si è votato a compiacere.
Estremista di centro, maniaco del giusto mezzo e della plumbea mediocritas, concepisce la politica come consonanza e quotidiano appiattimento alle irritazioni mediatiche. Un ventriloquo sociale, praticamente una eco di fondo. Un ripetitore, anziché un risolutore.
Gli elettori di sinistra lo ripagheranno certo della medesima ostile estraneità da lui mostrata per una certa tradizione. Ma appunto, l'insulsaggine politica del tipo di mediazione da lui proposta finirà per risultare evidente alla distanza. Proprio come accade per i film di Benigni.
G.C. Dekodra


# # #


Cari Odradekki,
vorrei aggiungere una perla alla collana già da voi confezionata con le pietre preziose del pensiero veltroniano estratte dal discorso del Lingotto [Orrore puro, vedi sotto].
Proprio ieri, in un'intervista al Corriere della sera, il Signore del giusto mezzo si domanda: «Chi è l'imprenditore?». «Un operaio che rischia», si risponde compiaciuto. Certo, specularmente, anche l'operaio che rischia – la vita – è un imprenditore, di se stesso.
C'è un progresso evidente nei confronti del «presidente operaio» del guitto di Arcore, in cui l'ossimoro era solo apparente – è possibile che un operaio diventi presidente, e che un presidente torni a fare l'operaio; qui i termini dell'opposizione sono futilmente interscambiabili.
Il pericolo è che "Modello Roma" possa diventare un canone per la logica del futuro. Altro che dialettica, altro che, in subordine, logica dei distinti.
Il rapporto tra l'Uno e l'Altro, la sua eventuale conflittualità, viene risolto dichiarando che l'Uno È l'Altro, senza residui.
G.C. Dekodra

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Glosse all'Orrore puro
Appunti di un collettivo di pensiero sul discorso di Veltroni

«Io qui oggi parlo non da uomo di partito e neanche da uomo di parte. Parlo da italiano».
Sulle prime si potrebbe essere tentati di liquidare la frase sulla base del semplice buon senso e dire "non vuole dire niente". Ciascuno di noi, infatti, è pienamente consapevole, ogni volta che parla - ma non solo: ogni volta che percepisce qualcosa, prima ancora di dire cos'è - di non poter essere altro che "di parte". Veltroni, pertanto, sembrerebbe semplicemente un tardivo spacciatore di neutralità ingenuamente travolto dalle assonanze: "non di partito", "non di parte".
Ma quando ci aggiunge che parla "da italiano" quella dose di diritto all'indulgenza che siamo disposti a concedere a chiunque svanisce d'incanto. C'è un limite a tutto. E no che non vuole dire niente, dice eccome. Dice, per esempio, che fra le argomentazioni di un rappresentante del Partito Democratico trovano posto argomentazioni che furono di Almirante e, prima di lui, di chi ne ispirò l'azione più e meno politica. L'italianità come qualcosa di meno di parte dell'essere di parte e l'italianità come punto di vista al vertice dell'interscambiabilità di tutti i punti di vista possibili. La nostra fiducia nell'aria fritta, insomma, ancora una volta risulta mal riposta. Nulla di volatile, tutto destinato a stagnare, marcendo. E infettando.
Felice Accame

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Il Partito democratico, afferma Veltroni, indica nel nome «un'identità che si definisce con la più grande conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane possono esistere e convivere solo con la libertà individuale e collettiva, con la piena libertà delle idee e la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla giustizia sociale e all'irrinunciabile tensione all'uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità per ognuno».
Si tratta di un passaggio ingannevole perché gioca sul significato che ognuno può dare alla parola “libertà”. La libertà individuale e quella collettiva sono infatti spesso in conflitto, la giustizia sociale non sempre si coniuga con la libertà di “intraprendere” (fare impresa), mentre le “stesse opportunità” sono quelle di “partenza”. E’ lo scioglimento, neanche troppo originale, dell’americano “diritto individuale alla felicità”. Esso, come sappiamo, si è esteso dall’individuo alla comunità americana, che ha diritto a essere felice. Al di là del bene e del male. Al di là della felicità delle altre comunità.
Marco Clementi

# # #


Le sorgenti del pensiero politico di Walter
Parte Prima – Politica interna
di Davide Pinardi


Walter Veltroni
L'Italia deve recuperare in pieno …il senso di un'appartenenza comune, il senso profondo di essere una nazione. Una nazione unita. Un solo popolo. Una sola comunità. Non ci sono due Italie, c'è un'Italia sola. Non c'è un "noi" e non ci sono "gli altri", quando si parla degli italiani. E non ci può essere "noi" e "gli altri" nemmeno quando si tratta del rapporto tra fede e laicità. La cosa peggiore che il Paese potrebbe avere in sorte è la contrapposizione esasperata tra integralismo religioso e laicismo esasperato… No, non può essere. La risposta è nella sintesi…


Walter Cotugno
Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano
lasciatemi cantare
sono un italiano
Buongiorno Italia gli spaghetti al dente
e un partigiano come Presidente
con l'autoradio sempre nella mano destra
e un canarino sopra la finestra
Buongiorno Italia con i tuoi artisti
con troppa America sui manifesti
con le canzoni con amore
con il cuore
con piu' donne sempre meno suore
Buongiorno Italia
buongiorno Maria
con gli occhi pieni di malinconia
buongiorno Dio
lo sai che ci sono anch'io
Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano
lasciatemi cantare
una canzone piano piano
Lasciatemi cantare
perche' ne sono fiero
sono un italiano
un italiano vero
Buongiorno Italia che non si spaventa
e con la crema da barba alla menta
con un vestito gessato sul blu
e la moviola la domenica in TV
Buongiorno Italia col caffe' ristretto
le calze nuove nel primo cassetto
con la bandiera in tintoria
e una 600 giu' di carrozzeria
Buongiorno Italia
buongiorno Maria
con gli occhi pieni di malinconia
buongiorno Dio
lo sai che ci sono anch'io
Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano
lasciatemi cantare
una canzone piano piano
Lasciatemi cantare
perche' ne sono fiero
sono un italiano
un italiano vero
La la la la la la la la...
Lasciatemi cantare
con la chitarra in mano
lasciatemi cantare
una canzone piano piano
Lasciatemi cantare
perche' ne sono fiero
sono un italiano
un italiano vero


Walter Storia Tesa
Fufafifi' fufafifi' Italia evviva. Italia perfetta, perepepe' nanananai. Una pizza in compagnia, una pizza da solo: in totale molto pizzo, ma l ' Italia non ci sta. Italia si' Italia no, Italia si'
ue' , Italia no ,ue' ue' ue' ue' ue'.
Perche' la terra dei cachi e' la terra dei cachi. No.


Walter De Gregori
Viva l'Italia
l'Italia liberata
l'Italia del valzer
l'Italia del caffè
l'Italia derubata e colpita al cuore
viva l'Italia l'Italia
che non muore.
Viva l'Italia
presa a tradimento
l'Italia assassinata dai giornali e dal cemento
l'Italia con gli occhi asciutti nella notte scura
viva l'Italia
l'Italia che non ha paura.
Viva l'Italia
l'Italia che sta in mezzo al mare
l'Italia dimenticata
e l'Italia da dimenticare
l'Italia metà giardino e metà galera
viva l'Italia
l'Italia tutta intera.
Viva l'Italia
l'Italia che lavora
l'Italia che si dispera
e l'Italia che s'innamora
l'Italia metà dovere e metà fortuna
viva l'Italia
l'Italia sulla luna.
Viva l'Italia del 12 dicembre
l'Italia con le bandiere
l'Italia povera come sempre
l'Italia con gli occhi aperti nella notte triste
viva l'Italia
l'Italia che resiste
Le sorgenti del pensiero politico di Walter


Le sorgenti del pensiero politico di Walter
di Davide Pinardi

Parte Seconda – Politica estera


Walter Veltroni
… Non credo si possa pensare ad una grande organizzazione mondiale delle forze di progresso che non racchiuda dentro di sé i democratici americani…


Walter Kennedy
…Lo sbarco nella Baia dei porci fu l'inizio del tentativo di invasione; ideata durante la presidenza di Eisenhower, l'operazione fu autorizzata dal suo successore Kennedy. A suggerire l'opportunità dell'attacco erano stati i servizi segreti degli Stati Uniti, decisi a riportare l'isola sotto la propria sfera d'influenza. Castro, succeduto al filo-americano Batista, aveva infatti nazionalizzato banche, società e casinò, ostacolando gli interessi statunitensi e avvicinandosi – con lo scambio zucchero per petrolio – all'Unione Sovietica e argomentando a favore di una possibile aggregazione di stati centro e sud-americani. ( Wikipedia )


Walter Johnson
… Il coinvolgimento degli USA nella guerra fu graduale, con personale militare che arrivò già nel 1950. Il coinvolgimento militare incrementò lungo il corso degli anni sessanta e sotto successivi presidenti, sia democratici che repubblicani ( Eisenhower, Kennedy, Johnson, e Nixon), nonostante gli avvertimenti del comando militare statunitense contro una grossa guerra di terra in Asia. Non ci fu mai una dichiarazione formale di guerra, ma ci furono una serie di decisioni presidenziali che incrementarono il numero di "consiglieri militari" nella regione.
Nella campagna per la presidenza del 1960, la percepita minaccia sovietica e l'erosione della posizione statunitense a livello mondiale furono una questione prominente e Kennedy ne fece uno dei principali argomenti della campagna
Gli sforzi dell'amministrazione Kennedy per contenere il Vietnam del Nord avvennero simultaneamente agli sforzi di ammodernare il regime del Sud. Kennedy era fortemente convinto che il Vietnam del Sud fosse una nazione stabile e democratica, e screditò ampiamente il Nord e la sua retorica comunista… Kennedy venne accusato di essere troppo ingenuo e utopico nel suo convincimento che i valori americani potessero essere importati istantaneamente da un altro paese, indipendentemente dalla sua cultura o storia.
… Tre settimane dopo la morte di Di?m, Kennedy stesso venne assassinato e il vice presidente Johnson venne improvvisamente spinto a interpretare il ruolo principale della guerra. L'appena insediato Presidente Johnson confermò, il 24 novembre 1963, che gli Stati Uniti intendevano continuare ad appoggiare il Vietnam del Sud, militarmente ed economicamente.
Johnson alzò il livello del coinvolgimento statunitense 27 luglio 1964, quando altri 5.000 consiglieri militari vennero inviati nel Vietnam del Sud, il che portò il numero totale di forze statunitensi in Vietnam a 21.000.
Il 31 luglio 1964 l'incrociatore americano USS Maddox riprese una missione di ricognizione nel Golfo del Tonchino, che era stata sospesa per sei mesi. Lo scopo della missione era di provocare una reazione da parte delle forze della difesa costiera nordvietnamita, da usare come pretesto per una guerra più ampia. Rispondendo ad un presunto attacco, e con l'aiuto della vicina portaerei USS Ticonderoga, la Maddox distrusse un torpedinere nordvietnamita e ne danneggiò altri due. La Maddox soffrì solo un danno superficiale causato da un singolo proiettile di mitragliatrice da 14,5 mm… ( Wikipedia )


Walter Clinton
Avevano promesso che avrebbero colpito i loro nemici ovunque nel mondo. E puntualmente l'hanno fatto. In una sera quasi senza luna, le forze armate americane hanno attaccato simultaneamente - alle 19 e 30, ora italiana - installazioni terroristiche in Afghanistan e Sudan collegate allo sceicco saudita Osama Bin Laden…. A due giorni dal novilunio, poco dopo le sette di sera di ieri, Bill Clinton ha rotto gli indugi e ha dato l'ok. L'azione, condotta con cacciabombardieri e missili da crociera Tomawak, non più di un centinaio, lanciati da sei navi e un sottomarino dal Mar Rosso e dal Golfo Persico aveva nel mirino rispettivamente un'area in Afghanistan al confine con il Pakistan e una fabbrica di armi chimiche in Sudan, ad Omdurman, la città gemella di Khartoum sulla riva destra del Nilo.
In Afghanistan le bombe Usa hanno colpito sei istallazioni che servono come campi di addestramento di terroristi nella regione collinosa del paese, a Khost, a un chilometro dal confine pakistano nei pressi del Passo Khyber - dove si stavano addestrando secondo fonti Usa 600 soldati di Allah -e a Jalalabad, dove ha la sua base Bin Laden, che però era al sicuro in Pakistan.
E proprio il Pakistan ha fatto sapere di non aver avuto alcun preavviso dell'attacco aereo americano né richieste di autorizzazioni di sorvolo del proprio territorio. Secondo i pakistani il loro spazio aereo è stato attraversato da 16 aerei da guerra americani, F15 e F111, decollati da una base ignota, a 12 mila metri di quota.
In Sudan invece l'attacco aveva come obiettivo la Shifa, un impianto farmaceutico governativo che, secondo la Difesa di Washington, nascondeva una fabbrica di armi chimiche. "Dalla Shifa, che sorge nelle vicinanze della confluenza fra il Nilo Bianco ed il Nilo Azzurro, escono precursori chimici del gas nervino VX, un agente mortale utilizzabile a scopo militare", ha affermato un funzionario dei servizi d'informazione statunitense, secondo il quale non risulta che in quell'impianto, protetto da siepi di filo spinato, sorvegliato dall'esercito e controllato dal governo, fossero prodotte anche medicine. Secondo le autorità di Washington, quell'impianto si trova all'interno di un complesso industriale e non in una zona residenziale, per cui la perdita di vite civili nell'attacco aereo di ieri dovrebbe essere ridotta "proprio al minimo".
Non la pensano così le autorità sudanesi che hanno duramente protestato definendo quel bombardamento un "atto criminale", uno sanguinario diversivo per stornare l'attenzione dell'opinione pubblica americana e internazionale dalla vicenda Lewinsky. Quella fabbrica, secondo quanto il ministro dell'Interno, Abdel- Raheem Mohammed Hussein ha dichiarato alla Cnn - era solo un' innocua fabbrica di medicinali. "Ma quali armi chimiche e gas nervini - ha detto Hussein - Non produciamo niente del genere nel nostro paese".
Il ministro dell'Informazione sudanese Ghazi Salah-Eddin ha accusato Clinton di avere predisposto l'azione per far dimenticare lo scandalo sessuale in cui è coinvolto… Il governatore della città Majthob al-Khalifa ha informato che l'impianto colpito, di proprietà privata, è stato totalmente distrutto e che numerose persone che vi lavoravano sono rimaste ferite. Senza contare che mancano all'appello alcuni operai che si teme siano rimasti intrappolati nella fabbrica in fiamme. ( la Repubblica, 21 agosto 1998)



"Unita, moderna e giusta" di Mario Lunetta
Un solo aggettivo, dopo la lettura del veltroniano discorso “Un’Italia unita, moderna e giusta”: disarmante. A partire dal titolo che stringe nella sua genericità tre aggettivi applicabili a qualsiasi sostantivo (che so, una squadra di calcio, un’azienda, un sodalizio di giocatori di bingo, ecc.), e conta assai più delle trentanove pagine in cui si distende un progetto che gronda miele da ogni riga: quindi, appunto per questo non è un progetto, ma una predica. Nel discorso di Veltroni è assente l’Italia reale, il suo orrendo sistema di sfruttamento del lavoro e di distribuzione della ricchezza fondato su una logica mafiosa, e aleggia solo il profilo di un sogno. Tramontato pour cause l’ammaliante Sogno Americano, bisogna ripiegare sul Sogno Italiano: e per farlo è necessario mescolare le carte, fare un gioco trasversale, fingere che davvero le classi sociali siano estinte e gli interessi turpemente consolidati siano un piccolo ostacolo da rimuovere a colpi di buona volontà.
Un difetto di cultura, non solo politica. Un difetto di analisi e, si sarebbe detto in altri tempi, di scientificità. Più che altro, un sermone. Mi chiedo: cosa onestamente significhi questo passaggio: «L’Europa è andata a destra, in questi anni, perché la sinistra è apparsa imprigionata, salvo eccezioni, in schemi che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa. Ad una società in movimento, veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti, si è risposto con la logica dei ‘blocchi sociali’ e della pura tutela di conquiste la cui difesa immobile finiva con il privare di diritti fondamentali altri pezzi di società». Non sfiora la mente di Veltroni che probabilmente, “in questi anni”, s’è imposto con spregiudicata durezza un “modello giungla” di spietata deregolazione dei conflitti che ha spazzato via le parti più deboli della società e messo in angolo i sindacati. E’ stato chiamato, con geopolitico neutralismo, globalizzazione: e la sinistra non ha fatto troppo il proprio mestiere, lo ha fatto semmai troppo poco.
Il passaggio sulla cultura nazionale sembra l’osservazione di un turista marziano alquanto distratto. Veltroni, uomo dei sogni, evita di confrontarsi con la rugosa realtà. Ma riesce a vedere, lui che anche per ragioni di studi tanto ama il cinema, in quale stato è ridotto il nostro cinema? E il nostro teatro? E la nostra televisione? E la nostra letteratura che, ringraziando la grossa editoria commerciale, butta fuori soltanto thriller dozzinali e romanzetti di genere? Riesce a vedere, il superCandidato del Partito Democratico, com’è ridotta la nostra scuola e in quali condizioni galleggia la nostra Università?
Ancora, parlando di sicurezza dei cittadini: «La sicurezza è un diritto fondamentale che non ha colore politico, che non è né di destra né di sinistra. Chi governa ha il dovere di fare di tutto per garantirla». Mi chiedo: se non è né di destra né di sinistra, di cosa è? Di aria fritta, ovviamente. Quando sento dire che qualcosa non è né di destra né di sinistra in una società che, anche col Partito Democratico, non cesserà di essere divisa in classi, sono sicuro che è di destra, semplicemente.
Finisco. Il nostro punta su «Una politica sincera, pragmatica, ancorata ai suoi valori, non ideologica. E che contribuisca a voltare pagina in Italia». Qui siamo al catechismo dell’insensatezza. Una politica sincera come l’amore della nota canzone, pragmatica come insegna l’esperienza americana, ancorata ai suoi valori che somigliano tanto a magrittiani abiti senza corpo, infine non ideologica. Ecco, il dado è finalmente gettato. E’ un dado “democratico”, ma Walter Veltroni ignora (limiti culturali) che il rapporto tra ideologia e linguaggio è sempre strettissimo. Ergo…
Mario Lunetta


IL LIBRO “CUORE” DEL VELTRONI TORINESE
di Sergio Giuntini
Se un merito va riconosciuto al discorso con cui Walter Veltroni si è candidato nella capitale della FIAT, omaggiandone il suo munifico tempio, il “Lingotto”, alla guida del Partito Democratico, questo consiste senz’altro nella sostanziale coerenza di “buono” a ogni costo e nell’insostenibile leggerezza, ribadita nell’occasione, del suo “pensiero debole”.
Non ce ne voglia Vattimo, che crediamo non abbia granché esultato all’ora e mezza abbondante di veltroniane parole pronunciate nella sua Torino.
E proprio da qui, dal luogo prescelto per “scendere in campo” (da buon juventino, che come primo cittadino di Roma non disdegna però fare anche un poco il romanista e il laziale all’occorrenza, a Walter non spiacerà questa espressione rubata al vocabolario calcistico del suo prossimo, più agguerrito “competitor”), occorre partire. Scegliendo la città della Mole ci si immagina ricorra, nell’attesissimo testo di autoinvestitura, qualche riferimento al alcuni “padri nobili” della cultura politico-filosofica torinese: per limitarci a tre nomi: Gramsci-Gobetti-Bobbio. Quelli che menzionano tutti, o quasi, per far bella figura o perché davvero li conoscono.
Invece NO. L’ineffabile Walter non cade nel tranello, e nel passare puntualmente al setaccio il suo discorso è abbastanza interessante e sconcertante insieme annotare l’elenco dei suoi citati.
Questa la classifica finale: Prodi Romano (da solo e con governo annesso) 7 volte. Draghi Mario 2. Napolitano Giorgio 2. De Gasperi Alcide 1. Fassino Piero 1. Rutelli Francesco 1. D’Alema Massimo 1. Ciampi Carlo Azeglio 1. Palme Olof 1. Salvati Michele 1. Scoppola Pietro 1. Foa Vittorio 1. D’Antona Massimo 1. Biagi Marco 1. Pezzotta Savino 1. Piano Renzo 1. Chiamparino Sergio 1. Zagrebelsky Gustavo 1.
Come s’evince d’acchito, il più chiamato in causa è quel Prodi che il “bravo ragazzo” Veltroni s’appresta, dopo il 14 ottobre, a fare fuori.
Sullo stesso piano (non Renzo, che si guadagna una “nomination” soltanto) il presidente della Banca d’Italia e il presidente della Repubblica. Un ex-aequo un po’ inquietante, anche se a decretarlo è una santa persona, apprezzata a destra e “sinistra”, come Veltroni.
D’Alema riecheggia in un unico caso e il Sindaco dell’Urbe lo fa per ringraziarlo della guerra in Kosovo: «In quegli anni assumemmo anche con Massimo D’Alema, il compito di interpretare un ruolo attivo dell’Italia nei momenti più aspri delle violazioni dei diritti umani nei Balcani. Un’Italia che non voltava lo sguardo dall’altra parte. Un’Italia che accettava e sosteneva la lotta, riuscita, per sconfiggere la logica della superiorità etnica che stava riportando il cuore dell’Europa nel baratro delle fosse comuni».
E via di questo passo, risparmiandoci solo per la carità: l’«abbiamo spezzato le reni dalla Serbia».
Più stringato e meno appassionato il tributo reso a De Gasperi seduto alla Conferenza di pace di Parigi: “Tutto, tranne la vostra personale cortesia, contro di me”.
Laddove, con questa frase sibillina rilanciata da W. V., il presidente democristiano del consiglio allora in carica tentava d’impietosire il mondo e portare a casa quel Piano Marshall che gli USA non ci regalarono esattamente a “parametro zero”.
Laconico, e francamente alquanto banale, pure lo sfoggio di cultura derivato da Olof Palme. La battaglia da sostenere “non è contro la ricchezza, è contro la povertà”.
Sarà anche così, ma aggirandosi per l’Italia un tal Berlusconi – mai direttamente evocato in tutta la sua orazione – un minimo di battaglia alla ricchezza forse non stonerebbe. Chissa?
D’altronde che Walter guardi ai ricchi con un certa deferenza e riguardo è sufficientemente attestato dalla sua cordiale amicizia con il signor Confindustria: Luca Cordero di Montezemolo, il quale scommettiamo sarà, il 14 e pure in futuro, tra i suoi influenti “grandi elettori”.
Comunque sia, la palma del più lungamente citato spetta a Zagrebelsky. Un passo da fine giurista di cui Veltroni s’è appropriato sperando di convincere gli ultimi indecisi della bontà, appunto puramente giuridica non sostanziale, del concetto di democrazia borghese, e, per estensione, della validità del progetto Partito Democratico di cui egli quel giorno diventava l’aspirante leader carismatico: «Pensando e ripensando non trovo altro fondamento della democrazia che questo: il rispetto di sé. La democrazia è una forma di reggimento politico che rispetta la mia dignità, mi riconosce capace di discutere e decidere sulla mia vita pubblica. Tutti gli altri reggimenti non mi prestano questi riconoscimento, mi considerano indegno di autonomia fuori della cerchia delle mie relazioni puramente private e familiari. La democrazia è, tra tutti, l’unico regime che si basa sulla mia dignità in questa sfera più ampia[…] Essere democratici vuol dire assumere nella propria condotta la democrazia come ideale, come virtù da onorare e tradurre in pratica».
Insomma: altro che Gramsci-Gobetti-Bobbio, la torinesità del pensiero veltroniano riconduce oggi, estate 2007, alla linea strategica Chiamparino-Fassino-Zagrebelky (Foa di riserva in panchina). Con l’ultimo del terzetto titolare a conferire quella spruzzata di inappellabile autorevolezza che è impossibile non assegnare a un cognome tanto impegnativo e praticamente “impronunciabile” da uno di quegli operai FIAT che al Lingotto, se c’erano, probabilmente battevano le mani.
Ma per non farsi (farci) mancare niente, l’impareggiabile Walter, verso la fine, si è concesso pure un tocco di Jovanotti: “un Paese che pensa positivo” (sic!).
E da ultimo il suo capolavoro: Edmondo De Amicis, lui sì socialista umanitario e torinese autentico, resuscitato in una sorta di remake del libro “Cuore”, utilizzando, al suo posto, le parole d’una ragazza “pensate e scritte solo due mesi prima di morire, in una lettera indirizzata ai suoi genitori nei giorni di Natale”.
Da un “buonista” come Veltroni questa botta di cinismo alla Garrone davvero non ce l’aspettavamo.
Improntato a tanto “basso profilo”, il suo discorso poteva terminare sul medesimo tono. D’altro canto nessuno, neanche il nostro Walter, è proprio sempre, immutabilmente, perfetto.
Sergio Giuntini



CONTRADDIZIONI MOOLTO DEMOCRATICHE di Francesco Ranci
Lo spettro della contraddizione inizia ad aleggiare fin dalle prime righe del discorso di Veltroni. Partenza di slancio, verso un vagheggiato futuro, “fare un’Italia nuova”. E riflusso nostalgico di un fantomatico passato, “farla sentire di nuovo una grande nazione”. Passiamo alla realtà di tutti i giorni… che è meglio.
“Oggi, in una società immobile - lamenta il Sindaco di Roma -, a pagare il prezzo più alto sono i nostri ragazzi, che prima dei venticinque-trent’anni non entrano nel mondo del lavoro”. Parole sante ! Ma attenzione che la società immobile può cedere il posto a “una società in movimento, veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti”, che addirittura “costringe” il nascente Partito democratico, secondo il suo leader, a “soddisfare il bisogno di libertà e di fluidità sociale di ceti sempre più mobili”… Eravamo al fisso o al mobile ? Non si è capito se la “società” è un bene mobile o immobile. Ricominciamo da capo.
“La distanza tra chi sta molto bene e chi sta molto male, in Italia, non accenna a diminuire”. Se lo dice l’ISTAT, per Veltroni è oro colato, nonostante l’inflazione da Euro. In realtà, come tutti possono constatare, la distanza va aumentando… altro che diminuire. Comunque, “sia chiaro - è chiaro? Per Veltroni deve essere chiaro - che il primo compito del nascente Partito democratico è il pieno, coerente e deciso sostegno all’azione del Governo Prodi”. Giusto. Però, peccato. Sarebbe bastato un “accenno” e Prodi avrebbe potuto ottenere un appoggio addirittura “entusiasta”. D’altra parte, sarà contento di ricevere un appoggio “pieno, coerente e deciso”, e soprattutto gratis.
Insomma (adesso basta !): “il Partito democratico (…) nasce avendo dentro di sé l’eredità di quelle formazioni che (…) hanno fatto crescere l’Italia e gli italiani”. Sarà “un partito aperto”, “che si propone, perché vuole e ne ha bisogno, di affascinare (…) quei milioni di italiani che trovano la politica chiusa (…)”. Trovano la politica chiusa come mai ? Forse non li hanno fatti crescere abbastanza ! Qui Walter bisogna rivedere qualcosa… Pur di “affascinare” (non provi nemmeno a convincere), sacrifichi due valori irrinunciabili per la sinistra, ma evidentemente non per te e i tuoi amici, la coerenza e la credibilità.
Francesco Ranci

Discorso integrale di Veltroni

 

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DIBATTITO SUL SALARIO E ALTRI REDDITI

[Dopo l'analisi del nostro Casimiro riportiamo l'articolo satirico del Fumagalli che l'ha provocata. Più sotto si possono trovare altre produzioni della compagnia di giro negriana che fa teatro sociopsicoeconomico; a quell'antologia si aggiunga quest'ultima performance del Fumagalli]

Siamo nel capitalismo cognitivo? E allora studia!

Quel vecchio burlone di Andrea Fumagalli ne ha fatta un’altra delle sue. Su il manifesto del 1 febbraio ha pubblicato un pezzo chiaramente satirico, scritto – come spesso gli accade di fare – in tono generale molto serioso, ma con svolazzi di fantasia che dovrebbero essere rivelatori dell’intenzione farsesca. Niente da fare, però. Solo pochi riescono a capire che sta giocando e possono perciò apprezzare la sottile ironia delle sue fanta-analisi para-economiche.
Fumagalli è infatti un esimio professore con cattedra all’università di Pavia, una dependance della Bocconi, dove certe bischerate negriane non si possono davvero ammannire agli studenti senza rischiare di perdere il posto e ritrovarsi scaraventato nel precariato vero (non quello elitario e ridanciano di cui a volte scrive anche lui). All’interno di quelle mura, bisogna dire, il nostro Andrea sta decisamente alle regole, sfornando modellini matematici e altre tecnicalità obbligatorie nell’accademia degli economisti perbene. Ma fuori di lì gli piace travestirsi da “economista di movimento” e spara spiritosaggini irresistibili. L’unico problema, ripeto, è l’ignoranza degli astanti. Che lo prendono ridicolmente sul serio, frustrandone le ambizioni comiche.
Restituigliamogli, perciò, la sua vera dimensione evidenziando i segnali che prova a disseminare. Già la citazione del“l’attuale tasso di disoccupazione (americano, ndr) al 4%” avrebbe dovuto mettere sull’avviso. E’ ormai al 5% da oltre un mese (prima stava al 4,6%), e un prof. di Pavia sa che in economia le cifre vanno rispettate, altrimenti anche quel poco che questa “scienza triste” ha da dirci diventa un pastrocchio indigeribile.
Poi però cala l’asso, ricorrendo al vecchio ma sempre divertente numero sul “capitalismo cognitivo” che funzionerebbe in un modo tutto differente dal capitalismo old style. Dice infatti addirittura che “Nell'odierno paradigma del capitalismo cognitivo, i mercati finanziari, lungi dall'essere il luogo della rendita parassitaria improduttiva, sono il motore dell'economia. Essi rappresentano il luogo dove, a un tempo, si valorizza la produttività immateriale e cognitiva e si attua la privatizzazione dei servizi sociali. I mercati finanziari assumono così le veci del vecchio welfare keynesiano e realizzano forme di redistribuzione indiretta dal capitale al lavoro, gestendo in modo diretto e distorto le quote crescenti di reddito da lavoro che ivi vengono canalizzate in modo più o meno forzoso”.
Inanellare in così poche righe tante irresistibili battute è cosa che lo eleva al rango dei commedianti di razza. Vediamole perciò una per una.
Trovandoci nel “paradigma del capitalismo cognitivo” (di cui un giorno qualcuno ci spiegherà in dettaglio i pilastri paradigmatici, per ora del tutto ignoti al genere umano), “i mercati finanziari, lungi dall'essere il luogo della rendita parassitaria improduttiva, sono il motore dell'economia”. In effetti l’economia contemporanea è dominata dalla finanza. Su questo non ci piove. Ma la finanza stessa non è mai stata, in nessun tempo, “il luogo della rendita parassitaria”. Con chi ce l’ha, dunque, il buon Andrea? Forse con i keynesiani, di cui si ricorda a malapena il deficit spending e – appunto – la speranza nell’”eutanasia del rentier”. Per Marx, al contrario, “capitale commerciale per il commercio di denaro” e “capitale produttivo di interese” svolgono una funione fondamentale nel processo dell’accumulazione, consentendo quella mobilità indispensabile al capitale che gli permette di allocarsi là dove serve. Ma persino la rendita, per Marx, è tutt’altro che “improduttiva”; è infatti “la remunerazione della proprietà” (così come il profitto è la “remunerazione dell’imprenditore” e il salario “la remunerazione del lavoratore”). Insomma è necessaria e ineliminabile perché in ambiente capitalistico non ci possono essere risorse che non vengano trattate come merci vendibili o affittabili. Per questo la terra e tutto ciò che sta sotto di essa (le risorse naturali, riproducibili e non, come carbone, petrolio e metalli) devono essere posseduti da qualcuno che ne fa oggetto di commercio. Che li mette insomma sul mercato. Andrea, dunque, dovrebbe avercela con i keynesiani, anche se di solito il suo bersaglio sono i “vetero-marxisti”.
Ma andiamo avanti.
Questi mercati finanziari moderni sarebbero ora “il luogo dove, a un tempo, si valorizza la produttività immateriale e cognitiva e si attua la privatizzazione dei servizi sociali”. Chiunque pensi per un momento a un mercato finanziario si rende conto che soprattutto lì “pecunia non olet”. In un luogo dove ci si scambiano pezzi di carta chiamati “titoli” (azionari, obbligazionari, commercial paper, cdo, “veicoli”, “salcicce”, asset backed securities e via inventando) è assolutamente irrilevante la provenienza del profitto e il modo in cui è stato prodotto. Forse che i profitti della Ford o della Fiat non possono entrare sui mercati finanziari? E la straordinaria liquidità attualmente nelle casse dei “fondi sovrani” cinesi e arabi proviene solo da “attività immateriali”? E dove stanno questi cerberi che, sulla porta di ingresso dei mercati finanziari, si mettono a distinguere tra capitali provenienti dalla produzione immateriale (“avanti prego, si accomodi”) e quelli estratti da sangue, sudore, polvere da sparo e petrolio (“vade retro, retrò”)? Si sa. Fumagali – come Negri – ama le asserzioni e non perde tempo inutile con le dimostrazioni. Però quando si parla di “mercati finanziari” si parla di qualcosa di terribilmente concreto, composto da qualche milione di individui che vi lavorano a molti livelli di responsabilità, con molte zone d’ombra, parecchi comparti “segreti”, ma il cui funzionamento generale è abbastanza studiato (qualche decina di migliaia di volumi, pubblicazioni specializzate, periodici, quotidiani economici, siti, ecc). E da nessuna parte – se non, per l’appunto, nel mondo dei comici – si è mai sentita una stronzata simile.
Ma ormai lo spirito affabulatorio di Andrea ha preso il volo e non atterra più. “I mercati finanziari assumono così le veci del vecchio welfare keynesiano e realizzano forme di redistribuzione indiretta dal capitale al lavoro, gestendo in modo diretto e distorto le quote crescenti di reddito da lavoro che ivi vengono canalizzate in modo più o meno forzoso”. Quale plasticità di immagine! Lo stato assistenziale e imprenditore che lascia il passo a questi caritatevoli mercati finanziari, finalmente liberi di poter perseguire il cristiano scopo di realizzare “forme di redistribuzione indiretta dal capitale al lavoro”! Viva, viva, viva i mercati finanziari! Credevate voi che ci avessero tolto il tfr per nutrire un po’ di più questi capitali finanziari in affanno dall’inizio del millennio (quando scoppiò la “bolla speculativa della new economy” – che avrebbe dovuto funzionare in tutt’altro modo rispetto alla “old”... ma questo è un capitolo comico a parte). E invece no. Questi mercati della pura finanza stanno lì per far crescere denaro dal denaro e restituircene, alla fine del ciclo, una bella fetta. Perché vi lamentate, allora? Abbiate fede, e vedrete che quando andrete in pensione prenderete molto di più di quel misero assegno pubblico (che vi abbiamo autoritariamente ridotto)! Non vi sembra una meravigliosa imitazione del prof. Giavazzi del Corsera? Come avete fatto a non accorgervi che il Fumagalli vi stava prendendo in giro?!
Tanto più che aveva persino aggiunto che questi mercati gestiscono “in modo diretto e distorto le quote crescenti di reddito da lavoro che ivi vengono canalizzate in modo più o meno forzoso”. Ovvero: ci tolgono di forza parte del reddito (quote di salario, tfr, contributi previdenziali, quote di assegni pensionistici) per canalizzarlo nei mercati. Basta un po’ di logica per capire che se uno ci rapina non è che poi viene a riportarci i soldi indietro con una percentuale aggiuntiva (“di redistribuzione”). Grazie Andrea, per questi momenti di autentica goduria.
Ma, nella sua generosità, Fumagalli ha voluto regalarci un’altra perla. Ricordate il vecchio mantra negriano sulla “fine della sovranità”, dello stato-nazione, ecc? Bene. Quel mantra non se la passava più tanto bene, lo sappiamo. Colpa di Bush, di quel suo modo di gestire gli affari globali da un’ottica piuttosto ristretta (“gli interessi e la sicurezza degli Stati uniti”), che a tutti è sempre sembrato un rigurgito di pesante e oscurantista “nazionalismo del più forte”. A forza di fare i nazionalisti, però, gli Usa hanno resuscitato fantasmi similari che, nel rafforzarsi, minano dall’interno il processo di globalizzazione. La Russia putiniana ne è un esempio. Ma il “policentrismo” emergente come reazione all’unilateralismo Usa poggia su basi potenti, favorendo aggregazioni regionali (l’America latina e l’Asia intorno alla Cina).
I “fondi sovrani” sono nati da poco. Sono fondi di investimento di dimensioni spesso superiori a quelli privati (in genere Usa o inglesi), solo che sono “pubblici”. I loro proprietari sono stati con surplus giganteschi, derivanti o dalle normali attività produttive (Cina, Singapore e ora anche India), oppure dall’estrazione di idrocarburi (Arabia Saudita, Oman, Qatar, Emirati Arabi, Russia). Fin qui hanno fatto investimenti “passivi”, ovvero senza pretendere – come farebbe un privato – un proporzionale numero di posti nei consigli di amministrazione delle società in cui partecipano. Una forma “soft” per evitare di essere respinti (come avvenuto a un fondo du Dubai che voleva acquisire la gestione di sei porti statunitensi) o di farsi trattare come “quinte colonne” all’interno del sistema finanziario. Che era poi il destino che sembrava obbligatorio, prima di agosto 2007. La crisi dei mutui subprime ha creato una contrazione del credito globale, soprattutto dei prestiti interbancari negli Usa; e i “fondi sovrani” sono stati accolti come i re magi.
Bene. Cosa tira fuori il nostro impagabile Andrea? Che “lungi dal rappresentare il ritorno alla sovranità nazionale, i fondi sovrani che operano con la stessa logica di quelli privati, incrementando in modo perverso il processo di finanziarizzazione e la sua instabilità , sanciscono piuttosto l'abbandono di qualsiasi interesse nazionale nelle mani della struttura imperiale della finanza e l'affidarsi alla sua «anarchia»”. Impossibile districare le contorsioni logiche di questo passo. Per rendersi conto della sua valenza comica è necessario guardare alla realtà. Un fondo (sostantivo) è “sovrano” (aggettivo) perché appartenente a uno stato. E’ il proprietario a rendere il fondo differente dagli altri. E’ semplicemente ovvio che debba operare “con la stessa logica di quelli privati”, perché la sua natura (sostantivo) è quella di un fondo; ovvero deve fare profitti. Investire in banche statunitensi, per quei proprietari così esotici, è certamente un rischio. Come fai a obbligare una banca Usa a ridarti indietro i soldi? Con quel brutto vizio di di mandare missili in giro per “difendere gli interessi nazionali” sono davvero un brutto cliente. E infatti, ci spiegava Claudio Mezzanzanica a pagina 9 dello stesso numero de il manifesto, «proprio questo ha fatto scrivere a scorati commentatori del New York Times che l'America è sola in questa crisi. Sola e con il cappello in mano. Con un presidente che chiede, inascoltato, agli ex amici sauditi di abbassare il prezzo del petrolio e le più grosse banche in cerca di prestiti internazionali presso “fondi sovrani”, arabi o quant'altro, per salvare i propri bilanci. Prestiti a tassi quattro volte superiori al prime rate della Federal Bank o dalle clausole opache che prefigurano ingressi scomodi nella proprietà».
Tre giorni dopo, sempre su il manifesto, Francesco Piccioni ci dava altri dettagli. «A molti osservatori frettolosi (di quelli che “tutto ciò che fanno gli Usa è giusto”) questo è sembrato un “favore” o una “resa” al paese più potente del mondo. Guardando alle condizioni dei prestiti il giudizio deve però cambiare: tasso dell'11%, durata tre anni e poi - se non restituiti - si discuterà  della proprietà  della banca. Più che un salvagente, sembra un cappio».
Un cappio non è una cosa gentile, specie nei confronti dell’impiccando. Ammettiamo che, per gli stati titolari dei fondi, è un modo un po’ originale di salvaguardare la sovranità nazionale. E anche un po’ rischioso (il gioco geostrategico, del resto, non è mai stato esente da rischi; anzi, li crea). Ma che i fondi sovrani siano la dimostrazione della fine della sovranità, beh, Andrea, questa è una battuta che supera tutte le altre. Grazie ancora. Peccato che nel movimento e nella sinistra solo pochi capiscano la tue vere inclinazioni, mentre i più si ostinano a prendere sul serio le tue sortite extra-accademia, riempiendosi la testa di frasi balzane che oscurano loro la comprensione della realtà. Se non ci fosse questo piccolo quiproquo ti direi proprio “continua così, facci divertire”.

Casimiro, 5 febbraio 2008

 

Crisi finanziaria, non è tutta colpa degli Usa
Andrea Fumagalli

da il manifesto del 1° febbraio 2008


La crisi dei mercati finanziari sta evidenziando una dinamica che va ben al di là del problema del crollo dei titoli subprime. Le forti perdite di lunedì 21 gennaio, che nella sola Europa hanno comportato la distruzione di 430 miliardi di euro (pari a circa un quarto del Pil italiano), sono solo l'ultimo dei segnali di una crisi che sta assumendo rilevanza globale. I media specializzati hanno imputato le cause al rischio di recessione americana. In effetti, la crescita Usa nell'ultimo trimestre 2007 si è assestata su un deludente +1,2 per cento e le previsioni per il primo trimestre 2008 paventano addirittura un segno negativo (-0,2 per cento), con un probabile aumento del tasso di disoccupazione dall'attuale 4 per cento al 6 per cento entro la fine dell'anno (+50 per cento). Ma si tratta dell'aspetto esteriore, che non deve nascondere le origini strutturali, ovvero ciò che sta davvero alla radice di tutto questo: appiattirsi sulla sola decrescita americana sarebbe un po' come sostenere che la recessione di metà degli anni '70 venne causata esclusivamente dal triplicarsi del prezzo del petrolio.
Nell'odierno paradigma del capitalismo cognitivo, i mercati finanziari, lungi dall'essere il luogo della rendita parassitaria improduttiva, sono il motore dell'economia. Essi rappresentano il luogo dove, a un tempo, si valorizza la produttività immateriale e cognitiva e si attua la privatizzazione dei servizi sociali. I mercati finanziari assumono così le veci del vecchio welfare keynesiano e realizzano forme di redistribuzione indiretta dal capitale al lavoro, gestendo in modo diretto e distorto le quote crescenti di reddito da lavoro che ivi vengono canalizzate in modo più o meno forzoso. Al contempo, le grandi multinazionali della finanza sono oggi organizzazioni che valorizzano «indirettamente» l'accumulazione della produzione mondiale, così come nel paradigma fordista i profitti delle grandi multinazionali manifatturiere erano lo specchio dei rapporti di forza tra capitale industriale e lavoro salariato. I mercati finanziari - tramite gli indici di borsa - rappresentano insomma una sorta di moltiplicatore reale dell'economia e su di essi condensano tutte le aspettative dei grandi operatori economici. Non è un caso che nell'ultima decade le Banche centrali (con la parziale esclusione della miope Bce) fanno dipendere le scelte di politica monetaria (tassi e offerta di moneta) in funzione dell'obiettivo di stabilizzare la dinamica dei mercati finanziari, con la speranza - del tutto illusoria - di limitarne le oscillazioni e la volatilità . Ciò avviene in un ambito - quello finanziario - che nulla ha a che fare con il mito del libero scambio tra pari opportunità , ma è piuttosto il teatro del più poderoso processo di concentrazione che mai si sia realizzato nella storia del capitalismo.
Gli operatori (banche e Sim - società di intermediazione mobiliare -) che controllano oggi tutti i flussi finanziari e gestiscono enormi somme di liquidità si contano infatti sulle dita di due mani. E poiché il loro obiettivo è il massimo profitto immediato, l'attività speculativa è la regola dominante nei mercati finanziari: altro che allocazione efficiente del risparmio e delle risorse.

L'instabilità è dunque il fondamento stesso del sistema. La novità che sta dietro all'attuale crisi finanziaria è la ridefinizione degli assetti gerarchici che definiscono il comando sui mercati finanziari. Ai fondi privati gestiti dalle più grandi Sim (J.P. Morgan, Merrill Lynch, Goldman Sachs, ecc.) si sono aggiunti i cosiddetti «fondi sovrani», ovvero quelle attività finanziarie gestite più o meno direttamente da autorità statuali. Si tratta dell'esito, inevitabile, dell'incremento del peso della finanza sulle vite di miliardi persone.
Se oggi la Merrill Lynch è costretta a dichiarare 4,5 miliardi di dollari di perdite, non è da meno la statale Bank of China, con i suoi 8 miliardi di dollari di minusvalenze. Lungi dal rappresentare il ritorno alla sovranità nazionale, i fondi sovrani che operano con la stessa logica di quelli privati, incrementando in modo perverso il processo di finanziarizzazione e la sua instabilità , sanciscono piuttosto l'abbandono di qualsiasi interesse nazionale nelle mani della struttura imperiale della finanza e l'affidarsi alla sua «anarchia».

 

 

• Segnaliamo, da il manifesto di domenica 4 giugno 2006, un articolo di Giovanna Vertova sul reddito minimo garantito. Nella nostra attività editoriale (vedi soprattutto Una sparatoria tranquilla, Introduzione e Prefazione alla II edizione) abbiamo sempre messo in guardia nei confronti di quel paradosso, di quella leggenda metropolitana che è il "reddito garantito"; ma a prenderlo di petto, alla nostra maniera (teoria marxiana della distribuzione del plusvalore? Leontieff?), rischiavamo il lancio degli ortaggi. Ecco invece un ragionamento chiaro, diretto soprattutto a quel milieu che (solo in Italia, occorre ricordare) ne ha fatto una bandiera.

Il dibattito, a partire dall'articolo di Vertova si è poi così sviluppato: Fumagalli-Lucarelli, 16 giugno; Edoarda Masi, 21 giugno; Sacchetto-Tomba, 30 giugno; Morini, 5 luglio; Chainworkers, 8 luglio; Bellofiore-Halevi, 11 luglio; Tajani, 11 luglio; Gambino-Raimondi, 23 luglio; Enzo Valentini, 27 luglio; Anna Carola Freschi, 8 agosto; Giovanna Vertova, 15 agosto;lettera off-topic di Fumagalli, 19 agosto.

 

Giovanna Vertova

E’ uscito recentemente il libro Reddito garantito e nuovi diritti sociali, frutto di una ricerca dell’Assessorato al Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili della Regione Lazio. L’idea è di offrire delle linee guida alle amministrazioni regionali che intendono proporre forme di basic income. Il volume è importante per due motivi. Formula una proposta politica precisa di reddito garantito, all’interno di una visione più complessa che mira alla revisione ed all’aggiornamento di un sistema di welfare per adeguarlo al nuovo capitalismo flessibile. Fornisce, inoltre, una dettagliata analisi di simili iniziative a livello europeo.
La proposta nasce dall’esigenza di pensare ad un nuovo sistema di welfare che tenga conto della precarietà, ormai dilagante. La nuova organizzazione del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato mette in discussione la distinzione netta tra tempo di lavoro e tempo libero, occupazione e inoccupazione. Occorre, quindi, inventare nuove forme di protezione sociale. Nel capitolo "Il reddito per chi, quando, quanto, come e da chi" si suggeriscono le risposte alle domande che un amministratore dovrebbe porsi nel caso volesse introdurre una misura come quella di un reddito garantito: per chi? quanto? quando? come? da chi?. Per chi: a "coloro che vivono sotto una certa soglia di reddito (sia esso il salario minimo, la pensione sociale o altro)" (p.76). E, comunque, per tutti i precari in condizioni di non lavoro e per i soggetti in stato di povertà che permangono sotto una soglia minima accettabile. Si pensa così di riuscire anche a frenare la corsa verso il basso dei salari reali: i lavoratori avrebbero l’opportunità di rifiutare lavori servili e poco remunerati, riducendo l’offerta di lavoro e spingendo la retribuzione del lavoro ‘tradizionale’ verso l’alto. Quanto: non viene data una risposta precisa, ma si ricorda che l’ammontare deve essere calcolato tenendo in considerazione i suoi effetti sul livello della spesa pubblica. Quando: "nei casi di squilibrio sociale indotto dalla precarietà, laddove gli individui sono posti di fronte ad una disuguaglianza di opportunità dovuta all’assenza di un reddito adeguato" (p. 80). Come: "l’erogazione potrebbe comporsi sia di una parte monetaria, sia di una parte offerta in natura" (p. 93). Il reddito garantito dovrebbe essere articolato sia come reddito diretto (erogazione monetaria) che come reddito indiretto (erogazione di beni in natura, quali beni e servizi primari), includendo l’allargamento delle tradizionali forme di garanzia del lavoro così detto ‘fordista’ (ferie, malattie, maternità, etc.) ai lavoratori precari. Da chi: le Regioni sarebbero maggiormente attive sul piano dell’erogazione dei beni e servizi primari, lo Stato centrale sul piano dell’erogazione monetaria.
Condivido l’urgenza di ripensare un sistema di welfare adeguato al nuovo cosiddetto ‘capitalismo flessibile’. Se ci si muove nella direzione del basic income mi sembrerebbe però più ragionevole pensare ad un reddito di esistenza per tutti, incondizionato. Si tratta, e’ chiaro, di una idea di difficile applicazione in Italia, perché richiederebbe un sistema fiscale molto progressivo, capace di combattere davvero evasione ed elusione. La proposta, tuttavia, non convince né teoricamente né politicamente. Dal punto di vista teorico, i limiti che credo di poter rilevare sono infatti i seguenti. Erogare un reddito garantito solo ad alcune categorie di soggetti rischia di aumentare la frammentazione del lavoro. Il nuovo capitalismo è riuscito pienamente a dividere il lavoro, ad individualizzare la prestazione lavorativa e a mettere in contrapposizione gli interessi dei ‘garantiti’ (anche se quantitativamente decrescenti) con quelli dei ‘precari’. Occorre piuttosto ricomporre il mondo lavoro e disegnare interventi politici che sottolineino come la precarizzazione, sia pure in forme diverse, sia un fenomeno trasversale. Bisogna evitare la divisione della società in due sfere, poiché la precarietà non colpisce solo certe fasce di popolazione. Siamo di fronte ad una precarizzazione generale. Se si vuole capirne il significato, non ci si può limitare a registrare che i nuovi entranti sul mercato del lavoro sono sempre più figure con contratti atipici. Infatti, a seconda del ciclo economico, e’ possibile che si abbia una successiva regolarizzazione di questi lavoratori: e si rimane sguarniti rispetto ad obiezioni alla Ichino (Corriere della Sera, 15/05/06) che chiedono una riduzione delle garanzie dei lavoratori a tempo indeterminato per combattere davvero la precarietà dei ‘giovani’. La vera funzione della precarizzazione sta in altro: nello stabilire un permanente potere di ricatto che rende difficilmente contestabile il comando del capitale dentro il processo immediato di valorizzazione, dentro i luoghi di lavoro. Si noti, questo e’ spesso vero quale che sia la qualità del lavoro, e talora addirittura quale che sia il salario.
Si può aggiungere che il reddito garantito rischia di spingere tutta la struttura dei salari verso il basso, contrariamente a quanto sostenuto nel volume. I ‘padroni’ avrebbero tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che il lavoratore percepisce anche il reddito garantito. Si indebolisce così, contro le intenzioni, la capacità contrattuale di tutti i lavoratori. Si favorisce, di conseguenza, l’istituirsi di un compromesso malsano tra lavoratori e padroni: i primi offrono salari e posti saltuari, i secondi li accettano perché intanto c’è il reddito garantito. Così i ‘lavori buoni’ spariscono e i ‘lavori cattivi’ dilagano. Oltretutto, misure redistributive di questo tipo (come il reddito garantito, di esistenza, di cittadinanza, etc.) assumono, più o meno esplicitamente, che il capitalismo contemporaneo produca valore e plusvalore in modo stabile, e si basano su interpretazioni del medesimo quanto meno approssimative, anche se diventate ormai luoghi comuni (l’economia della conoscenza, il post-fordismo, etc.). Le classiche forme di redistribuzione hanno funzionato (laddove hanno retto) quando collocate in un contesto macroeconomico ben più sostenibile di quello presente. Basti ricordare i ricorrenti fenomeni di instabilità sia reale che finanziaria che si sono susseguiti negli anni più recenti, che rendono le misure meramente redistributive alquanto illusorie, salvo l’illusione nutrita da qualcuno che così si possa davvero sostenere la domanda effettiva. Si riproduce così un vecchio errore del sottoconsumismo, e si dimentica che la dinamica macroeconomica è sostenuta dalle componenti autonome della domanda: investimenti, esportazioni nette, spesa pubblica, oggi il consumo gestito ‘dall’alto’ dalla politica monetaria. La redistribuzione potrà spingere verso l’alto la domanda effettiva solo dentro una politica economica alternativa caratterizzata da una ridefinzione strutturale molto più forte della domanda e dell’offerta, ben diversa dalla pallida ri-regolazione e politica industriale per incentivi e disincentivi, di cui il nuovo governo sembra farsi promotore.
Misure come il reddito garantito possono forse rendere più sopportabile la precarietà nel breve periodo, ma non la eliminano veramente: semmai la cristallizzano e la congelano. Determinano condizioni di maggior debolezza per i lavoratori, poiché rendono più accettabile la frammentazione del lavoro e conducono all’abbandono della lotta per un lavoro vero e garantito per tutti. Politicamente un impianto del genere sembra fatto apposta per creare le basi di uno scambio con la sinistra ‘moderata’: accettazione più o meno dichiarata della flessibilità in cambio di un qualche sostegno al reddito. Magari affiancata alla riduzione del cuneo fiscale che, ancora una volta, riproduce una idea di ripresa basata sul basso costo del lavoro e che scarica gli effetti sulle politiche, appunto, assistenziali. La triste storia del programma dell’Unione circa la Legge 30 (superamento? cancellazione?) ci insegna qualcosa?

Giovanna Vertova
Docente Università di Bergamo


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il manifesto - 16 Giugno 2006
Mercato del lavoro: la dicotomia teorica salario- reddito
Andrea Fumagalli
Stefano Lucarelli

Nel corso del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro si pone la dicotomia teorica salario-reddito che rimanda a quella più politica tra l'opzione del posto fisso o del reddito garantito (Giovanna Vertova, Il manifesto 4.6). Reddito e salario non sono mai stati sinonimi, ma nel contesto attuale le differenze si fanno più sfumate: con la crisi del fordismo l'economia si terziarizza e gran parte del tempo di lavoro svolto non avviene nel luogo di lavoro. Come sottolinea anche l'Istat, la novità degli ultimi anni è che in alcuni segmenti del terziario (grande distribuzione commerciale e servizi alle imprese) la crescita dell'occupazione nelle imprese più grandi è forte e va a compensare le perdite della grande industria manifatturiera. I dati degli ultimi 5 anni mostrano un sistematico aumento della quota di addetti del terziario (dal 56,2 al 60,2 %). Cresce inoltre il comparto delle attività immobiliari, informatica, ricerca, professioni e servizi di selezione e fornitura di personale (43000 imprese e 119000 addetti in più rispetto al 2004). Si tratta di attività nelle quali si richiede ai lavoratori di risolvere problemi prescindendo dal tempo passato nel luogo di lavoro. Questo ha delle implicazioni sulla dicotomia salario-reddito: il salario è la remunerazione del lavoro e il reddito è la somma di tutti gli introiti che derivano dal vivere e dalle relazioni in un territorio e che determinano lo standard di vita. Finché c'è separazione tra lavoro e vita, c'è anche una separazione concettuale tra salario e reddito, ma quando il tempo di vita viene messo a lavoro sfuma la differenza fra reddito e salario.
La tendenziale sovrapposizione tra lavoro e vita, quindi tra salario e reddito non è ancora considerata nell'ambito della regolazione istituzionale. Il reddito di esistenza (basic income) può rappresentare un elemento di regolazione istituzionale adatto alle nuove tendenze del nostro capitalismo. E' definito da due componenti: la prima prettamente salariale, sulla base del tempo di lavoro certificato e remunerato, ma anche del tempo di vita utilizzato per la formazione, l'attività relazione e l'attività riproduttrice; la seconda è una componente di reddito che rappresenta la quota di ricchezza sociale che spetta ad ogni individuo. Questa ricchezza sociale dipende dalla cooperazione e dalla produttività sociale che si esercita su un territorio (oggi appannaggio di profitti e rendite). Definendo in questo modo il basic income i concetti di salario e reddito appaiono complementari.
Vertova critica l'idea che il basic income possa rappresentare uno strumento di regolazione in grado di rafforzare i lavoratori: "erogare un reddito garantito solo ad alcune categorie di soggetti rischia di aumentare la frammentazione del lavoro". Due brevi osservazioni 1) il mercato del lavoro è già ampiamente frammentato, alcune tipologie contrattuali introdotte dalla Legge 30 non sono state praticamente utilizzate perché ne esistono già troppe. Si ha una differenziazione retributiva marcata, che rende di fatto inapplicabile il principio della pari retribuzione per pari mansione lavorativa. 2) siamo d'accordo con Vertova sul fatto che il reddito di esistenza debba tendere all'universalismo, ma siamo anche realisti: l'obiettivo può essere raggiunto solo gradualmente a partire da chi si trova nella condizione più sfavorevole di intermittenza di reddito o con lavori magari continuativi ma sottopagati.
Vertova sostiene anche che "il reddito garantito rischia di spingere tutta la struttura dei salari verso il basso. I padroni avrebbero tutto l'interesse a ridurre i salari, visto che il lavoratore percepisce anche il reddito garantito. Si indebolisce così, contro le intenzioni, la capacità contrattuale di tutti i lavoratori". Al riguardo è disponibile un ampia letteratura che analizza l'impatto del basic income sulla produzione e sull'occupazione sulla scia di Atkinson. Questi studi, che si muovono nell'alveo della letteratura keynesiana à la Stiglitz (salari d'efficienza, rigidità nel mercato del lavoro, informazione imperfetta e asimmetrica) concordano nell'affermare che l'introduzione di un reddito incondizionato e indipendente dalla prestazione lavorativa porta ad una riduzione dell'offerta di lavoro, in seguito ad un effetto reddito e alla variazione della distribuzione del carico fiscale volta al finanziamento: il problema non sta nell'introduzione o meno di un basic income, ma nella sua quantificazione. E' su questo punto che si gioca il grado di compatibilità di questa misura di regolazione: si hanno effetti compatibili solo se è fissata ad un livello inferiore o uguale alla soglia di povertà relativa e configurandosi come un perfetto sostituto dei sussidi di disoccupazione. Si tratta di una questione analoga al vecchio dibattito sulla compatibilità o meno delle rivendicazioni salariali: quanto dovevano aumentare i salari? In misura pari o superiore ai guadagni di produttività?
Infine una domanda banale: perché mai un uomo o una donna dovrebbero accettare di essere sottopagati quando hanno la sicurezza di un reddito? Garantire continuità di reddito, inizialmente a chi non ce l'ha, per poi garantire un reddito d'esistenza a tutti in modo graduale, ha proprio lo scopo strumentale di ridurre il ricatto del bisogno, impedendo processi di dumping sociale. Se poi tale politica di sostegno al reddito, si accompagna all'introduzione di un salario minimo orario per chi non è contrattualizzato, è difficile immaginare che la separazione tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori precari si accentui. La proposta di un reddito di esistenza è ormai una parola d'ordine nelle manifestazioni e nelle lotte che vede protagonista il mondo in crescita dei precari.

 

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il manifesto - 30 giugno 2006

Reddito garantito, un'utopia neoliberale
Devi Sacchetto - Massimiliano Tomba, Università di Padova

L'articolo di Giovanna Vertova (il manifesto, 4.6.2006) [è riprodotto qui sotto], al quale hanno replicato sulle colonne di questo stesso giornale Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli (16.6.2006), ha passato in contropelo alcuni luoghi comuni delle recenti proposte sul reddito di esistenza, mettendone in evidenza debolezze teoriche e politiche. Non senza però sottolineare il problema dal quale quell'esigenza sorge: precarizzazione del lavoro e ridefinizione del welfare.
La formula del "reddito di esistenza" (basic income) appartiene al quadro delle scommesse politiche che cercano di attuare una qualche ricomposizione di un ideale soggetto precario. Da un quindicennio, con un'accentuazione tutta italica, il dibattito sulle trasformazioni del lavoro si è concentrato sulla moltiplicazione delle forme contrattuali (scambiata erroneamente per deregolamentazione, quando si tratta invece di una maxi-regolazione perfino delle forme che un tempo sarebbero state illegali) e sulla virtuosità immateriale del lavoro. I processi produttivi della nuova epoca postfordista sarebbero legati alle reti di conoscenza che si estendono sul pianeta, nelle quali ognuno interviene portando la sua dose di intelligenza... e lasciando a casa le mani. L'espansione del settore dei servizi, così ampio da comprendere le pulitrici e i bancari, rappresenterebbe uno degli indicatori principali di questa nuova tendenza.
Il "reddito di esistenza", prendendone sul serio la retorica, assume una mossa del secondo operaismo italiano, che liquidò - senza mai curarsi di fornirne alcuna analisi - la nozione marxiana di valore per far posto ad un'altra scommessa teorica: si trattava dell'operaio sociale, allora. Venne poi l'enfasi sul general intellect, e quindi sul sapere sociale generale, che ha funzionato come accattivante passe-partout per legittimare l'idea del carattere meramente residuale del lavoro operaio industriale nella fase attuale, e del passaggio ad un lavoro immateriale, intellettuale, tecnologico. Ora viene fatto un passaggio ulteriore: sarebbe il tempo di vita ad essere messo al lavoro, e quindi il consumo, in quanto attività relazionale e immateriale, ad essere produttivo di valore.
Questo approccio, appoggiato su un "paradigma a stadi", e quindi sulla successione temporale fra sussunzione formale e sussunzione reale, fra estrazione di plusvalore assoluto e estrazione di plusvalore relativo, permette di individuare - con una mossa tipica di ogni filosofia della storia - nel lavoro ad alta tecnologia e nel "postfordismo" un tendenza rispetto alla quale altre forme di lavoro sono giudicate "residuali".
Questa visione vale forse per un francobollo del pianeta terra, vale a dire per le aree più avanzate sul piano economico e tecnologico, ma taglia fuori con noncuranza i quattro quinti del pianeta, dove lavoratori salariati e coatti sono al centro di un'estorsione senza pari di plusvalore assoluto. Non si tratta, qui, di ragionare in termini "reattivi", negando la presenza di cambiamenti rispetto al passato. Ma è senz'altro sbagliato - sia teoricamente sia politicamente - definire in termini di arretratezza o "residualità" lo sfruttamento assoluto ancora in espansione nel pianeta. I 300 milioni di lavoratori coatti oggi esistenti nel mondo non sono un residuo precapitalistico se la frusta del sorvegliante è comandata dall'intensità del lavoro socialmente necessario registrata nelle borse mondiali. Sarebbe forse più opportuno interrogarsi sulla compenetrazione dei diversi livelli di sfruttamento, abbandonando un fallace paradigma a stadi storici che vorrebbe l'epoca della sussunzione formale superata da quella della sussunzione reale.
Il problema di un'economia globalizzata, nella quale viene meno anche la distinzione tra centro e periferia, è la relazione tra i diversi tipi di sfruttamento, vale a dire il modo in cui enormi masse di plusvalore assoluto prodotte nelle più svariate parti del mondo sorreggono produzioni ipertecnologiche ed espansione dei servizi qui da noi.
Da questo punto di vista va messo a tema quanto Fumagalli e Lucarelli affermano: è all'esterno del processo di lavoro e dei rapporti di produzione che viene pensata una ricomposizione del lavoro precario. Essi non mettono in questione lo sfruttamento insito nelle dinamiche capitalistiche, ma ne richiedono una sorta di "regolazione istituzionale": col reddito d'esistenza, infatti, si lascerebbe quantomeno inalterato (anche se probabilmente peggiorerebbe) il tasso di sfruttamento di coloro che dovrebbero effettivamente pagare il reddito d'esistenza a qualcun altro. Abbandonati i laboratori della produzione per le celesti sfere della circolazione e della distribuzione, l'immagine di una vita messa radicalmente al lavoro ci presenta, oltre che uno scenario postclassista, una sorta di olismo del capitale, rispetto al quale sono tutt'al più possibili riforme e nuove forme di redistribuzione della ricchezza.
Lungi dal costituire un allargamento delle lotte all'intera società, il reddito garantito significa innanzitutto la messa in mora di ogni discussione sulle forme della messa al lavoro. Mentre si continua a discutere impropriamente di mercato del lavoro, è assordante il silenzio sul contenuto del lavoro, a parte le ipotesi paradisiache relative ai lavoratori autonomi della conoscenza di seconda generazione. Se esiste una tendenza vera nei paesi occidentali, è lo sgretolamento del welfare state accompagnato alla precarizzazione del lavoro. E se ciò può avere come presupposto la critica di un'intera generazione operaia alla logica sacrificale del compromesso welfarista e laburista, ciò non toglie che la risposta padronale e governativa a quello scontro è stata in grado di capitalizzare quegli stessi comportamenti di insubordinazione operaia. Ma allora, cavalcando la tendenza e persuadendoci di averla noi stessi impressa - dalla fuga dal lavoro alla precarietà? - rischiamo di trovarci vicino alle posizioni neoliberali sul reddito garantito, certamente compatibile con un sistema nel quale welfare e servizi vengono immessi nel mercato, al quale il singolo sarà libero di accedere per via monetaria, scegliendo liberamente cosa comprare.

il manifesto - 21 giugno
Quote di reddito
Edoarda Masi


Cari compagni, visto che sul giornale sembra aperta una discussione sul
"salario di cittadinanza" (Vertova 4 giugno, Fumagalli e Lucarelli il
16) pregherei di dare spazio anche alla voce ingenua di quanti, come me,
non professori di economia, sono però direttamente interessati al tema
in quanto contribuenti per reddito da lavoro. Mi domando: perché mai
dovrei contribuire con una quota del mio reddito da lavoro a mantenere
una persona che non lavora, anziché dividere con quella persona il
carico complessivo del mio lavoro? Se la domanda di lavoro scarseggia,
"lavoriamo meno, lavoriamo tutti" - come si diceva un tempo. Quelli che
oggi lavorano guadagneranno meno, ma godranno di un po' più di tempo
libero; e quelli che non lavorano non saranno ridotti a vivere
miseramente di un sussidio eufemisticamente mascherato. Fra l'altro, non
favoriremo la tendenza, molto accentuata nella presente fase del
capitalismo, di caricare di un cumulo mostruoso di ore di lavoro una
parte dei cittadini, per lasciare poi gli altri disoccupati (vedi,
p.es., J. Schor, The Overworked Americans, 1991).
Alla base della richiesta del "salario di cittadinanza" sta l'ideologia
che il lavoro sia un optional, e non una necessità, sempre faticosa e a
volte dolorosa, della condizione umana. Ideologia collegata con la
visione miope di chi guarda solo dal punto di vista del singolo
individuo, cresciuto per di più nell'ottica del consumatore figlio di
famiglia. I beni che consumiamo (a cominciare dal cibo indispensabile
per la sopravvivenza) e i servizi di cui ci valiamo (inclusa la sfera
cosiddetta "immateriale") non vengono mai offerti gratis: qualcuno deve
lavorare per fornirli. "Perché dovrei accettare un lavoro faticoso,
sgradevole, che non mi piace?" - chiede l'individuo. E omette il fatto
che i lavori gratificanti sono pochi; e anche in un lavoro gratificante,
una larga parte è fatta di pura, sgradevole fatica.
Allora: tutti dovrebbero accettare qualunque lavoro, per quanto
sgradevole, disumano, mal pagato, ecc. ecc.? Neanche per sogno. Ma la
soluzione peggiore sarebbe quella di accettare, e addirittura
richiedere, un'elemosina che valga da "ammortizzatore sociale" da parte
di chi organizza quelle condizioni di lavoro più penose del necessario
(e ne trae profitto); e con ciò stesso mascherare il fatto che si
scarica su altri in generale il peso del lavoro; in particolare, sui
meno fortunati - perché, per esempio, stranieri - il peso dei lavori più
sgradevoli e meno gratificanti.
Sognamo un mondo dove sia dato "da ciascuno secondo le sue possibilità,
a ciascuno secondo i suoi bisogni"?
Allora, ricominciamo a parlare di alternativa socialista, invece di
escogitare ideologie degradanti, funzionali a tenere in piedi un sistema
di oppressione e di gerarchie.
Edoarda Masi

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il manifesto - 5 luglio 2006
Reddito d'esistenza e nuovi soggetti sociali
Cristina Morini
Attraverso da parecchio tempo, essendo una di loro, gli stessi percorsi di quei "lavoratori immateriali" che tanto sembrano sconcertare Devi Sacchetto e Massimiliano Tomba (il Manifesto, 30 giugno '06). Sarà colpa di una delle diciture che ci accompagnano, "lavoratori immateriali", che accenna a un'imprendibilità della sostanza, evoca un'immagine letterale di incorporeità e dunque di vacuità e dunque a un'inutilità degna di una specie di inspiegabile ironia?
L'analisi che in questi anni, su determinati temi, primo tra altri quello del lavoro, si è sviluppata di più, e meglio, al di fuori delle accademie - dentro l'ambito della ricerca informale e nelle elaborazioni dei movimenti -, non ha inteso legittimare "il carattere meramente residuale del lavoro operaio industriale". Ha ritenuto obbligatorio guardare ai nuovi processi e ai nuovi paradigmi del presente.
Elementi immateriali vanno sempre più innervando l'attività lavorativa tutta. Il sistema di accumulazione flessibile alla creazione di valore tramite la produzione materiale ha aggiunto la creazione di valore tramite la produzione di conoscenza. Alla tradizionale divisione del lavoro per mansioni e specializzazione se ne aggiunge una nuova, fondata sulla conoscenza, sui saperi, sulle singole capacità (relazionali, emotive). Piaccia o non piaccia, uno dei nodi da sciogliere nel presente è rappresentato dai knowledge workers (lavoratori della conoscenza) e dall'articolarsi complesso del loro rapporto con il lavoro, con la rappresentanza, con il loro ruolo sociale assai più controverso che in passato.
Chi sono questi fantomatici, fantasmatici, knowledge workers? Giornalisti, invisibili, al desk dei settimanali e dei quotidiani. Ricercatori universitari da tre per due e dal futuro incerto. Designer, lavoratori del web, impiegati e consulenti nell'industria dei brand, delle mode, degli stili di vita, tutti precari ai tempi delle vite precarie. Sono coloro che, quotidianamente, producono saperi, linguaggi, informazioni, conoscenza per un mondo che di tali "prodotti della mente" è affamato.
Guardare a loro significa guardare al lavoro creativo alienato, ridotto - in alcuni casi, nella grande maggioranza dei casi - a ripetizione, esecuzione. Significa guardare alla progressiva negazione della corporeità di classe che si ottiene governando a colpi di precarietà. I knowledge workers sono infatti contemporaneamente, non casualmente, estremamente "aperti" alla precarietà, a una precarietà che, nella modernità, si sostanzia, sopra ogni altra cosa, di immaginari, di miti.
La perplessità nei confronti del problema definitorio e di sostanza portato con sé dalla variazione in corso, sembra non prestare attenzione proprio ai contenuti del lavoro contemporaneo, prima ancora che al contesto macroeconomico. Il lavoro vivo contemporaneo si fonda sul ricatto, sulla generalizzazione dell'incertezza, con l'aggiunta di un potere disciplinante "indirizzato verso l'atomizzazione e l'asservimento totale del tempo di vita" (T. Villani, Il tempo della trasformazione).
Il passaggio che porta un uomo, una donna, a diventare risorsa umana è tutt'altro che indolore. Ci parla di una trasformazione antropologica, di una sussunzione biopolitica, di una "mercificazione ancora più intensa del soggetto" che "da astratta e quantificabile, come fu nel fordismo, viene a essere, in qualche modo, ri-soggettivata e qualitativa nel postfordismo" ((F. Chicchi, Capitalismo, lavoro e forme di soggettività). Ci parla, fuor di teorizzazioni, di una forma inedita "di tossicità del lavoro".
Un quadro talmente mutato ha, per forza, necessità di un aggiornamento sostanziale del piano dei diritti. Questo è quello che stiamo, da molte parti, provando a dire. Il paradigma è cambiato e mette al centro nuovi soggetti (non solo il lavoro immateriale, ma anche il lavoro dei migranti, anche il lavoro produttivo/riproduttivo delle donne), che portano con sé una realtà di nuovi bisogni. Il reddito di esistenza pretende di tenere conto di tale variazione esplicita.
La conoscenza, il general intellect, così come i beni comuni della natura, formano la base invisibile dell'economia, di cui ci si appropria, in modo esponenzialmente sempre più intenso, all'interno dei processi di accumulazione del nostro tempo. Vale a dire, esistono profonde ragioni deontologiche in difesa del reddito di esistenza, forma appena corretta di redistribuzione di fronte allo sfruttamento privato di tutti i beni comuni, sapere creativo collettivo compreso.
Ciò non significa, sia chiaro, dimenticare il piano rivendicativo, più classicamente sindacale. C'è bisogno entrambi, di nuovi simboli e di rivendicazione, contemporaneamente. Reddito, battaglie per i servizi sul territorio metropolitano, battaglie sindacali per risalire dagli slittamenti giuridici, tutto può e deve concorrere a costituire un aggiornamento, adeguato all'oggi, delle difese del lavoro contemporaneo.

 

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il manifesto - 8 luglio
Conciliare salario e reddito sociale
Chainworkers


Stiamo seguendo con una certa dose di ansia il dibattito che contrappone
i redditisti ai salaristi. Queste due colorite definizioni vorrebbero
indicarci due orizzonti differenti e antitetici di intendere il
superamento della precarietà. Una contrapposizione che sembra volersi
porre come riferimento cartesiano nelle questioni relative alla
precarietà sociale. I percorsi che abbiamo attraversato hanno cercato di
contestualizzare questa dicotomia collocandola all'interno di una
visione diversa.
La stessa Mayday, al principio, non ha cercato una sintesi fra le
diverse rivendicazioni. Al reddito per tutti/e - che indicava la volontà
di garantire una vita dignitosa a ciascuno/a - si è mano a mano
sostituita la continuità del reddito che non vuole essere una mediazione
fra il salario e il reddito di esistenza, ma ne costituisce il
superamento e la consapevolezza della necessità di una maggiore
versatilità nella scelta delle finalità intermedie, se si vuole
sviluppare una strategia veramente conflittuale, nel lavoro e nel
sociale, contro la precarizzazione. Il dibattito su reddito e sul
salario ma anche la grande assemblea "Stop precarietà ora" difettano in
questo. Non ci dicono perché dopo vent'anni di riduzione dei diritti e
delle retribuzioni si dovrebbe invertire la tendenza. Certo non solo per
aver posto il problema.
E' risaputo come le trasformazioni imposte dal liberismo abbiano
spiazzato le capacità di pressione politica e di efficacia sindacale
delle tradizionali forme di conflitto. Quindi il punto su cui
focalizzare l'opposizione alla precarietà sociale è quello di definire i
modi e le forme attraverso le quali trovare e saldare nuove forme
solidali e di conflitto, fra i lavoratori e precari/e, i nativi/e e i/le
migranti. Per noi il punto sta qua e concedeteci la provocazione, anche
sbagliandoci ne trarremo vantaggio. Vorrà dire che entro qualche mese
avremmo un reddito di esistenza o un salario stracolmo di diritti.
Se invece ciò non accadrà pensiamo che il percorso dell'EuroMayday -
esperienza che prova ad affrontare le contraddizioni di un'economia
mondo che si articola in spazi e modi differenti - abbia posto la sua
attenzione sul punto nevralgico: l'atomizzazione taglia i legami che
potrebbero condensarsi in una generale presa di coscienza della propria
condizione creando le basi per nuove complicità che diano forza a quei
conflitti che non riescono più ad articolarsi intorno a chi possiede i
mezzi di produzione, perché nell'era dei mercati finanziari e
dell'impresa network, si lavora vicino a non-colleghi e non si sa bene
chi paga il nostro stipendio, quando c'è.
Nel momento in cui né partiti né sindacati incarnano la forza per
modificare radicalmente la precarizzazione, le lotte devono trovare
linguaggi che escano dalla propria specificità e strumenti che diano la
visibilità necessaria per connettersi a una più generalizzata radicalità
sociale, creando spazi comuni e canali di comunicazione che dissolvano
l'atomizzazione. Agire con sensibilità mediatica, sfruttare gli
strumenti della comunicazione, riterritorializzare i simboli, creare
media sociali che costruiscono linguaggi comuni che nascono dalla
cospirazione attiva e da una valorizzazione sociale al di fuori del
capitale. Bisogna toccare il nodo nevralgico non solo del "di chi è la
ricchezza" ma di "cosa è la ricchezza": che è quel momento che sta fra
la produzione, la circolazione e la valorizzazione sociale.

il manifesto - 11 luglio 2006
Reddito garantito, fra illusione e diversivo
Riccardo Bellofiore
Joseph Halevi

L'articolo di Vertova sul reddito garantito ha messo i piedi nel piatto di una discussione dove troppe cose vengono date per scontate. Gli interventi di Fumagalli e Lucarelli (FL) e di Morini ribadiscono le approssimazioni che Vertova aveva disperso. FL ragionano così: i) nel postfordismo dei paesi avanzati l'economia si terziarizza e l'occupazione è creata fuori dalla grande impresa manifatturiera; ii) a ciò corrisponde una immediata produttività del tempo di vita e delle relazioni nel territorio; iii) il capitale si appropria gratuitamente della più elevata ricchezza sociale; iv) il tempo di vita deve invece essere remunerato (reddito), integrando la retribuzione da salario; v) si tratta di una regolazione istituzionale che rende stabile il postfordismo, come la crescita del salario in proporzione della produttività (fisica) stabilizzava il fordismo; vi) il basic income (BI), cumulabile e incondizionato, non solo aumenta la produttività sociale, ma ne ridistribuisce i frutti e fa crescere la domanda; vii) è un compromesso tra capitale e lavoro, realistico (avvicina per passi al reddito di esistenza) e incompatibile (se elevato, il BI non è un mero sostituto dei sussidi di disoccupazione).
Tuttavia la maggiore ricchezza relazionale e cognitiva attiene al lavoro concreto, non al lavoro astratto. La sequenza per cui è il comando tecnologico e organizzativo sul lavoro vivo a creare neovalore vale ovunque e sempre nel capitalismo. Inoltre la crescita postbellica si deve alla domanda autonoma (spesa pubblica elevata, investimenti privati, esportazioni) in un contesto internazionale di capitalismo da guerra fredda irripetibile. Non, contrariamente al mito fordista, ai salari, che sono stati trascinati. Quando le lotte nella produzione hanno morso, il modello è saltato. In contrasto con la visione di FL, il lavoro nel terziario è in gran parte legato al manifatturiero: l'economia della conoscenza si nutre di lavori "materiali".
Eppure è senz'altro vero che il capitalismo è cambiato radicalmente: i) una 'centralizzazione' finanziaria e produttiva gigantesca senza 'concentrazione' di lavoratori in grandi imprese, con riduzione della dimensione minima d'impresa; ii) la dicotomia centro-periferia è saltata, il centro è anche dentro la Cina, la periferia è anche dentro la Germania; iii) la forza-lavoro mondiale è raddoppiata in 15 anni; iv) il lavoro è sussunto alla finanza; v) il consumo è sostenuto dalla politica monetaria e dall'indebitamento; vi) è mutata la natura della prestazione lavorativa. Il lavoro precario è 'continuo' ma senza 'posto fisso'; quello a tempo indeterminato è sempre più incerto e aggredito: un avvicinamento oggettivo delle due figure. Intanto, il problema della realizzazione il nuovo capitalismo lo ha risolto senza BI. L'instabilità e insostenibilità dei nuovi processi di creazione di neovalore, che non sono 'spontanei', non consentono una ridistribuzione egualitaria.
Il BI non aumenta di per sé né ricchezza né valore. Ragionare altrimenti cancella un po' di cose. E' la domanda di lavoro a determinare la qualità dell'offerta di lavoro. La formazione diffonde oggi non cultura ma analfabetismo di ritorno. Solo la gestione politica della domanda (autonoma) traduce in realtà aumenti potenziali di produttività. FL rispondono che il lavoro è già frammentato, quasi Vertova sostenesse che il BI sia la causa della precarietà: ma Vertova spiega la precarietà come noi, e FL non sanno che al peggio non c'è mai fine. Il loro fine è il reddito di esistenza: intanto, 'realisticamente', si accontentano di un sussidio ai precari.
Di buone intenzioni è lastricata la via per l'inferno: il BI costituisce la sponda di politiche social-liberiste di aggressione a tutto il lavoro, dividendolo. FL prendono Vertova per una neoclassica per cui il BI creerebbe disoccupazione mettendo un pavimento rigido a salari o redditi. Vertova ha in testa, crediamo, una impostazione marx-kaleckiana. Il BI, se 'realistico', è più basso del salario, e crea un margine di flessibilità nel costo del lavoro. L'impresa assume pagando di meno, il lavoratore otterrà inizialmente lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento. Proprio perché oggi la realtà capitalistica si fonda sulla possibilità di chiusure e di precarizzazione, con il BI come "pavimento" il salario potrà essere ridotto sempre di più. Quando il salario si avvicina al BI, i governi abbasseranno, dove esiste, il salario minimo. Una dinamica che è più pronunciata in una società di servizi. Si crea una massa amorfa di persone che sopravvivono, frana la capacità contrattuale di tutti i lavoratori, i redditi manageriali schizzano verso l'alto. Tendenze già in atto da tempo in vari paesi.
FL ragionano come se il BI dia accesso di per sé ai beni e alla scelta del lavoro. Ma è chi comanda finanza e domanda autonoma che definisce livello e composizione della produzione, consumo reale, quantità e qualità del lavoro. Perché non partire dalla constatazione che l'esigenza è quella di stabilizzare il posto di lavoro, trasformando il precariato in lavori a tempo indeterminato, dando sicurezza dentro il lavoro dipendente? Saggiamente Masi ricorda una verità elementare. Come collettività possiamo ridistribuire solo la produzione corrente. Quest'ultima, aggiungiamo, sarà tanto più elevata quanto più alta è, oggi e nel passato, l'occupazione, e l'occupazione stabile; e quanto più alta è, oggi e nel passato, qualità e quantità dei mezzi di produzione. Senza gestione politica della domanda e senza conflitto sociale nella produzione sussidi come il BI sono acqua fresca, perché domanda e produttività non aumentano per magia.

Per la par condicio (?), lo stesso giorno appariva questa perla.
il manifesto - 11 luglio 2006
Il vizio della mancanza di proposte
Cristina Tajani
Il dibattito sul "reddito garantito" in corso su il manifesto e Carta.org ha un grande merito ed un grande vizio. Il merito consiste nell'aprire uno spazio di discussione, nella sinistra radicale, sul tema socialmente rilevante della ridefinizione del welfare, tema che rischia di rimanere pragmaticamente appannaggio di altri nel centro-sinistra. Il vizio sta nel non riuscire a riempire questo spazio di proposte che eccedano le schermaglie "italiche" del dibattito antico che contrappone reddito e lavoro. Chi scrive ha vissuto, in Lombardia, l'esperienza dell'elaborazione di un progetto regionale sul reddito in cui si sono riconosciute tutte le culture della sinistra radicale (dalla Fiom ai centri sociali), rappresentando un punto di fluidificazione dei linguaggi che, purtroppo, non sembra generalizzabile.
Ma più del metodo è il merito della discussione che merita attenzione. A questo vorrei provare ad offrire, per titoli, tre argomenti. Il primo insiste sulla necessità di ripensare un modello di welfare familistico e categoriale (disegnato su alcune categorie di individui: i lavoratori delle grandi imprese con la cassa integrazione contro quelli delle imprese medio-piccole, etc.). Sul punto pare esserci largo consenso, ma sulle proposte è difficile uscire della contrapposizione tra sostenitori e detrattori del basic income. Non è nuovo ricordare che l'Italia è l'unico paese europeo (insieme alla Grecia) a non godere di uno strumento universalistico (svincolato da appartenenze categoriali) di contrasto alla povertà. L'esperienza del Reddito minimo di inserimento, liquidata in fretta dal governo Berlusconi, non ha beneficiato di una seria valutazione né in sede istituzionale (il rapporto di valutazione non è stato mai reso pubblico), né in sede politica. A prescindere dal merito di quell'intervento (che può ben essere discusso) a pesare sul giudizio di molti a sinistra è stato il fatto che fosse uno strumento di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale: dunque "assistenza". Varrebbe la pena incrociare questi giudizi con i dati sulla nuova composizione della povertà relativa in Italia. Il maggior turnover, il ringiovanimento dei poveri (cui consegue trasmissione inter-generazionale del fenomeno), l'aumento degli occupati poveri (spesso precari) offrono altri elementi per valutare forme di sostegno al reddito (anche condizionate alla prova dei mezzi) in contrasto a povertà e ricatto della precarietà.
Né può valere l'argomento che contrappone il sostegno al reddito alla lotta contro la precarietà: equivarrebbe al sostenere, mutatis mutandis, che l'esistenza della cassa integrazione inibisce l'impegno contro ristrutturazioni labour-saving e crisi occupazionali.
Il secondo argomento ribadisce la necessità di situare i ragionamenti sul welfare in chiave europea, provando ad uscire dalla sola declamazione di principio. Fino ad oggi l'integrazione europea si è posta come "nemica" dei welfare nazionali, motivando il crescente euroscetticismo dei referendum francese e olandese sul Trattato. Ma le rilevazioni dell'Eurobarometro segnalano, di fianco ai timori, una forte propensione dei cittadini europei verso misure che promuovano la sicurezza sociale e l'uguaglianza. La scorsa presidenza britannica della Ue ha elaborato alcune iniziative sociali pilota da implementare a livello sovranazionale. Tra queste uno strumento di contrasto alla povertà nella forma del sostegno al reddito. Secondo le simulazioni, questa misura costerebbe circa un punto di Pil europeo e andrebbe nella direzione, politicamente significativa, della lotta all'esclusione sociale in chiave Ue, consentendo ai welfare nazionali di concentrasi su altri obiettivi (pensioni, sanità...).
L'ultimo argomento stringe il nesso tra la necessità di ripensare il welfare e la necessità di ripensare una fiscalità che ha perso di progressività e capacità redistributiva. Alcune indicazioni contenute nel programma dell'Unione (ad esempio il contrasto fiscale alla rendita) sembrano andare nella direzione giusta. Il punto politico da verificare è se l'attuale governo saprà collegare le misure in materia fiscale ai necessari interventi per un welfare maggiormente inclusivo.
Il rifinanziamento del fondo nazionale per l'assistenza è un piccolo segnale che vogliamo interpretare positivamente.

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23 luglio pag. 10
Se "tutto" produce valore, il vero orizzonte è il capitale
Ferruccio Gambino - Fabio Raimondi
A fronte degli sconvolgimenti produttivi in corso e del mutamento della geografia industriale del mondo odierno, la minaccia reale ai livelli occupazionali nei paesi industriali va considerata con grande attenzione. Già oggi alcune sedi locali del sindacato dell'auto, negli Stati uniti, ordinano l'arrivo del carro attrezzi quando qualche iscritto osa entrare nella sede sindacale con un'auto di marca non statunitense.
La delocalizzazione sta generando una distorsione di prospettiva: non è tanto il numero dei posti di lavoro persi in occidente e dislocati in paesi a basso salario, quanto l'angoscia che questo processo provoca non solo nella produzione industriale, ma anche in quella dei colletti bianchi. Ottant'anni di vie nazionali al socialismo e di smarrimenti di una prospettiva internazionale - salvo qualche nobile eccezione - hanno offuscato l'interesse e l'attenzione dei sindacati per le condizioni di quello che resta del movimento operaio nei paesi oggetto di delocalizzazione, dove vecchi macchinari continuano a essere utilizzati grazie ai bassi salari.
D'altra parte, l'attuale delocalizzazione assume le apparenze di un risarcimento per uno sviluppo industriale negato da decenni, se non da secoli, ai paesi colonizzati ed economicamente bloccati dall'intervento occidentale. Questo preteso risarcimento è in realtà foriero di un nazionalismo di ritorno come, ad esempio, in Cina e in India. Esso nasconde processi di differenziazione di classe: da un lato, c'è chi -- in alto - punta sull'accumulazione nazionale e, dall'altro, c'è chi - in basso - deve lavorare in condizioni disumane. E anche dalle nostre parti, probabilmente, più di qualche capannone o garage non risulterebbe molto diverso, se potesse parlare. Nella proposta del reddito garantito si corre il rischio di ragionare in termini di economia nazionale o tutt'al più europea, quando il problema va letto in termini transnazionali.
È d'altra parte comprensibile la posizione di quanti, a fronte della precarizzazione del lavoro, propongono il ritorno alla centralità del contratto a tempo indeterminato, al lavoro come diritto o bene comune. Parole d'ordine che difficilmente intercettano alcune categorie sociali, tra cui quei giovani, ma non solo, che sono sottoposti a ritmi lavorativi insopportabili e a salari risibili. Chi vorrebbe mai lavorare per un'intera vita come operatore in un call center, isolato da tutti e sorvegliato continuamente? Chi poi trovasse posto in un'azienda sotto i 15 dipendenti o in una cooperativa si sentirebbe scarsamente sollevato da un contratto a tempo indeterminato, perché può esser licenziato con uno schiocco di dita.
D'altra parte, una larga parte dei migranti è costretta a chinare il capo non potendosi permettere di rifiutare a lungo un contratto a tempo indeterminato in una delle tante prigioni a ore: e nemmeno questo li protegge dalla possibilità di finire in un Cpt. Proprio qui, stante l'attuale legislazione sulle migrazioni, il reddito garantito sulla base della residenza pone un problema non da poco: per i migranti la minaccia di doversi rioccupare nel giro di sei mesi, pena l'abbandono del territorio italiano, rende il reddito garantito un sollievo pregevole, ma di corto respiro.
Se, come pensiamo, la caratteristica del lavoro contemporaneo è il suo farsi migrante, allora sempre più labile è e sarà il divario tra quanti ci si ostina a definire "garantiti" e i precari. Per questo, nonostante la buona fede dei suoi sostenitori, il reddito garantito può significare, in assenza di un movimento impetuoso, la diffusione di diritti differenziali. Se, quindi, l'erosione della previdenza sociale carica tutti i salari di un onere che precedentemente era un diritto acquisito col proprio lavoro, allora non solo è necessaria e urgente un'organizzazione tra lavoratori e lavoratrici che rompa le gerarchie imposte dai nuovi modelli produttivi e contrattuali, ma è fondamentale che tale ricomposizione inizi là dove massima è la divaricazione tra lavoro e diritti, ossia dalle condizioni materiali dei migranti. Non si tratta di aspettare tempi migliori, ma di raccogliere e promuovere le occasioni di mobilitazione anche parziali, ma capaci di incidere, che facciano giustizia di un senso comune fondato sulla solitudine e sulla percezione di una congiuntura storica sfavorevole.
La categoria di "postfordismo" ha reso più difficile di quanto già non fosse la messa a fuoco dell'aumento in atto dei posti di lavoro a ritmi vincolati. Ciò che vediamo estendersi è un controllo sui tempi e l'intensità di lavoro sempre più capillare e che sempre più investe le nuove tipologie lavorative. Per questa ragione è sul lavoro, con le sue modalità in parte "vecchie" e in parte "nuove", che devono essere incentrati inchieste e dibattiti, e non sulla categoria di "vita" che rischia di sfumare le differenze di classe, rendendole indistinte.
Se infatti ogni attività diviene produttiva di valore, il capitale, produttore di precarietà (oltre che di profitti), pare configurarsi come una totalità, un orizzonte intrascendibile che può essere, tutt'al più, regolato in parte.

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il manifesto - 27 luglio
Diritto al reddito, le Marche ci provano
Enzo Valentini


La tutela del reddito ha un ruolo centrale e può essere perseguita
attraverso tre strumenti: Sussidio di disoccupazione (Sd), Reddito
minimo garantito (Rmg), Reddito di cittadinanza (Rdc). Il Sd,
riguardando solo i disoccupati, non risolve il problema dei working
poors, cioè di coloro che pur lavorando non escono dalla povertà. Il Rmg
assicura un dato livello di reddito: se i miei introiti sono inferiori a
tale somma, lo stato li integra. Il limite consiste negli effetti
disincentivanti perchè, fino al raggiungimento della soglia, il reddito
non dipende da quanto si lavora. Inoltre comporta alti costi per
individuare i destinatari e rischia di favorire gli evasori. Il RdC è
erogato a tutti indipendentemente dalle condizioni lavorative o
salariali e garantisce la libertà di non lavorare senza essere
disincentivante: viene percepito comunque e il profilo reddituale è
crescente rispetto a quanto si lavora.
La rivendicazione del Rdc si basa su due tipologie di supporto teorico,
da considerarsi complementari. La prima fa riferimento alle mutate
condizioni di produzione del valore e evidenzia che "quando il tempo di
vita viene messo a lavoro sfuma la differenza tra reddito e salario".
Tutti produciamo ricchezza sociale attraverso la nostra vita (relazioni,
azioni, creatività) e il Rdc rappresenterebbe la quota che spetta ad
ogni individuo. Ne consegue un'implicazione perversa: la remunerazione
dovrebbe essere differenziata tra gli individui, perchè non tutti
abbiamo la stessa produttività sociale.
Occorre quindi integrare con la seconda giustificazione del Rdc: il
diritto naturale al reddito. Ogni essere umano ha diritto di vivere, e
nella nostra società questo significa diritto al reddito. Non si tratta
di una remunerazione, non è la rivendicazione di una quota di ricchezza
che si produce, ma è l'affermazione di un diritto che con le regole del
capitalismo non ha niente a che fare. Il Rdc è lo strumento efficiente
per la generica lotta alla precarietà (non disincentivante, bassi costi
di gestione), e il più appropriato politicamente in quanto introduce un
elemento anticapitalistico.
Si teme che il Rdc possa accentuare la separazione tra lavoratori a
tempo indeterminato e precari o spingere all'inattività, favorendo la
frammentazione sociale, l'offensiva verso le garanzie conquistate, e
finendo per essere uno strumento al servizio dei padroni. Si suppone,
quindi, che la coesione sociale e la voglia di ribellione vadano
stimolati con interventi dall'alto e non che debbano essere costruiti
dal basso. Al contrario, proprio il riconoscimento del diritto al
reddito può assicurare quel potere decisionale sulla propria vita che in
tal senso è fondamentale. Si sostiene che il Rdc minerebbe il potere
contrattuale dei lavoratori e ridurrebbe i salari. I padroni sostengono
la tesi opposta: l'aumento del potere contrattuale farebbe salire i
salari. Strano, ma hanno ragione i padroni.
I dati Ocse mostrano una relazione negativa tra lavoro nero e spesa a
tutela del disoccupato, che farebbe aumentare il potere contrattuale
diminuendo la disponibilità della gente ad accettare impieghi
irregolari. Il diritto al reddito non è la soluzione a tutto, ma è la
base per la riappropriazione di spazi e tempi di vita. Esso non esclude
la necessità, ad esempio, di agire sul mercato del lavoro
(flexsecurity), sugli incentivi alla cooperazione, sulla gestione
pubblica delle risorse energetiche. Ma in questo campo si possono
individuare proposte che diano un senso concreto alla lotta contro la
precarietà.
Nelle Marche è in corso una raccolta firme per una legge di iniziativa
popolare che prevede l'introduzione di un Reddito Sociale di 500 euro
mensili e l'erogazione di servizi gratuiti (sanità, trasporti, cinema,
teatro) per disoccupati e precari. Si tratta di un istituto che ricade
nell'ambito del Rmg. Ciò è dovuto all'esigenza di includere una norma
finanziaria che consentisse di reperire nel bilancio regionale le
risorse necessarie. Mentre a livello nazionale un Rdc sarebbe
finanziabile con una riforma complessiva, a livello regionale esistono
meno margini di manovra ed è stato possibile ipotizzare solo un
finanziamento per un Rmg. Il principio ispiratore fa però riferimento al
RdC, visto che l'art. 2 afferma che "La Regione Marche istituisce e
garantisce su tutto il territorio regionale il diritto al reddito
sociale". Viene formalmente riconosciuta la separazione tra reddito e
lavoro, si creano le basi per rivendicazioni future, e in presenza di
altre iniziative simili anche il governo sarebbe sollecitato ad
affrontare la questione.

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8 agosto
Ricercatori precari, la realtà smonta ogni retorica
Anna Carola Freschi, Università di Bergamo

Il dibattito che si è svolto in queste pagine su come contrastare la precarietà riflette un bisogno reale nel mondo eterogeneo dell'auto-organizzazione dei precari: allargare la discussione coinvolgendo realtà diverse per territori, settori produttivi, culture politiche e del lavoro, percorsi di mobilitazione.
Essere precari a Milano, Firenze, Napoli non è la stessa cosa, così come essere ricercatori, giornalisti, metalmeccanici, addetti dell'anagrafe o lavorare in un call center. I toni netti possono essere utili a creare un clima di confronto finalizzato al raggiungimento degli obiettivi comuni: un welfare nuovo ed universalistico e la riaffermazione della dignità del lavoro. Di fronte alla piaga della precarietà nel capitalismo flessibile-cognitivo, entrambi gli obiettivi si devono confrontare con il problema comune della redistribuzione delle risorse, tanto per finanziare il welfare che per spingere davvero le imprese a investire nel lavoro e nell'innovazione.
Insomma, è banale dirlo, ma il conflitto non è evitabile. Se si assume che il vincolo a perseguire una politica di equità e di innalzamento della pressione fiscale su profitti e rendite e, con ciò, che il modello di sviluppo neoliberista siano dati immodificabili, si va poco lontano. Sentiamo oggi molte proposte gradualiste, che accettano questi dati, animate dalla buona intenzione di raggiungere risultati rapidi, per quanto parziali. Sono comprensibili se non portano
avanti anche il terreno di lotta centrale? L'estensione, la gravità, la trasversalità del precariato si conciliano male con questa prudenza.
Prendiamo l'esempio dei ricercatori precari, una componente emblematica del fenomeno della precarietà: le stime dicono che questi lavoratori rappresenterebbero quasi la metà dei ruoli di ricerca e docenza dell'università italiana (circa 50.000 persone). In tre anni di mobilitazioni, né Università né Governo hanno messo a disposizione dati ufficiali esaurienti. Come è stato possibile nell'ultimo decennio - in un clima di montante retorica sulla necessità di flessibilizzazione - mettere ripetutamente mano a riforme sull'organizzazione dell'università
senza
preoccuparsi di monitorare (e rendere pubblici) i dati sull'evoluzione della sua struttura? E così
sono cresciuti i ricercatori precari: quasi tutti dottori di ricerca, lavorano a tempo pieno con collaborazioni, assegni di ricerca, borse di studio, contratti di docenza (quindi non i liberi professionisti prestati all'Università per compiti circoscritti). Colmare questo deficit conoscitivo riguardo alla consistenza numerica dei ricercatori precari è la prima cosa da fare se il nuovo Ministro vuole rafforzare la sua posizione in un governo che ha appena confermato una riduzione dei finanziamenti all'Università. L'ennesima mazzata sul sistema pubblico, dopo anni di
tagli alle risorse e di inascoltate mobilitazioni di precari e studenti.
Ma torniamo al problema della natura del lavoro dei ricercatori. Secondo il mainstream sulla flessibilità, i ricercatori dovrebbero essere figure "forti" sul mercato: il prototipo del lavoratore cognitivo, conteso per le sue competenze, flessibile, mobile. Compensi adeguati (oggi miseri in Italia, ma, secondoConfindustria ad un convegno primaverile della Crui, non competitivi con i costi del ricercatore cinese) e un buon welfare risolverebbero per questo lavoratore in posizione "forte" il problema dell'autonomia e del reddito, evitandogli di sottoporsi ad un antiquato sistema.
Purtroppo però le cose non stanno così: il ricercatore non è assimilabile ad un lavoratore autonomo che si muova in un mercato concorrenziale. Non solo le competenze sono sempre più riproducibili, codificabili, ma soprattutto sonovalorizzate selettivamente attraverso un processo organizzativo e regolativo che vede il ricercatore in una posizione del tutto asimmetrica, indipendentemente dalle sue qualità di lavoratore. La taylorizzazione del lavoro cognitivo
significa infatti una scomposizione del lavoro in fasi diseguali dal punto di vista delle
opportunità di valorizzazione dei saperi impiegati nel prodotto finale, mentre il controllo su risorse
strategiche (a monte, con il reperimento e il controllo delle risorse finanziarie-tecnologiche organizzative e del reclutamento, e a valle sul mercato editoriale) tende a concentrarsi in gruppi ristretti. Conservare l'autonomia al lavoratore-ricercatore sulla base di forme contrattuali instabili e finanziate dal mercato è molto difficile, soprattutto per chi volesse fare ricerca libera (che pretesa!) non inserita in scuole disciplinari consolidate o finalizzata ad immediati interessi di mercato. Né è scontato che questo processo di immaginaria competizione su base individuale, atomizzata, porti ad una maggior qualità ed innovatività degli ouput: perché la produzione diconoscenza ha sempre più un carattere collettivo e perché non è riducibile a logiche di mercato.
In conclusione, l'autonomia dei ricercatori e la valorizzazione del loro lavoro è ancora largamente dipendente dalla loro collocazione nella rete delle relazioni di potere. Per quanto sia scomodo da ammettere, e in contrasto con la retorica sulla società della conoscenza, è la dimensione del potere a partire dalle relazioni di lavoro che valorizza le competenze e i loro portatori, anche e non a caso in unasocietà dove queste risorse appaiono più abbondanti.

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15 agosto
Reddito e salario: si parte dal lavoro e dal conflitto
Giovanna Vertova


Una mia critica al basic income ha dato vita ad una accesa discussione
su tre questioni-chiave: le novità del capitalismo contemporaneo; il
lavoro cognitivo; la centralità della lotta dentro e contro il capitale.
Le posizioni di Fumagalli/Lucarelli, da un lato, e Bellofiore/Halevi e
chi scrive, dall'altro, sono alternative. Per Fumagalli la vita produce
ricchezza e valore: unico problema, la redistribuzione. Il capitalismo
contemporaneo è accettato così com'è. Non un riferimento all'instabilità
dei nuovi processi di valorizzazione, alle metamorfosi monetarie, ai
conflitti geo-politici, all'insostenibile dinamica macroeconomica, alla
nuova politica economica, quasi fossero irrilevanti. Fumagalli e
Lucarelli, contraddittoriamente, vogliono essere realisti (un reddito di
esistenza universale "può essere raggiunto solo gradualmente a partire
da chi si trova nella condizione più sfavorevole di intermittenza di
reddito o con lavori magari continuativi ma sottopagati") e
incompatibili (il basic income deve essere elevato). La debolezza
attuale fa elargire il basic income soltanto ad alcuni lavoratori, crea
diritti differenziali, apre al ribasso del salario su cui ho insistito.
Il desiderio fa sognare che quella debolezza mascheri una forza tale da
infrangere le compatibilità strette del capitalismo flessibile.
La fantasia secondo cui la vita è "produttiva", sicché si retribuisce
qualcosa di già dato, dovrebbe eliminare la contraddizione. Fumagalli e
Lucarelli ragionano come se fossimo di fronte ad una appropriazione
meramente politica da parte del capitale di una produttività che
"naturalmente" spetta al solo lavoro sociale, e l'unico compito politico
è riappropriarsi di quanto è già nostro. Peccato che, così come non
esiste il capitale senza il comando sul lavoro, non esiste
"produttività"' del lavoro fuori dall'inclusione nel capitale. Questo è
il capitalismo: una classe decide cosa, come, quanto produrre; un'altra
deve necessariamente vendere la propria forza-lavoro, "materiale" o
"immateriale" che sia il lavoro erogato. L'antagonismo è possibile, ma
ha come centro la produzione. Ciò non contrasta con l'introduzione di
ammortizzatori sociali contro la precarietà, su un asse diverso da
quello del basic income, per la indisponibilità della forza-lavoro a far
dipendere la propria esistenza dalle convenienze del capitale. La
divisione tra economisti è, dunque, tra chi ritiene che si debba
guardare in faccia il capitalismo di oggi così com'è, e chi preferisce
rivolgersi al mondo dei sogni.
Morini e Tajani si tengono al concreto. Peccato che ci diano una
immagine discutibile della realtà del lavoro, con lo scivolamento
discorsivo per cui l'analisi della precarietà (fenomeno che, in vario
grado, investe tutti i lavoratori) si concentra solo sui lavoratori
della conoscenza, per una loro presunta centralità empiricamente
contestabile. Anche nel terziario la gran parte delle assunzioni è in
lavori a bassa qualifica e basso salario. Nello stesso lavoro cognitivo
la taylorizzazione procede spedita, e così i modi più o meno sofisticati
di controllare e misurare il tempo di lavoro. La fine della teoria del
valore per la presunta non misurabilità del lavoro affascina i teorici
post-operaisti: non sarebbe male che la notizia arrivasse ai padroni che
sembrano esserne all'oscuro. Anche Morini e Tajani si contraddicono: il
lavoro cognitivo è alienante e ripetitivo, ma creativo. Il ragionamento
è noto. Lo strumento di produzione è oggi la testa, non il braccio:
dunque lavoro e vita si confondono. La natura totalizzante del capitale
può essere così rovesciata. Il lavoro immateriale è oppresso, ma
possessore della conoscenza e delle condizioni di
comunicazione/coordinazione.
L'intervento di Freschi è prezioso perché ricorda che il mondo del
lavoro è eterogeneo. Ridurre forzatamente all'unità un mondo plurale
nega l'esigenza della riunificazione tra soggetti del lavoro differenti
e con pari dignità, e sostituisce astrazioni vuote all'inchiesta
concreta. Dentro il lavoro cognitivo è paradigmatico il caso del
ricercatore precario. Le sue competenze sono sempre più riproducibili,
codificabili, valorizzate selettivamente in processi organizzativi e
regolativi segnati da rapporti di potere. Chi non crede ad una
taylorizzazione spinta della conoscenza, dove si misura ciò che si
pretende senza misura, dia una occhiata alle nostre università. Non ci
si può attendere un cambiamento dalla mera garanzia del reddito, ma solo
da una azione che sappia entrare nelle relazioni di lavoro per
contestarne le asimmetrie di potere.
Sacchetto-Tomba e Gambino-Raimondi toccano il nodo centrale.
Individuando, i primi, lo sfondo categoriale dietro il basic income. Un
paradigma a stadi per cui dall'estrazione di plusvalore assoluto, tipico
del primo capitalismo e oggi della periferia, si passa all'estrazione di
plusvalore relativo nel capitalismo attuale. Ciò taglia fuori quattro
quinti del pianeta, e cancella (come notano Bellofiore e Halevi) due
cose. Primo: la periferia è ormai dentro il centro (e viceversa), anche
qui da noi. Secondo: il capitalismo ipertecnologico e il lavoro
cognitivo si nutrono di plusvalore assoluto e di lavoro materiale, nei
vari angoli del pianeta. Il nuovo capitalismo si gioca sul controllo dei
tempi e sull'incremento dell'intensità di lavoro, attraverso il
progresso tecnologico, la diffusione spaziale e la frantumazione del
lavoro. A ragione Gambino e Raimondi mettono in risalto la natura
transnazionale del problema e le condizioni materiali del lavoro
"migrante".
E' vero: mi sarà contrapposta la dialettica tra "ottimisti" e
"pessimisti". Ma la chiarezza su come stanno le cose è il nostro primo
dovere. Mi preoccupa la progressiva discesa nell'idealismo. Ancor di più
tra gli economisti della sinistra radicale. Sul debito pubblico, sul
conflitto distributivo, ora sulla precarietà, non si parte dal rapporto
capitale-lavoro, dalla composizione di classe, dall'inchiesta, ma dalle
buone intenzioni. Io rimango testardamente convinta che è dalle lotte
nel lavoro, e contro questo lavoro, che si deve ripartire.

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19 agosto
Salario o reddito? Il dibattito estivo s'infiamma

una lettera di Andrea Fumagalli
Nell'articolo pubblicato il 15 agosto 2006 dal titolo "Reddito eSalario: si parte dal lavoro e dal conflitto" di Giovanna Vertova, si
legge: "Per Fumagalli ... il capitalismo contemporaneo è accettato così
come è". Tale affermazione è palesemente falsa e incomprensibilmente
offensiva della mia storia e delle mie idee. Quanto espresso da Vertova
è particolarmente sgradevole perché, oltre al tono arrogante, è
apodittico: Vertova finisce per svolgere il solo ruolo di censore delle
proposte altrui, assolvendosi dall'esprimere chiaramente idee personalialternative sul tema e limitandosi a una riduzione scorretta e
semplicistica del pensiero degli altri.
Ho discusso, su questo giornale come altrove, con gli estensori di
proposte di riforma del welfare diverse da quella da me formulata sempre
nel più ampio rispetto dei miei interlocutori, a cui ho riconosciuto lo
sforzo (che è anche il mio) del "provare a fare". Chi mi conosce sa
perfettamente che l'analisi che porto avanti da anni, insieme ad altre ealtri che, come me, sono parte dell'ambito di pensiero critico
neo-operaista ma non solo, ha a che vedere proprio con i mutamenti del
processo di accumulazione e del mercato del lavoro. La proposta di
reddito di esistenza nasce esattamente da questo ampio contesto di
pensiero e di pratiche ed è strumentale allo sviluppo del conflitto di
classe. Essa può essere, certamente, criticata nel merito, ma non ci si
può permettere di definire e bollare coloro che la propugnano nel modoforviante che, su queste pagine, hanno utilizzato alcuni di coloro che
hanno preso parte a questo dibattito, a questo punto, davvero, trasceso
nei toni oltre che nei contenuti.
Infine, dispiace che il manifesto, con il corsivo non firmato del 4
giugno 2006, secondo cui chi propone il basic income "favorisce
l'offensiva verso ciò che resta delle "garanzie" del lavoro dipendente
conquistate in un secolo e più di lotte", non sia stato parte neutraleall'interno di un dibattito ben poco neutrale. Forse ha perso quella
capacità di elaborazione innovativa che ha caratterizzato la sua
trentennale storia? Forse è questo che sta alla base della sua
preoccupante crisi attuale?

 

 

 

 

 

 
 
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