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Jan Rehmann

I NIETZSCHEANI DI SINISTRA
Foucault, Deleuze e il postmodernismo: una decostruzione

a cura di Stefano G. Azzarà

ISBN 88-96487-98-4

pp. 245 € 20,00

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PREZZO SPEDIZIONE COMPRESA

“Il deserto cresce, guai a chi nasconde deserti dentro di sé”; “Bisogna avere del caos dentro di sé per partorire una stella danzante”; “Ciò che fa l'originalità di un uomo è che egli vede una cosa che tutti gli altri non vedono”; «Io non sono un uomo, sono dinamite!»; «La felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa»; «Ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male» F. Nietzsche

Un libro utile, alla fin fine, per capire come mai, in ogni movimento di contestazione, riaffiorano come azzardi questi "pensierini". "Ritornano", per mangiarsi la coda. Aforismi che qualcuno ritiene ancora buoni per affascinare i ragazzi che si affacciano al mondo; e che inducono qualche editorialista d'assalto a individuare in Nietzsche il “nonno della contestazione studentesca” o addirittura «uno dei padri del movimento no global».
Ma il libro è utile soprattutto per individuare gli artefici di questa mistificazione – quelli del sottotitolo – e comprendere il modo in cui il postmodernismo ha potuto diventare quasi senso comune grazie a una serie di disinvolte equazioni. Tra tutte: volontà di potenza = produzione desiderante. Suona simile, ma non è la stessa cosa. Soprattutto, scompare lo scorrere del sangue.
Un libro, questo, che rivaluta l'idea di un progetto consapevole di trasformazione della realtà e di emancipazione collettiva del genere umano, da sempre al cuore della modernità, e però entrata in crisi con la svalutazione della ragione e la dissoluzione programmatica della nozione di soggetto.

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Dalla quarta di copertina
« È POSSIBILE RICOSTRUIRE UNA TEORIA FILOSOFICA E POLITICA DI SINISTRA PARTENDO DA NIETZSCHE? Da più di trent’anni, la parte che si vuole più “raffinata” della sinistra annuncia il superamento della metafisica, la fine delle grandi narrazioni, la morte della filosofia della storia. Un lungo viaggio iniziato tentando di fondare una critica del “socialismo reale” e delle sue meste proiezioni politiche in occidente. Proseguito nel tentativo di coniugare la lettura “postmoderna” con l’esigenza di affermazione di nuove figure sociali. Per ritrovarsi infine impegnata a celebrare le “magnifiche sorti e progressive” dell’Individuo proprio quando questo viene schiacciato ovunque sotto il peso di una precarietà (lavorativa, contrattuale, esistenziale, culturale) che ne distrugge il futuro già nel presente.
Una occasionale rilettura di alcune opere di Friedrich Nietzsche ha propiziato tale operazione culturale: un rovesciamento quasi perfetto. Al filosofo tedesco e alla sua lettura della crisi della modernità si richiamano Gilles Deleuze, Michel Foucault e molti altri autori, grazie alla scoperta del concetto di “differenza” e dell’intrinseco pluralismo che esso implicherebbe.
In questo libro, muovendo dalla lezione dei francofortesi (non risparmiando critiche neppure a loro), di Gramsci e Bloch, Jan Rehmann discute l’ambiguità di queste nozioni e mostra tutta l’arbitrarietà della lettura postmodernista di Nietzsche. Ed ecco che nelle mani dei “nietzscheani di sinistra” il pathos della distanza che separa gli aristocratici fuorusciti dal gregge degli schiavi si tramuta nel concetto di differenza in quanto tale; e la volontà di potenza viene ingentilita fino a sembrare metafora di una concezione cooperativa del potere. La religione di Zarathustra viene così riproposta come retroterra di “nuovi possibili percorsi individuali” di liberazione per i “nomadi” dei nostri giorni.
Rehmann mostra come questi discorsi siano ben poco fondati in una lettura rigorosa dei testi nietzscheani e soprattutto, lungi dal costituire il presupposto per un rinnovamento della critica del dominio e della società capitalistica, siano del tutto solidali con l’offensiva ideologica neoliberale e le sue concrete pratiche di sottomissione politica e sociale.»

Eccolo qui il simpatico impostore uscito dalla copertina di Giancarlo Montelli, scomposto nelle sue componenti. Metafora del postmodernismo combinatorio.
Philosophy? Get it yourself!

 

RECENSIONI

Ce ne fregiamo. Giunge finalmente la prima recensione del tipo «ma anche» di Alberto Scarponi, un vero esercizio di stile. È comparsa, con il titolo "Nietzsche e Marx non si devono dare la mano?", su retididedalus, l'apprezzata rivista del Sindacato Nazionale Scrittori diretta da Marco Palladini. La trovate qui. Autore, curatore ed editore, di simili recensioni non possono che fregiarsi. La debolezza e l'inconsistenza delle peraltro imbarazzate critiche – «vizio filologico», «occorre prendere il buono dove lo si trova», «la critica deve essere costruttiva» – non fanno che esaltare il testo. Resta il fatto che Nietzsche è un'icona, ormai familiare come il "Che" con il basco: non è né di destra né di sinistra, e del simpatico
baffutello non possiamo più fare a meno. Chi ne critica gli epigoni, è mosso da "accanimento filologico". Amen.

Affascinato dal mantra deleuziano, – «Il “sì” di Nietzsche si contrappone al “no” dialettico, l’affermazione si contrappone alla negazione dialettica, la differenza alla contraddizione dialettica, la gioia e il godimento al lavoro dialettico, la leggerezza e la danza alla pesantezza dialettica, la bella irresponsabilità alle responsabilità dialettiche. La sensibilità empirica per la differenza, per la gerarchia, è ciò che essenzialmente fa muovere il concetto più efficacemente e più in profondità di qualsiasi pensiero della contraddizione» – Scarponi non vuole rinunciare a tenere i piedi in più scarpe.
Ma dovendo scegliere, sceglie la Cultura, vista e sentita, però, come
luogo della contaminazione permanente. Tanto, il Politico è lost.
Questo è il punto. Una ricreazione continua, tanto c'è il supplente.
(Ma poi, dove la trovano tutta questa gioia, e poi leggerezza, godimento, danza... 'sti pipparoli). Qualcuno glielo spieghi, a Scarponi: contaminazione, ibridazione, meticciamento sono la condizione naturale, data, di partenza. Per tutti. Proprio come la giovinezza, ipostatizzata e indossata come un abito - ormai liso, si suppone. (Lo sa chiunque si sia ben guardato dal praticarla, la giovinezza, opportunamente sconsigliato dallo spettacolo indecoroso che ne davano i coetanei.) Scarponi non sente la responsabilità di scoprire ed esibire la ratio di un simile processo di deterioramento progressivo. A lui sta bene così.
Beato lui.

cdb, 16 luglio 2009

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Ci era sfuggita questa recensione di Tonino - vorreimanonposso - Bucci, apparsa su Liberazione il 25 agosto 2009:

Il superuomo, che abbaglio. Anche Foucault c’è caduto

Tra il ‘68 e il ‘77 si fa avanti in Francia una generazione di filosofi radicali. Si costruiscono un ruolo nel movimento della contestazione. Parlano di ribellione al potere, di desiderio e affermazione delle differenze, di forze individuali in lotta con qualsiasi organizzazione “totalitaria”, Stato, partito o sindacato che sia. Hanno un riferimento comune. Si chiama Nietzsche. Un filosofo che fino agli anni ‘60 era trattato da autore di “destra”, antidemocratico e pervaso di aristocraticismo. Il clima cambia con l’uscita di due libri: Nietzsche e la filosofia di Deleuze del 1962 e Le parole e le cose di Foucault del 1966. Da questo momento Nietzsche diventa un eroe che piace alla gauche . Viene letto come un critico spietato della società borghese, un contestatore radicale del falso illuminismo delle moderne democrazie occidentali. Il “superuomo” – celeberrima formula nietzscheana – è il tipo di un’umanità futura, di un individuo finalmente libero dal senso di colpa e senza tabù sui propri istinti vitali. La filosofia nietzscheana sembra fare piazza pulita di ogni ideale repressivo, di ogni morale ascetica, di ogni teoria generale. Niente più ideali e sublimazioni, soltanto una nuda volontà di affermazione e un primordiale principio di realtà.
Tra i lettori entusiasti di Nietzsche c’è anche Foucault. A lui è dedicato in gran parte il saggio di Jan Rehmann, I nietzscheani di sinistra (Odradek edizioni, a cura di Stefano Azzarà, pp. 238, euro 20), una delle poche interpretazioni critiche (da sinistra), anzi l’unica, tra i tanti libri usciti quest’anno su Foucault – il venticinquesimo dalla sua morte. La tesi – detta in sintesi – è che il nietzscheanesimo ribelle di Foucault, come pure di Deleuze – sia nato da un grande equivoco e che entrambi avrebbero confuso la vera natura “dominatrice”, per nulla liberatoria, della volontà di potenza di Nietzsche con la volontà di affermazione dell’individuo: per essere più precisi con la potentia agendi di un altro filosofo amato dalla contestazione: Spinoza. Nietzsche intende il potere come dominio, Spinoza invece distingue dall’autorità ( potestas ) dello Stato che «subordina dall’alto», la potentia delle moltitudini. La potenza spinoziana è una cooperazione, è il modo in cui gli individui agiscono ed entrano in relazione fra loro, affermando la propria esistenza come in un aggregato. La potenza di Nietzsche è invece tutt’altra cosa, è dominio immediato, violenza, guerra di sopraffazione non sublimata che nelle moltitudini vede semmai un avversario di cui sbarazzarsi.
Nell’equivoco, secondo Rehmann, cadrebbe anche Foucault che confonde la “volontà di potenza» nietzscheana con una visione pluralistica della realtà, di un campo di forze individuali in lotta per la propria affermazione e liberazione. «Il significato dell’espressione “volontà di potenza” consiste in questo: naturalizzare il dominio e la violenza identificandoli con l’essenza della vita in generale». «E’ sorprendente che le teorie postmoderniste, che sono sorte per rivalutare ciò che è disperso e frammentato contro il “terrore” della verità, della ragione, dell’universale e della rappresentazione, passino sotto silenzio questa trasfigurazione filosofica del comando irrazionale e del dominio immediato della violenza da parte di Nietzsche. Egli stesso ha spiegato molto chiaramente di voler porre come fondamento della vita organica e inorganica un potere/dominio tirannico» che si scaglia contro gli “istinti democratici dell’anima moderna”, contro “l’ostilità da plebei per tutto quanto è privilegiato e sovrano”».
Già in Le parole e le cose il nietzscheanesimo di Foucault si fa sentire nella tesi della «morte dell’uomo». Qui Nietzsche (assieme ad Heidegger, ma questo è un altro discorso) è preso a modello di un nuovo antiumanesimo anti-idealistico. Foucault se la prende con l’antropologia, con le scienze umane moderne che hanno inventato il concetto di “essenza umana” in generale, ma finisce con l’accomunare tutte le varianti dell’umanesimo fra loro, indipendentemente se finalizzate alla passività o alla trasformazione della realtà. Si scaglia anche contro le teorie di sinistra che «vogliono ancora parlare dell’uomo, del suo regno e della sua liberazione». All’umanesimo sostituisce il superuomo di Nietzsche che appare una rivalutazione di «questa vita», della «vita individuale» contro ogni riferimento a valori astratti che morale, religione e filosofia hanno sinora fatto.
Eppure «il flirt postmodernista con l’eterno ritorno non vuole rovesciare nella pratica la filosofia morale universalistica di Kant, fondata sulla generalizzazione, per concretizzarla come l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti sociali più inumani ed umilianti, come aveva tentato Marx. Vuole invece sostituirla mediante l’arte di vivere particolaristica di Nietzsche». Il superuomo cela una natura dominatrice, vive «come gli dèi di Epicuro», «secondo le proprie leggi e distante dalla plebe» anche se il comandare è «una necessità da seguire con riluttanza». Il superomismo può funzionare come una droga per l’individuo atomizzato, privo di «legami sociali solidali» e che dalla propria posizione subalterna aspira a un rango più elevato e immagina se stesso come superiore. Ma in questo revanchismo non c’è una protesta per la miseria reale, è piuttosto una sofferenza che si trasforma «in un odio generalizzato verso la sofferenza stessa – scrive Rehmann – un odio che si sfoga nei confronti dei deboli e trascina la nausea dell’uomo fino alle fantasie di sterminio» verso una superiore forma di aristocratismo. Quando Foucault nella sua tesi della morte dell’uomo fa proprio il riferimento a Nietzsche sottovaluta il significato sociale del superuomo, la sua vocazione antiegualitaria. Per Nietzsche l’uguaglianza è un «fantasma» artificiale creato dall’istinto di massa: «non esiste una specie ma soltanto vari esseri individuali». Il superuomo vuole l’«eliminazione dell’uguaglianza, la creazione di superpotenti». In Zarathustra , quando la plebe afferma che non ci sono uomini superiori perché «l’uomo è uomo; davanti a Dio siamo tutti eguali» la risposta nietzscheana suona così: «davanti a Dio! Ma questo Dio è morto». Non a caso del superuomo sono circolate letture di “destra”.
Foucault non avverte questi timori: il suo Nietzsche è invece trasformato in un eroe che si ribella al conformismo e alle regole in nome della scelta individuale e della “differenza”. Ironia della sorte sarà proprio questo Nietzsche, riletto a proprio uso e consumo, ad accompagnare Foucault nella sua svolta radicale dopo il 68. Di Nietzsche farà anzi un uso correttivo di Marx. Quel che invece il marxismo non vede, a detta di Foucault, è che il potere è qualcosa di pervasivo e mobile. Combattiamo «tutti contro tutti» – dirà Foucault in un’intervista del ‘77 – e «c’è sempre qualcosa in noi che combatte qualcos’altro in noi». Contrariamente a Marcuse, altra icona del 68, Foucault non pensa che il potere sia repressione e che la sua potenza consista nel “dire no”, nell’interdire, nell’enunciare la legge e far funzionare il divieto. Il potere è produttivo , le sue tecniche di potere producono individui docili. Questo potere capillare è ovunque, si compie di «microperazioni» e va studiato nelle sue istituzioni locali attraverso una «microfisica».
Eppure, secondo Rehmann, qualcosa non torna. Da un lato, Foucault batte sul tasto della “molteplicità” del potere e dei suoi centri: il bidello, il direttore di carcere, il giudice, il delegato sindacale, il capo redattore. Ma dall’altro, cela un «essenzialismo», un potere onnipotente che sta sotto e dietro i rapporti sociali, un maître-pouvoir . Sarebbe questo il prezzo più alto pagato da Foucault per il suo debito col nietzscheanesimo. «La produttività del potere: proprio questo è Nietzsche, nella misura in cui concepiva la sua volontà di potenza come l’unica e onnipresente forza produttiva nella natura, nell’individuo e nella società». Tutta la realtà si riduce a una scena teatrale sulla quale, nonostante le apparenze e le dissimulazioni, recita un unico e solitario attore: la volontà di potenza. Un nudo istinto di dominio non sublimato. Tutto il resto – ogni sapere, ogni discorso, ogni regola – è finzione e invenzione di questo potere. L’umanesimo, la giustizia, l’uguaglianza sono ostacoli di cui sbarazzarsi per liberare il «desiderio del potere». E’ una strada però che conduce Foucault pericolosamente vicino al disprezzo che Nietzsche nutriva per le teorie universalistiche, soprattutto per la “follia plebea” del socialismo. Certo, per Foucault la volontà di potenza ottiene «il carisma della ribellione in quanto tale». Il “basso” che Foucault contrappone alle ideologie universalistiche è una costruzione nella quale confluiscono «miti dell’immediatezza di “destra” e di “sinistra”», una combinazione di «vigore fisico, forza, energia», un «intreccio di corpi, passioni e di casi». «Foucault segue lo schema nietzscheano che smaschera nell’ideologia il cielo di valori del preteso universalismo e umanismo solo come una forma di potere occulto». Ma ignora che la violenza, la guerra, l’istinto di dominio che «fa entrare in scena come una sorta di affascinante antiideologia» sono in realtà essi stessi una potente ideologia. E sottovaluta, forse, che a quel cielo di valori delle ideologie universalistiche sono legate anche le aspirazioni delle classi subalterne che «bisognerebbe estrarre da esse e mettere in pratica». Un giudizio severo quello di Rehmann. O forse no.
Tonino Bucci

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Rosalinda Renda, Critica Marxista, 1, 2009


Il libro di Jan Rehmann – I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault
e il postmodernismo: una decostruzione
, a cura di S. Azzarà,Roma, Odradek, 2009, pp. 235 – si colloca nel solco della critica marxista dell’ideologia e della lotta teorica contro l’egemonia culturale borghese. Rehmann pone in atto la sua strategia decostruttiva della Nietzsche-Renaissance, confrontandosi con quanto di meglio la riflessione filosofica ha prodotto sull’argomento negli ultimi quarant’anni. Oggetto della sua critica è il nietzscheanesimo di sinistra, affermatosi
nel corso degli anni Sessanta e Settanta, soprattutto a opera dei suoi più autorevoli maitres à penser: G. Deleuze e M. Foucault.
Entrambi vengono inquadrati dall’autore nella più ampia costellazione del postmodernismo, inteso nell’accezione datane da J. F. Lyotard nel 1979, secondo il quale la fine della Modernità segna l’eclisse della soggettività autonoma, la crisi della teleologia storica, il tramonto irreversibile delle metanarrazioni quali il marxismo e la psicoanalisi.
In questa prospettiva l’intera modernità, secondo Rehmann, è ridotta a un unico blocco, privo di differenziazioni e opposizioni interne, che occulta ad esempio i caratteri emancipatori della ragione illuministica riducendoli alla dimensione unilaterale della ragione borghese. Il modello con il quale viene liquidata la dialettica dell’Illuminismo è desunto dalla
critica della modernità di Nietzsche.
Tale operazione risale al testo di Deleuze Nietzsche e la filosofia del 1962 che, per Rehmann, è fondamentalmente «una resa dei conti con la dialettica» (p. 37) di origine hegeliana. Il principio teorico del negativo, che nella dialettica appare come opposizione e contraddizione, sarebbe in realtà una falsa differenza, uno strumento del positivo che alla fine si affermerebbe quale ricomposizione della scissione dell’identità originaria.
A tale presunto esito monolitico della ragione dialettica, Deleuze
contrappone il pluralismo delle forze e la differenziazione dei valori derivanti dalla volontà (di potenza) che intende affermarsi come differenza, secondo la sua interpretazione del pensiero di
Nietzsche. Il criterio della differenziazione delle forze (la loro quantità e la loro qualità) è dato dalle coppie oppositive alto e basso, nobile e vile, attivo e reattivo. Questo «essenziale pluralismo» è, per Deleuze, «l’unico garante della libertà dello spirito concreto» (p. 37) diametralmente opposto al totalitarismo della dialettica.
Contro questa lettura di Nietzsche in chiave ribellistica e libertaria,
Rehmann solleva essenzialmente due rilievi critici: 1) la riduzione della dialettica alla sola dialettica hegeliana, trascurando, in tal modo, l’apporto marxiano, nei termini del suo rovesciamento materialistico. La dialettica di Marx non contempla alcuna identità originaria da ricostituire, ma si radica, all’opposto, nell’auto-dissociazione del mondo storico-concreto col fine del suo superamento rivoluzionario; 2) la rimozione, da
parte di Deleuze, dell’origine della morale e della differenza dei valori che Nietzsche individua chiaramente in quel «pathos della distanza», che sta a fondamento del dominio di classe dell’aristocrazia antica sulla massa degli schiavi. Deleuze trasforma in forze attive e forze reattive le coppie nobile-ignobile, alto-basso, che in Nietzsche esprimono, rispettivamente,
il carattere affermativo dei forti e il carattere negativo dei deboli che
sarebbe ispirato dal ressentiment e dallo spirito di vendetta. È paradossale, afferma Rehmann, che i termini differenza e pluralità, destinati ad ottenere grande successo presso buona parte dell’intellettualità post-sessantottesca, siano stati tratti «dal progetto di
dominio esplicitamente antidemocratico di Nietzsche» (p. 54).
L’occultamento del lato sgradevole di Nietzsche e la deformazione del suo pensiero, per piegarlo alla propria costruzione teorica, caratterizzano anche l’interpretazione di Foucault dalle opere degli anni Sessanta fino ai Corsi al College de France degli anni Settanta. Per Rehmann, lo scopo precipuo di Foucault era quello di accattivarsi le simpatie del movimento
postsessantottino, legando il pensiero nietzscheano alle tematiche allora in voga, ad esempio sottolineando come Nietzsche derivi la sfera morale da ciò che è basso, legato al corpo, quotidiano. Come in Deleuze, l’opera di stravolgimento del pensiero nietzscheano si fonda su delle omissioni: ad esempio Foucault tace completamente sulla circostanza che la critica anti-ideologica e anti-metafisica del Nietzsche della fase illuminista subisca, dopo lo Zarathustra, una «spinta alla verticalizzazione gerarchica» che promuove il dominio in maniera radicale (pp.138-141).
Sulla base di queste premesse Foucault sviluppa negli anni Settanta la sua teoria del sapere-potere, derivante dal prospettivismo nietzscheano, volta alla demolizione della critica dell’ideologia di matrice marxiana.
Rehmann dedica quasi metà del suo lavoro alla confutazione di
questa operazione. È la parte più complessa e stimolante del libro, sia per la critica dettagliata e puntuale dei testi, sia perché, nel fornire nuovi spunti interpretativi all’analisi del postmoderno, riempie un vuoto e un ritardo della critica marxista. A parere di Rehmann, le categorie formazioni discorsive, potere reticolare, dispositivi disciplinari sono ideate da Foucault senza riferimento alla struttura sociale, per cui gli
stessi mutamenti e l’evoluzione storica delle forme di potere non
trovano alcuna plausibile spiegazione. Il nietzscheanesimo di Foucault
consiste principalmente, per Rehmann, «nella sostituzione della critica dell’ideologia» basata sul materialismo storico «con una critica finzionalistica della verità», fondata sul prospettivismo nietzscheano, e «nella costruzione di un concetto di potere» (p. 116) posto come fondamento ontologico dei rapporti sociali.

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«Non mancherà di suscitare reazioni questo testo di Rehmann, una polemica ma circostanziata ricostruzione della ricezione di Nietzsche da parte di Deleuze e Foucault. La tesi del libro è ben esplicitata nell'introduzione: secondo l'autore, tale ricezione si è concretata in una "contraddittoria estetizzazione della vita politica" (p. 20) che ha accompagnato una deleteria modificazione del paradigma politico, spostando l'accento dal concetto di "trasformazione" a quello di "sovversione" (p. 21)»

Così inizia una recensione di Marco Maurizi su Amnesiavivace

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Recensione di Antonio Ramirez su Yoricklibri

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DIMENTICARE MARX PER AFFERMARE LA VOLONTA' DI POTENZA

di Vladimiro Giacché, il manifesto, 26 aprile, p. 14

Chiunque abbia compiuto gli studi di filosofia nei primi anni Ottanta e si sia rivolto al pensiero di Nietzsche si è dovuto confrontare con Nietzsche e la filosofia di Gilles Deleuze. Uscito in Francia nel 1962, questo testo allora circolava in una traduzione di Salvatore Tassinari (Firenze, Colportage, 1978). Chi scrive la cercò a lungo prima di poterla leggere. E di rimanerne assai deluso. Per un motivo semplice: la lettura proposta da Deleuze era molto lontana dal senso dei testi di Nietzsche, che già si potevano studiare nell’edizione critica a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montanari (non era così nella Francia del 1962 - e infatti Deleuze citava a piene mani da “La volontà di potenza”, una raccolta molto opinabile di frammenti postumi curata dalla tremenda sorella di Nietzsche). Lontana dal senso profondo di questi testi, e anche da quello superficiale. Che dire, ad esempio, dell’incipit del volume, che ravvisa il “progetto di Nietzsche” nell’“introdurre in filosofia i concetti di senso e di valore”, facendo di Nietzsche un Max Scheler qualsiasi? O dell’affermazione per la quale “la lezione dell’eterno ritorno sta in questo, che non c’è ritorno del negativo”?
Nonostante la libertà ed arbitrarietà della sua interpretazione, anzi proprio per questo, il testo di Deleuze conobbe un enorme successo, e influenzò profondamente anche la lettura foucaultiana del pensiero del filosofo tedesco. Correttamente, quindi, Jan Rehmann sceglie di affrontare congiuntamente queste due interpretazioni del pensiero di Nietzsche. Ma l’obiettivo del suo testo è in realtà più ampio, e prende di mira l’utilizzo (anche) del pensiero nietzscheano per liquidare il marxismo. Operazione realizzatasi con pieno successo anche da noi negli anni Settanta e Ottanta (lo mostra la bella introduzione di Stefano Azzarà al volume). Grazie, appunto, anche a Deleuze e Foucault.
Deleuze contrappone alla metafisica della negazione e della contraddizione (di stampo hegeliano e marxista) una metafisica delle “differenze”, valorizzando il Nietzsche pluralista e prospettivista. E crea una continuità Spinoza-Nietzsche che conoscerà enorme fortuna nei decenni successivi. Per quanto riguarda il primo aspetto Rehmann obietta, tra l’altro, che la contrapposizione di Deleuze trascura l’elemento dialettico presente nello stesso Nietzsche. Per quanto riguarda il rapporto con Spinoza, Rehmann mostra come l’identificazione del concetto di “potenza” nei due pensatori (che Deleuze traduce nella sua filosofia nel concetto di “desiderio”) trascuri la decisiva modificazione semantica subita dalla nozione spinoziana di “potentia agendi”: essa giunge infatti a Nietzsche mediata dalla traduzione contenuta nella Storia della filosofia moderna di Kuno Fischer (“Macht”) il che dà al termine una curvatura assai più inquietante di quella originaria (il termine tedesco significa infatti potenza, ma anche potere e violenza). Le pagine dedicate al concetto di potenza sono tra le migliori del libro, assieme alla confutazione della presunta contrapposizione di “provenienza” e “origine” che Foucault vede in Nietzsche.
Quanto a Foucault, il concetto pluralistico di “potere” – ereditato dalla lettura deleuziana di Nietzsche – è notoriamente un tassello fondamentale del preteso superamento della teoria “totalitaria” del marxismo (e della psicoanalisi). Rehmann analizza l’intero percorso intellettuale di Foucault e osserva che in realtà Foucault fa uso di una categoria astratta e onnicomprensiva di potere, tale da configurare una vera e propria “metafisica del potere” (Breuer): un potere inteso insomma come una misteriosa entità che starebbe “dietro” tutti i rapporti sociali, come un piano ontologico più profondo. In tal modo, “la pretesa legittima di ampliare l’analisi del potere al di là del paradigma dell’appropriazione si rovescia in un essenzialismo mediante il quale il potere viene posizionato dietro i rapporti sociali”.
Come è noto, la persuasività della teoria foucaultiana doveva molto al “socialismo reale” dell’Urss, dimostrazione vivente (anzi morente) della non riconducibilità dei rapporti di potere ai rapporti tra le classi. L’odierna crisi del capitalismo reale mondializzato può forse aiutarci a ripensare criticamente la metafisica del potere foucaultiana. E a sostituirla con strumenti analitici e teorici più attenti all’importanza dello specifico potere localizzato nei rapporti di produzione e di sfruttamento. E alle sue insanabili contraddizioni.

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Muntzer il Sopravvissuto su Politicainrete

L’autore di questo scritto, Jan Rehmann, insegna Teoria sociale alla Union Theological Seminary di New York e Filosofia alla Libera Università di Berlino, e come la stragrande maggioranza degli studiosi seri è conosciuto in un circolo di specialisti del settore. I Nietzschiani di sinistra tuttavia si presta ad una lettura in grado di coinvolgere anche il grande pubblico, sia per lo stile preciso e sintetico, sia per l’importanza’sociale’ oltre che accademica, del contenuto del suo lavoro.
Il sottotitolo, “Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione”, sembrerebbe indicare un ambito di ricerca estraneo alle preoccupazioni quotidiane gravanti su ognuno di noi, ma non è così: la tendenza postmoderna a non focalizzare seriamente sui fattori determinanti la nostra esistenza non elimina la loro influenza ma anzi la rende ancora più invadente. Rehmann, partendo da una analisi certamente filosofica, richiama ad una interrogazione che interessa l’intera società nei suoi processi più profondi.
Stefano G. Azzarà, studioso serio e traduttore dell’edizione italiana, presenta il libro in una stimolante introduzione cogliendo in maniera puntuale proprio questo aspetto. L’uso fatto da Nietzsche in Italia, specialmente dopo il ’68, non può essere meramente risolto nelle mura di un dibattito universitario fra eruditi, perché ha creato delle ripercussioni nella società civile di cui a tutt’oggi si pagano gli effetti. Persino chi non ha letto Nietzsche, o l’ha fatto senza approfondire, ne ha subito il fascino indiscusso, trasformandolo in una icona politica del ribellismo di sinistra.
Ma la lettura di Nietzsche consente veramente la sua elevazione a simbolo della sinistra rivoluzionaria? Il fallimento, o per lo meno il forte ridimensionamento dei risultati ottenuti dal movimento sessantottino, spinge a chiedersi se questa debacle fosse già implicita anche e soprattutto nell’uso inappropriato del pensiero del filosofo tedesco.
Ciò che evidenzia Azzarà, e naturalmente Rehmann nell’intero suo studio, è indiscutibilmente l’aspetto reazionario di un pensiero postmoderno disinteressato alla analisi rigorosa e dialettica della società. “E’ possibile ricostruire una teoria filosofica e politica di sinistra a partire da Nietzsche?”
La risposta dell’autore evidenzia due aspetti fondamentali: il ribellismo di sinistra e il tentativo di andare oltre il marxismo per approdare ad una filosofia della differenza non produce nessuna liberazione, ma anzi crea un indistinto magma di forze tutte allo stesso livello, quindi solidali con il potere costituito; il confronto diretto delle opere di Nietzsche e dei migliori strumenti critici offerti dagli studiosi del pensiero nietzschiano (come Losurdo), dimostra che la sconfitta era prevedibile perché l’arbitrarietà dei pensatori francesi, così ambigua e sommaria, esprime una debolezza i cui effetti inevitabilmente vanno a minare le basi su cui fondare una teoria del cambiamento sociale.
Il pensiero di Nietzsche, sottoposto alla seria critica filologica, avvalora indiscutibilmente una volontà aristocratica il cui odio per il socialismo, le masse, la democrazia non trova eguali nella storia del pensiero reazionario.
Come possiamo notare, l’uso politico di Nietzsche, seppure a sinistra e tralasciando per un attimo la legittimità di una scorretta esegesi, conserva inevitabilmente i batteri dell’aristocratismo e veicola qualsiasi rivolta – seppur in buona fede – ad un epilogo dai tristi contorni.
Nel suo bel libro Rehmann offre al lettore la possibilità di interrogarsi su ciò che Nietzsche abbia realmente voluto dire, e sulla operazione di travisamento – voluta e cercata – compiuta da Deleuze e specialmente da Foucault.

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Su Dialettica e Filosofia una recensione di G. Carluccio

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Dentro “I nietzscheani di sinistra” di Andrea Comincini
“Rehmann mostra come questi discorsi [dei filosofi della Gauche] siano ben poco fondati in una lettura rigorosa dei testi nietzschiani e soprattutto, lungi dal costruire il presupposto per un rinnovamento della critica del dominio e della società capitalistica, siano del tutto solidali con l’offensiva ideologica neoliberale e le sue concrete pratiche di sottomissione politica e sociale”.
Siffatte parole esprimono perfettamente l’obiettivo dell’autore, ovvero smascherare l’aspetto conservatore e fondamentalmente disimpegnato della cultura postmoderna di ispirazione nietzschiana. Ma quali sono, secondo Rehmann, i capisaldi di un tale fraintendimento? Dove si annida il ‘misunderstanding’?
I concetti ‘pathos della distanza’ e di ‘differenza’ – ereditati da una rilettura della volontà di potenza e dalla distanza schiavo-padrone in Nietzsche - evidenziano palesemente questa confusione. Lungi da essere strumenti di liberazione ed emancipazione, essi si riducono a metafora di espressioni nietzschiane la cui valenza è contraria a qualsiasi obiettivo democratico.
La differenziazione si riduce ad una inutile presa d’atto dell’esistente, e nega il valore di ogni negazione determinata, dialettica, in un contesto emancipatorio dai connotati storici. Un altro grande torto che si compie infatti nell’ambito delle filosofie sottoposte qui a giudizio è la banalizzazione della storia e delle istanze in essa presenti.
D’altra parte, osserva ironicamente Rehmann, è da questi filosofi esplicitamente dichiarata la volontà di trasformare, manipolare, “usare” Nietzsche a seconda delle esigenze, che sembrano in definitiva rivolte alla distruzione della dialettica ed al superamento del marxismo.
La prima parte del libro è dedicata a Deleuze, ed è notevole non soltanto la padronanza degli argomenti dell’autore ma anche la perfetta disposizione stilistica dei contenuti, mentre la seconda, su Foucault, è più articolata ma ugualmente imponente per l’acutezza dell’analisi e delle prove a sostegno. Tale frammentarietà non è da considerarsi un difetto ma la conseguenza della intera analisi del pensiero foucaultiano, certamente complesso e flessibile.
I nietzschiani di sinistra propone in definitiva una analisi intelligente e pertinente di una tendenza filosofica la cui importanza va oltre il semplice ambito accademico perché, come su descritto, è arrivata a influenzare persino gli striscioni degli studenti universitari in rivolta. Rehmann ed il suo lavoro meritano una attenzione particolare per la vivacità della prosa, la pertinenza delle risposte ed infine va ringraziato per la cura dell’impianto bibliografico da cui si può partire per una ricerca autonoma delle fonti e degli argomenti citati.
La fine delle grandi narrazioni, il superamento della metafisica verso un futuro dalle magnifiche sorti proclamato con enfasi negli anni passati – osserva Rehmann – non ha lasciato altro che macerie: un fallimento dovuto alla mancanza di approfondimento, di attenzione filologica, di narcisismo intellettuale dal quale questo libro ed il suo autore sono indiscutibilmente emendati.

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Nella scheda relativa a questo libro su Anobii, compare, firmata con un nickname - Ut - una recensione molto dissonante che riportiamo, convinti che la miglior pubblicità è quella comparativa. Proviene dal demi-monde postmodernista al quale non piace che la ricreazione sia finita, e che reagisce "buttandola in caciara", come si dice a Roma, dando di gomito e chiamando a raccolta le plebi acculturate, per difendere i livelli di semplicità tanto facilmente raggiunti.

Nascita del comico-filosofico
"... D'altra parte si era alla ricerca di altre vie intellettuali proprio per giungere là dove sembrava prendesse corpo, o esistesse già, qualcosa di totalmente "altro": e cioè il comunismo. E' stato così che senza conoscere bene Marx, rifiutando l'hegelismo, provando disagio per i limiti dell'esist ... (prosegui)
"... D'altra parte si era alla ricerca di altre vie intellettuali proprio per giungere là dove sembrava prendesse corpo, o esistesse già, qualcosa di totalmente "altro": e cioè il comunismo. E' stato così che senza conoscere bene Marx, rifiutando l'hegelismo, provando disagio per i limiti dell'esistenzialismo, io decisi di aderire al Partito Comunista Francese. Si era nel 1950: essere, allora, "comunista nietzscheano"! Una cosa davvero al limite della "vivibilità"! E, se vogliamo, anch'io lo sapevo che era un pochino ridicolo, forse." (Michel Foucault da "Colloqui con Foucault")
Se Nietzsche scrisse "Nascita della tragedia", allora Jan Rehmann si sarà detto: anch'io voglio scrivere qualcosa (magari un libro) che duri nel tempo. Scriverò "Nascita della comicità". Sottotitolo, burlesco non di meno, "I nietzscheani di sinistra". E nella copertina del libro cosa inseriamo, giusto per allietare i lettori? Ma il Barone di Muenchausen, per rendere ancor più manifesto il target giullaresco-teutonico del libro. E allora iniziamo la lettura e già in prima pagina dell' Introduzione di Rehmann, arriva la prima battuta del genere comico-filosofico (che ha, tra l'altro, nel Candide di Voltaire il suo antesignano monumento definitivo):
"Nel 1973 Deleuze riassume così, nel suo saggio sul "pensiero nomade", gli esiti della propria riflessione sulla rivalutazione di Nietzsche: Marx e Freud hanno rappresentato il sorgere della civiltà burocratica moderna; il loro progetto era quello di una ricodificazione dello Stato in Marx, della famiglia in Freud. Nietzsche costituisce invece l'irruzione della controcultura. Egli fa del pensiero una forza nomade, "una macchina da guerra" contro la macchina razionale e amministrativa i cui filosofi parlano in nome della ragion pura. Il Nietzsche di Deleuze si rivolge in questo modo direttamente ai rivoluzionari dei nostri giorni: abbiamo bisogno di una "macchina da guerra" che non produca un nuovo apparato statale (Rehmann sta citando da "Pensiero Nomade" di Deleuze del 1973). In quale altro luogo i lettori degli anni Settanta avrebbero potuto collocare queste macchine da guerra nomadi se non nell'orizzonte delle Brigate Rosse italiane o della RAF tedesco-occidentale?".
Tradotto: L'interpretazione data da Deleuze di Nietzsche è totalmente errata. Nietzsche è, e tale deve rimanere, un pensatore conservatore proto-nazista. Deleuze è un padrino, o perlomeno un ispiratore del terrorismo degli anni settanta. Anzi giustifica aprioristicamente una eventuale futura scelta giovanile di chi, desideroso in costruire una macchina da guerra anti-borghese, utilizza metodi violenti, vessatori e criminali. Insomma Nietzsche è responsabile finale di Auschwitz e Deleuze delle Brigate Rosse. Risata generale, applausi... (e siamo solo alla prima pagina!!)
(nota bene): Quella di Rehmann è la miglior battuta filosofica del 2009, anche se non supererà mai in bonhomie quella di Giuliano Ferrara (Festival di Filosofia di Roma anno 2007, dibattito con Flores d'Arcais) su Costantino (l'imperatore romano) padre della democrazia moderna. In Italia non ci risparmiamo mai nulla - almeno in termini comici - dal Cyber-nano a Ferrara, ma anche questo Rehmann, è un vero fuoriclasse !!
NNB: ho osato proseguire nella lettura del pamphlet caustico del nostro e già alla pagina seconda Rehmann sfodera un uppercut micidiale, rispolverando un classico dell'umorismo filosofico del 1980, quando Habermas definì i nietzscheani di sinistra, da Bataille a Deleuze, da Foucault a Derrida, i "giovani conservatori" ! (...) Poi non pago, il nostro umorista, citando Heiner-Muller, afferma papale papale che se Lenin è il Moderno del socialismo reale, Stalin ne è il Post-Moderno (...) Di nuovo risate a crepapelle, cori da "Santo subito!!", allegria irrefrenabile... E pensare che la filosofia contendeva all'economia l' epiteto di "scienza triste"!!
Ultima domanda: ma alla fine di questa clownerie accademica, troveremo la musichetta-pa-pa-rappa-pa-pa-ra, il Woodpecker ilare e la scritta: "That's all, folks!!"?? Ut

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domenica 28 giugno, ore 20:00
a Roma si libra, piazza del Popolo
con Claudio Del Bello, Stefano Azzarà, Roberto Finelli, Jamila Mascat

A Rehmann che ci chiedeva notizie della presentazione di piazza del Popolo, abbiamo così risposto:

La presentazione è durata più di due ore, il parterre era gremito e una trentina di persone sostavano fuori, in piedi: per lo più fumatori. I relatori sono stati molto bravi, anche la giovanissima Jamila
Mascat. C'erano molti studenti e dottorandi di filosofia, e la circostanza è molto significativa. Un indirizzo di pensiero riduttivo, semplificatorio ed omissivo finisce per esibire la propria inconsistenza e per respingere gli studiosi in formazione - o anche, i topi abbandonano la nave quando questa sta per affondare.
Il caso ha voluto che un fiero contraddittore fosse di livello molto basso. Il che ha permesso ai relatori, nelle risposte, di essere ostensivi - guardate, signori, i guasti del pensiero unico! - e didascalici. Alla domanda perché Rehmann se la fosse presa con due autori defunti - che, tra l'altro, uno defunto non era quando il libro è stato elaborato - hanno risposto i relatori, suscitando generale ilarità.
Alla domanda perché Odradek ha pubblicato questo libro, ho risposto che Odradek è come l'uccello di Minerva: si alza in volo al tramonto... D'altra parte, instant book filosofici è merce filosofica altamente deperibile - come si vede - , e non la trattiamo.

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Lunedì 19 gennaio 2009 è stato presentato a Roma

alla libreria Odradek.

Con Jan Rehmann, e con il curatore Stefano G. Azzarà, sono intervenuti Augusto Illuminati, Domenico Losurdo e Elio Matassi

Augusto Illuminati, Elio Matassi, Stefano G. Azzarà, Jan Rehmann e Domenico Losurdo

 

Jan Rehmann

Lunedi, 19 gennaio 2009, Jan Rehmann ha presentato il suo libro I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione nella libreria di Odradek di Roma. Sollecitato dagli interventi di Stefano Azzara', Augusto Illuminati, Domenico Losurdo e Elio Matassi, Rehmann ha investigato la chiave ermeneutica stessa secondo la quale Gilles Deleuze e Michel Foucault hanno letto gli scritti di Nietzsche, e come la loro accettazione acritica dei concetti di Nietzsche ha pregiudicato le teorie postmoderne stesse. Hanno creato una retorica ultra-radicale nel momento stesso in cui diluivano i fondamenti analitici della critica del dominio di classe e di Stato.

Nel caso di Deleuze si può parlare di un “ermeneutica dell'innocenza” (Losurdo) che equipara il concetto di potenza in Nietzsche e in Spinoza. Se Deleuze trasforma Nietzsche con successo in un eroe della cultura alternativa, ciò accade perchè lo ha surrettiziamente camuffato da Spinoza. Nel caso di Foucault, Rehmann ha dimostrato che la sua legittima pretesa di ampliare l’analisi del potere al di là del paradigma dello sfruttamento e dell’oppressione repressiva statale si rovescia in un essenzialismo mediante il quale il potere viene posizionato dietro i rapporti sociali. Il potere foucaultiano e il suo legame con il sapere sono derivati direttamente del tardo Nietzsche per cui il concetto di potere di Foucault produce l’effetto di escludere i rapporti reali di potere.

Ci sono almeno due ragioni per cui il postmodernismo neo-nietzscheano ha comportato un regresso analitico rispetto alle teorie marxiste dell’ideologia e dell’egemonia: per il rifiuto tipico di scomporre il materiale discorsivo e ideologico rispetto alle contraddizioni sociali che sono contenute in esso e per la tendenza culturalista a limitarsi ai testi e ai discorsi a partire dai quali si volgono a dematerializzare la vita sociale. Una critica marxista deve allora impegnarsi a re-integrare le intuizioni produttive del postmodernismo nel quadro di una teoria rinnovata dell’egemonia e dell’ideologia.

 

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Sommario


Prefazione
L’immagine di Nietzsche in Italia: dopo il Sessantotto
di Stefano G. Azzarà
Introduzione
di Jan Rehmann

Parte prima
Deleuze e la costruzione di un’immagine di Nietzsche pluralista
e differenzialista
1. Differenze plurali al posto delle opposizioni dialettiche
2. Nietzsche antidialettico?
3. La nascita della «differenza» postmodernista dal «pathos della distanza»
4. Il dibattito sulla «volontà di potenza»: pluralismo o metafisica?
5. La combinazione nietzscheana di decentramento e gerarchizzazione
6. Spinoza e Nietzsche: lo scambio tra capacità di agire (Handlungsmacht)
e potere/dominio (Herrschaftsmacht)
7. «Fare del pensiero una macchina da guerra»

Parte seconda
La morte dell’uomo e l’eterno ritorno
1. Ricognizione: ripetizione postmodernista, critica normativa,
impotenza della sinistra
2. L’«epoca della storia» e il «sonno antropologico»
3. Il debito con la critica heideggeriana dell’umanismo
4. La costruzione riduzionistica di un’epoca «antropologica»
5. Il superamento dell’utopia marxiana mediante il superuomo
6. L’eterno ritorno come religione
7. La lettura postmodernista di Nietzsche come ripetizione devota


Parte terza
L’introduzione di un concetto di potere neonietzscheano
e le sue conseguenze
1. Nuove coordinate
2. Ricognizione: il superamento della critica dell’ideologia mediante
la «molteplicità» e la «produttività» del potere
3. Il dissolvimento dell’ideologia nel «sapere»
4. L’alternativa neonietzscheana: «tutto è messa in scena»
5. Il potere come macchina di rimozione
6. La «genealogia» di Nietzsche, ovvero: la costruzione forzata
di un Nietzsche alternativo
6.1. “Origine” versus “provenienza” in Nietzsche?
6.2. Punti di appoggio dell’interpretazione di Foucault nel Nietzsche
della fase “mediana”
6.3. La spinta di verticalizzazione di Nietzsche e la sua rimozione in Foucault
7. I legami con il radicalismo di sinistra parigino
8. La misteriosa questione del potere e il suo radicamento nella guerra
9. Il dissolvimento delle relazioni strutturali di potere

Parte quarta
Dalla prigione all’anima moderna. Sorvegliare e punire rivisitato
1. Un (troppo) fugace incontro con la «teoria critica»
2. L’approccio storico-sociale di Georg Rusche e Otto Kirchheimer
3. Sviluppo di una storia sociale del sistema penale o rinuncia?
3.1. Dalla funzione agli aspetti del funzionamento
3.2. Un ordinamento teorico neonietzscheano
3.3. L’astrazione dal lavoro forzato
3.4. Una genealogia della prigione riduttiva
3.5. Un procedimento che elimina le contraddizioni
3.6. Una critica rivolta alla riforma pedagogica e sociale del sistema penale
3.7. Una nuova «economia politica del corpo»?
4. L’embrione panoptico della società disciplinare
4.1. Il Panopticon come diagramma dell’egemonia moderna
4.2. L’appianamento della differenza tra socializzazione forzata
e socializzazione consensuale
4.3. L’immaginario reale del panopticon
4.4. «L’economia deve essere la considerazione prevalente» (Bentham)
4.5. Bentham come precursore del «complesso carcerario industriale»
5. Il potere disciplinare nel doppio legame tra «microfisica» molteplice
e onnipresente «essenza fagocitante» (Poulantzas)
5.1. La contraddizione nascosta
5.2. La molteplicità del potere e la sua accumulazione
5.3. «I limiti del disciplinamento sociale» (Peukert)
5.4. L’allontanamento della «topica» dalla teoria della società (Althusser)
6. La metaforizzazione della prigione e il «complesso carcerario industriale»


Sigle delle opere citate più frequentemente
Bibliografia


Appendice
Al posto della critica dell’ideologia
Le lezioni di Michel Foucault sulla «Storia della governamentalità»


Indice dei nomi
Indice degli argomenti

 

Jan Rehmann (Altenmarkt, 1953) insegna Teoria sociale all'Union Theological Seminary di New York e Filosofia alla Freie Universitaet di Berlino. È redattore dello "Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus" (HKWM) e della rivista Das Argument. Ha appena pubblicato Einführung in die Ideologietheorie. Tra le sue precedenti opere ricordiamo Max Weber: Modernisierung als passive Revolution, 1998; Die Kirchen im NS-Staat, 1986 e, insieme ad altri, Faschismus und Ideologie,1980, e Theorien über Ideologie, 1979.
Stefano G. Azzarà (Messina, 1970) è ricercatore di Storia della filosofia all'Università di Urbino. Il suo lavoro si concentra sul confronto tra le grandi tradizioni filosofico-politiche dell'età contemporanea: conservatorismo, liberalismo, materialismo storico.Tra le altre cose ha scritto Pensare la rivoluzione conservatrice. Critica della democrazia e grande politica nella repubblica di Weimar (2a ed. 2004). Sta per pubblicare un libro sulla ricezione italiana di Friedrich Nietzsche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
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