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MARCO CLEMENTI
STORIA DEL
DISSENSO SOVIETICO

 

pp. 320 € 22,00

 

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quarta di copertina

È la storia dell’incomponibilità del rapporto tra intellettuali e potere in Urss. La ricerca ricostruisce i principali punti di conflitto tra Stato e letteratura in generale e tra realtà politica del socialismo reale e intelligencija in particolare, sulla base di una notevole mole di documenti. La nuova società sovietica postrivoluzionaria aveva fortemente sedotto la grande maggioranza degli intellettuali, in quanto apriva strade inesplorate per l’ingegno; anzi, la rivoluzione bolscevica fu vista come palingenesi sociale anche e soprattutto dagli artisti e dagli intellettuali. Quando, alla morte di Stalin, questi pensarono potesse avere inizio un processo di liberalizzazione, si trovarono davanti l’inerzia e l’ottusità burocratica. Lo schema politico a “partito unico” che aveva permesso la trasformazione della Russia contadina in una potenza industriale al prezzo di un lungo periodo di repressioni, che aveva retto e vinto la guerra per la sopravvivenza della “patria socialista” assediata, diventa – in tempi di pace, sia pure sotto forma di “guerra fredda” – un freno insopportabile per una società ormai molto articolata e complessa.
La contrapposizione tra il dissenso da una parte, e lo Stato e il Partito dall’altra, durò a lungo fino al collasso di questi ultimi; il dissenso, separato dalla società civile, proveniente e alimentato dall’irrisolto etnico, attraversato anche da frammenti anarchici e marxisti, non è tuttavia riuscito a informare di sé la società postsovietica.
Partendo dall’eredità di Anna Achmatova e di Boris Pasternak, raccolta da Iosif Brodskij e Andrej Sinjavskij, il libro ripercorre lo sviluppo delle idee di libera creazione e coscienza attraverso gli uomini e le donne che maggiormente riuscirono a interpretarle, da Esenin-Vol’pin a Tverdochlebov, da Daniel’ a Gorbanevskaja, da Ginzburg passando per Amal’rik fino a giungere alle icone del dissenso, Sacharov e Solzenicyn.


Dall’Introduzione:
«Il meccanismo che creava l’incompatibilità tra intellettuali e potere in Urss (e in seguito nelle democrazie popolari) sarebbe stato spiegato con precisione dal poeta Iosif Brodskij nel corso della sua lezione per l’accettazione del premio Nobel per la letteratura nel 1987. Si tratta di un discorso esemplare che riassume i principali punti di attrito tra Stato e letteratura in generale e tra realtà politica del socialismo reale e creazione letteraria in particolare e per questo non sarà inutile citarne alcuni brani. Di fronte agli accademici svedesi, dopo il ricordo di altri poeti mai premiati verso i quali si sentiva in debito, Brodskij affermò che se l’arte insegnava qualcosa, ciò doveva essere nella dimensione privata della condizione umana in quanto solo l’arte era in grado di stimolare nell’uomo il senso della sua unicità trasformandolo «da animale sociale in un Io autonomo». Per questo motivo nei regimi totalitari l’arte in generale, la letteratura in particolare, dovevano essere necessariamente imbrigliate all’interno di rigidi schemi ideologici; al contrario, il regime avrebbe perduto il controllo del suo ulteriore sviluppo e non avrebbe potuto agire come il padrino degli ingegneri di anime.»

 

E non importa che un corvo incida sul marmo del mio corpo una croce.

Con questo titolo è uscita un'articolata recensione di Marco Maurizi su Amnesiavivace.

 

Corriere della Sera, 10 marzo 2008, pagina 35

Quarant' anni fa il «Trattato» di Sakharov
E intanto a Mosca si svegliava il dissenso

Ci fu Sessantotto anche in Urss, dove quell' anno segnò un salto di qualità del movimento dissidente, «che proprio allora prese coscienza delle proprie potenzialità». Lo scrive Marco Clementi nella sua Storia del dissenso sovietico (Odradek, pp. 318, 22), notando che la scelta dell' Onu di dedicare il 1968 ai diritti umani incoraggiò gli oppositori del regime. Nacque il periodico clandestino «Cronaca degli avvenimenti correnti» e ci fu una manifestazione sulla Piazza Rossa contro l' invasione della Cecoslovacchia. Intanto veniva stampato il Trattato di Andrej Sakharov, suo primo scritto di taglio politico, e moriva Aleksej Kosterin, figura oggi dimenticata che fu uno degli antesignani del dissenso.



 

18 LUGLIO 2007- IL MANIFESTO
Coscienze critiche ai margini dell'Urss
Analisi di un fenomeno poco indagato, la «Storia del dissenso sovietico» di Marco Clementi getta luce sulla opaca Russia di oggi
ASTRIT DAKLI


Dissolta da oltre quindici anni l'Unione sovietica e con essa il settantennale regime «comunista», un destino assai diverso pare essere toccato ai suoi due avversari. Mentre il nemico esterno, la superpotenza americana, si è avviata a un dominio del mondo apparentemente incontrastato (o contrastato da nemici nuovi e del tutto estranei a quel che erano l'Urss e il Pcus), sembra invece finito tra i capitoli rimossi della storia il fenomeno politico, culturale e sociale che per decenni era stato il contraltare della superpotenza «rossa» sul piano interno: il «dissenso», che il recente, documentatissimo libro di Marco Clementi (Storia del dissenso sovietico. 1953 -1991, Odradek, pp. 302, euro 22) racconta tracciando una mappa delle numerose frange e tendenze (a volte persino individuali) in cui quel fenomeno si è articolato fra il 1953 e il 1991 - cioè nei complicati anni in cui il regime cercò di sopravvivere alla morte di Stalin.
Questa diversità di destini conferma purtroppo tutti i più ovvii luoghi comuni sul rapporto tra forza bruta e forza morale: la competizione con missili, soldati e aggressività ha premiato i più forti, mentre la non violenza, la dirittura morale, l'esporsi in prima persona in nome della libertà, con le sole armi del pensiero e delle lettere, non hanno alla fine permesso di vincere sull'arroganza del potere nemmeno nel momento in cui questo pareva in ginocchio.
Nessuno degli uomini e delle donne che hanno rappresentato il dissenso sovietico è giunto, dopo il crollo del regime che avevano contrastato, a occupare posizioni di governo o comunque di potere - non conta evidentemente da questo punto di vista la carriera di Natan (Anatoly) Sharansky, diventato sì ministro, ma in Israele - e la maggior parte di loro hanno finito per restare all'estero, se vi erano stati mandati in esilio, o recarvisi comunque di loro iniziativa. Mentre le poltrone che contano al Cremlino e negli altri palazzi del potere della nuova Russia sono state (e sono tuttora) occupate o da ex dirigenti del partito rapidamente riciclatisi o da giovani rampanti e formalmente apolitici che nella parola «dissenso» non vedono alcun significato se non un vago suono negativo, da esorcizzare prima possibile. Eppure i dissidenti sovietici potevano ben dire di aver vinto, negli anni fra il 1988 e il 1993: almeno in apparenza, e provvisoriamente, la maggior parte delle loro idee e delle loro richieste sembravano in via di piena realizzazione: libertà di opinione, di espressione e di stampa, pluralismo politico, libertà di movimento all'interno e attraverso i confini, riabilitazione delle vittime - tanto i singoli individui quanto interi popoli - della repressione e del terrore. Arrivarono anche (alcuni) a un passo dalla stanza dei bottoni, negli anni tempestosi della perestrojka: come non ricordare Andrei Sakharov quando, appena tornato da dieci anni di confino, durante il Congresso dei deputati del popolo dell'Urss, in diretta tv e rivolto al presidente e segretario generale Gorbaciov, si alzò e andando verso la tribuna gridò «Non sono d'accordo, Mikhail Sergeevic!». Nessuno prima di allora aveva mai osato dire una cosa del genere pubblicamente, in faccia al capo assoluto. Ma Andrei Sakharov era l'unico dissidente ad avere una vera statura politica, oltre che morale; e morì troppo presto per poter svolgere un ruolo.
Gli altri preferirono tenersi fuori dalla politica, come Aleksandr Solzhenytzin, che pensava ingenuamente (e forse pensa ancora) di poter influire sulle grandi scelte politiche della nazione attraverso articoli e libri; oppure, in maggioranza, si affidarono a quello che ritenevano essere uno di loro e che invece era solo un furbo boss messosi a sparare sul regime in previsione della sua caduta, Boris Eltsin. Che errore! Corvo bianco non perseguitò gli ex dissidenti, certo no, ma fece in modo di non averli troppo tra i piedi nei luoghi dove si decidevano le cose importanti, cioè il big business. E nel frattempo, la parte più sveglia e aggressiva della vecchia nomenklatura faceva in modo di riprendere saldamente in mano le redini del potere, per un breve periodo abbandonate al caso.
Non solo non hanno colto i frutti materiali della loro vittoria, gli uomini del dissenso, ma sono proprio spariti dalla circolazione. Si potrebbe dire che per ironia della sorte la loro influenza sulla società russa era senz'altro maggiore quando entravano e uscivano dalle galere e dai manicomi, perseguitati furiosamente dal regime e costretti a divulgare le proprie idee su foglietti di carta velina dattiloscritti in dieci copie. E sì che di testimonianze dissenzienti ce ne vorrebbero eccome, nella Russia d'oggi: dove certo non c'è più la repressione feroce di un tempo ma essere «contro» è ancora piuttosto pericoloso; si finisce facilmente in carcere - per spionaggio, disturbo della quiete pubblica, propaganda illegale, «estremismo» e altro ancora - e persino l'uso della detenzione psichiatrica non è del tutto cessato. Del resto, quando il capo del paese è un ex ufficiale del Kgb, ed ex ufficiali del Kgb sono gran parte dei dirigenti nei posti chiave, non è il caso di meravigliarsi troppo. C'è da dissentire, dunque: ma a farlo, a dispetto di una teorica «libertà di stampa» sbandierata in continuazione, sono in pochissimi. E non se la passano tanto bene: Anna Politkovskaja poteva ben essere considerata l'erede del movimento del dissenso - ma sappiamo cosa le è toccato.
Per questo la Storia del dissenso sovietico di Clementi, oltre a essere una miniera di informazioni che permettono di capire molto meglio un fenomeno chiacchierato fino alla nausea ma pochissimo studiato, serve soprattutto a vedere sotto una luce diversa la Russia di oggi, per tanti versi opaca e ambigua. In fondo, a determinare l'assenza di un'opposizione politica, all'alba del XXI secolo, contribuisce proprio la delusione per le speranze svanite, il ricordo di quanto dura e insuperabile possa diventare la repressione e soprattutto la consapevolezza di quanto la società stessa possa essere «cattiva» e dominata dalle paure e dagli egoismi, anche una volta liberata dall'oppressione totalizzante del partito-stato.


BOX Dissidenti
Sakharov e gli altri
Potere contro cultura, intellettuali (e in particolare scrittori) contro dirigenti politici; un quarantennio di scontro a senso unico tra uomini di idee e tendenze le più disparate e un regime monolitico nella sua volontà di negare ogni discussione, ogni idea alternativa a se stesso. Il libro di Clementi ripercorre, dividendolo in varie fasi temporali, lo sviluppo di quello che è persino difficile definire un «movimento», tanto diversi tra loro furono i suoi esponenti: da Pasternak a Sacharov e Solzhenitzin passando per Daniel, Amalrik e tanti altri, rappresentanti di idee marxiste e democratiche, anarchiche e nazionaliste, immersi in un contesto di profondissime trasformazioni sociali e politiche ancora non consolidate. Di ognuno Clementi racconta gli atti di opposizione compiuti e i colpi repressivi subiti.

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Paola Cioni
University of Toronto · Academic Electronic Journal in Slavic Studies

http://www.utoronto.ca/tsq/22/cioni22.shtml#top


Storia del dissenso Sovietico (Odradek 2007) by Marco Clementi (Professor of History of Eastern Europe at University of Calabria).

The names of very few Soviet dissidents are known in the Western world. Their stories, claims and ideas have often become journalistic cases and their revelations have been exploited for obvious political reasons, both from the right-wing and the left-wing parties, especially during the Cold War. In fact, until now, publications on the subject have dealt mostly with specific cases and not with the reconstruction of the entire historical reference frame in which the phenomenon developed. The normal consequence of this is a distortion, often intentional, of the facts, in favour of certain political tendencies. But no chronicle can do without rigorous research. Indeed, sixteen years after the fall of the USSR, Marco Clementi, with his Storia del dissenso sovietico. 1953-1991 (Odradek, p.302, 22 Euro), offers a remarkable reconstruction, discrediting a great quantity of commonplaces. The book, accurately documented, discusses well-known cases - such as the publication, first in Italy and then in the Soviet Union, of Doctor Zhivago by Boris Pasternak, or the sad circumstances that brought to the expulsion of Aleksandr Solzeniticyn and Josif Brodskij -, as well as little-known or completely unknown events, outlining the phenomenon as a singular experience. An experience which is, without doubt, sui generis, for its strong pacifist characterization, for the lack of immediate political objectives - such as the destruction of the Soviet regime or the creation of a multiple political party society (the boundary line that the historian traces between the political opposition and dissidence is clear) -, but above all for the absence of a recognized leader capable of channelling revendications towards a specific political objective. However, in spite of the deep heterogeneity of opinions and political visions among the exponents that animated the dissidence - internally, in fact, there were, "besides laic and democratic ideals, confessional, nationalistic, and, in certain cases, even fascists and nazi ideals" -, they found their path on their own, a common denominator that united them around the objective of the defense of human rights and the dignity of man. The phenomenon finds its origin in the devastating effects of Stalinism on society: its constant resort to a state of terror as a government practice, justified by the unvarying evocation of the spectre of an internal enemy; the campaign of arrests; the net of gulag on all the territory. This way, no part of public or private life remains outside of the detailed control of the Party. The consequence was a social atomization process, not too different from that generated by capitalism, and the birth of a radicated idealogical conformism. Intellectuals would have to, in fact, according to the definition imparted by Stalin himself, become "engineers of the soul", and contribute to the construction of socialism within the compulsory and acritical vision of the world. In these conditions, it is not surprising that the changes - more illusive than real, and generated from an atmosphere different from the one felt during the Kruscev years - brought a true explosion for the desire of creative freedom by the men who never succumbed to social engineering. And it was during the "Years of the Thaw" that the encounters in Majakovskij Square took place, when young intellectuals began to meet to read verses that had not passed through the censorship net; at the same time, Samizdat was born, a clandestine form of literary circulation that soon became of such relevance to be considered a literature parallel to the official one. But the spontaneous and pacific reactions of the opposition conflicted with an obtuse bureaucracy firmly prepared to safeguard its priviliges. After the defenestration of Kruscev (1964), the neostalinist tendencies prevailed in the Party, and an attempt was made to block the free demonstration of thought with expulsions and arrests for the publication of non-conforming literary works. Such an attempt was extreme enough to actually surpass Stalin,under whose regime, Clementi reminds us, literature was strongly censured, but no arrests were made for the content of the works . Moreover, we must not forget the endless internment of dissidents in special psychiatric hospitals, a practice which officially ended in 1988. This dramatic experience, which represented one of the most shameful methods of repression, is described by Clementi through the stories of those who lived it personally. In spite of everything, it was impossible to stop the dissident flow; the conflict between intellectuals and the State not only could not be stopped, but it lasted until the collapse of the latter. The law for the rehabilitation of the victims of repression was promulgated only after the attempted coup of August 1991, when the Soviet Union no longer existed. In an article, published by the Italian daily Il Manifesto (dated August 1, 2007), Rossana Rossanda invites us to ask a series of questions, among which: "Why did the attempt to realize a non capitalistic society fail? When was the error first made? In 1917? Was it initially made at the time of the division between Lenin and the socialist revolutionaries? Or was the error originally committed at the time of the dissolution of the Soviet Union? Or was it only Stalin who committed a mistake? Would it have been better if the movements of 1917 had not been carried through, if passive resistance had been opposed to czarism, waiting for the war to end a year or two later, and for modernity to slowly get the better of autocracy? It is difficult to give an answer to all of these questions, because history, as we well know, is not made of "ifs". Clementi's book helps us in this reflection, providing us with a detailed reconstruction of a past that for years was troublesome (a past with which we are finally coming to terms), and offering numerous elements for the achievement of a deep social awareness necessary for the construction of the future.
Paola Cioni

 

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Recensione uscita su Esamizdat a firma di Simone Guagnelli

Ricostruire la storia del dissenso sovietico costituisce un’impresa particolarmente difficile, ma allo stesso tempo preziosa e necessaria. L’ampiezza e la particolare eterogeneità dell’oggetto d’indagine prestano infatti il fianco a molteplici punti di osservazione e impongono, di conseguenza, scelte metodologiche di partenza estremamente rigorose, rigide e rischiose. Ci prova in questo libro, edito da Odradek, Marco Clementi, ricercatore di Storia dell’Europa orientale all’Università della Calabria. L’autore, ben consapevole della complessità del suo studio, tenta nel capitolo introduttivo di enucleare tutte le problematiche del lavoro. Il lettore può essere forse sorpreso sin dalla copertina, dove campeggia il bellissimo ritratto di Anna Achmatova eseguito da Natan Al´tman nel 1914. Il libro prende avvio proprio dalla poetessa russa che viene in qualche modo elevata a simbolo della dissidenza sovietica. Clementi, non esplicitando peraltro la citazione, le dedica infatti il titolo del primo paragrafo usando un verso, modificato tramite la sostituzione dei nomi, della canzone di Fabrizio De Andrè “Ho visto Nina volare”. Il volo di Anna rappresenta, secondo l’autore del libro, il volo libero della fantasia poetica, troppo spesso, nel corso del XX secolo, infrantosi contro lo scoglio dell’ideologia politica. Ovviamente l’Achmatova non è una dissidente in senso stretto e probabilmente viene qui convenzionalmente, e forse arbitrariamente, scelta in quanto rappresentante dell’intelligencija artistica, cioè di un singolo, seppur fondamentale, mattone del muro del dissenso.
Anche la stessa scelta dei limiti temporali del movimento dissidente sovietico appare per certi aspetti troppo elastica, non tanto per il termine ad quem, il 1991, scelto come data della legge sulla riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche, quanto per quello a quo, il 1953, anno della morte di Stalin. Se è infatti vero che la morte di Iosif Vissarionovic¹ ha dato il via a tutta una serie di lenti cambiamenti più o meno reali e più o meno importanti nel tessuto sociale e politico russo-sovietico, a partire dalla “decisione del mondo politico sovietico di non ricorrere più al terrore generalizzato, caratteristico del sistema staliniano” (p. 13), è altrettanto vero che questa decisione è appunto una presa di posizione dall’alto, del mondo politico stesso e non è diretta origine o conquista di nessun movimento civile, tanto più che lo stesso Clementi afferma semmai che “il pieno sviluppo del dissenso avvenne quando le velleità di riportare indietro il paese urtarono contro la resistenza della parte più attiva della società civile” (Ibidem). Insomma, decidere di ripercorrere un movimento così multiforme, trasversale e di resistenza al regime come quello dei dissidenti, e scegliere di farlo dal 1953 al 1991, significa rischiare (cosa che a volte il libro fa, in forma di compendio e tramite esempi eclatanti) di redigere la storia dell’Unione sovietica dalla morte di Stalin alla sua definitiva caduta.
Il volume è poi suddiviso in nove capitoli, i quali, però, rispecchiano solo parzialmente le sei fasi cronologiche individuate da Clementi nell’introduzione (1953-1964, cioè fino a quando Chrus¹c¹ev non è costretto ad abbandonare il potere; 1965-1967, dall’arresto di Daniel´ e Sinjavskij a una vera presa di coscienza e organizzazione da parte di molti intellettuali; 1968-1972, ovvero da un anno cruciale per la contestazione in tutta Europa, ma anche quello in cui prende l’avvio la Cronaca degli avvenimenti correnti e Sacharov scrive il suo Trattato, fino a quando, con la crescita del movimento, aumenta anche il numero degli arresti; 1973-1974, biennio “di crisi e di riflussi”, come lo definisce l’autore, “sebbene non manchino iniziative quali la fondazione del gruppo ’73 o l’apertura della sezione russa di Amnesty international” (p. 13); 1975-1982, dal premio Nobel conferito a Sacharov alla sospensione delle attività del gruppo Helsinki; 1983-1991, anni caratterizzati dalla segreteria “riformatrice” di Gorbac¹ev che condurrà alla liberazione di tutti i prigionieri di coscienza e alla promulgazione di una legge per la riabilitazione). La scansione dei capitoli, diacronicamente orientata, non sempre permette quanto l’autore vorrebbe assicurare, ovvero un’analisi dettagliata delle varie anime e delle vaste problematiche che uno studio di tale portata comporta. All’interno della cronaca degli eventi più significativi che hanno caratterizzato la storia del dissenso sovietico, si trovano quindi approfondimenti su alcune delle maggiori personalità del movimento (Sacharov, il generale Grigorenko, Gabaj, Dz¹emilev, Amal´rik, Kuznecov, Bukovskij, Pljus¹c¹, Moroz, Marc¹enko, S¹c¹aranskij, Orlov, Turc¹in), oppure su quegli operatori culturali, le cui vicende giudiziare compattarono e orientarono le forme di protesta (Pasternak, Sinjavskij, Daniel´, i poeti del Faro, Brodskij, Solz¹enicyn, Tvardovskij). All’interno di questa foresta di nomi e di vicende personali elevate a emblemi dell’atmosfera civile del paese, trovano spazio anche argomenti, problematiche, risoluzioni, fenomeni, organizzazioni senza i quali non sarebbe possibile ottenere il mosaico complessivo dell’intero movimento ( Il libro bianco sul caso Sinjavskij e Daniel´, l’esplosione dei fenomeni di samizdat e tamizdat, i casi di abuso psichiatrico sui detenuti politici, il Gulag, il problema delle minoranze nazionali, la questione religiosa, il Comitato per i diritti dell’uomo, l’apertura del fascicolo denominato Delo n. 24 da parte delle autorità sovietiche e orientato contro la Cronaca degli avvenimenti correnti, il cosiddetto caso dei piloti legato al problema della difficile possibilità di emigrare accordata agli ebrei sovietici, il gruppo Helsinki).
La scelta dei temi e delle problematiche che vengono affrontati nel corso del volume viene ribadita dalla ricca bibliografia, divisa prima linguisticamente (italiano, altre lingue, russo) e poi, con qualche variante, tematicamente (Opere di carattere generale, Opere dei dissidenti, La letteratura sovietica e il rapporto con l’Occidente, Samizdat e tamizdat, Gli abusi psichiatrici, Il problema delle minoranze nazionali, Il problema religioso, Lo stalinismo, Il Gulag, Il disgelo, la stagnazione e la perestrojka, Raccolte di documenti e testimonianze).
La ricostruzione storica di Clementi è tutto sommato esaustiva e corretta, il lettore riesce a farsi un’idea di quello che è stato un movimento di protesta civile per il riconoscimento dei diritti essenziali dell’uomo in Unione sovietica. La cronaca è fedele ai documenti dell’epoca e alle più aggiornate ricerche in materia. Il punto di vista è sufficientemente obiettivo, anche se mancano spunti di analisi, approfondimenti e apporti innovativi o originali. Il punto di contrasto tra regime politico e opposizione civile è forse eccessivamente appiattito e banalizzato nella dicotomia menzogna versus verità , conformismo versus libertà. Le rare prese di posizione sono in genere serene e pacate (l’autore spesso si limita ad affermare di essere d’accordo o, più raramente, a modificare in modo molto lieve approdi altrui). Per questo sorprende in modo particolare la polemica, eccessiva nei toni e imprecisa nei contenuti, che quasi all’inizio del libro Clementi sostiene contro Cesare G. De Michelis a proposito di Andrej Sinjavskij e del suo C¹to takoe socialistic¹eskij realizm [Che cos’è il realismo socialista, 1957]. Nel suo articolo (“Realismo socialista, veridicità e letteratura russa antica”, Europa orientalis, 1988, 7, pp. 185-197), dedicato all'analisi del realismo socialista messo “a confronto con le tradizioni culturali e letterarie antiche del paese in cui, storicamente è sorto” (p. 187), De Michelis partiva dal confronto tra due posizioni, distanti nel tempo, nel luogo e nelle intenzioni, ma simili, se non coincidenti, nelle conclusioni: quella di Alberto Moravia (“nell'ideologia comunista non c'è posto per le smentite anche minime della realtà”) e quella di Andrej Sinjavskij (“ogni produzione del realismo socialista, prima ancora di prendere forma, deve avere una conclusione felice”). La visione della natura conformista del realismo socialista, tesi, secondo Clementi, ispiratrice del libello di Sinjavskij, non mi pare, al contrario di quanto sostiene l'autore del libro, possa (o debba) escludere la evidente interpretazione teleologica del metodo del regime sovietico, secondo le affermazioni di Moravia e Sinjavskij riprodotte da De Michelis. Non si capisce come le premesse culturali, peraltro consapevolmente ovvie e abbondantemente risapute, dell'articolo di De Michelis (ovvero il parallelo tra comunismo e religione) non potessero (o non dovessero) essere sottoposte a verifica scientifica sul piano culturale e letterario, da parte dello slavista.
Nonostante questa unica e, a mio avviso, non giustificata deriva polemica, il libro di Clementi rimane uno strumento utile per studiosi, studenti e semplici curiosi. L'attualità del dissenso sovietico non è solo comprovata dagli sconcertanti avvenimenti politici della Russia putiniana, ma anche da almeno un paio di ricorrenze importanti che vedono al centro il nostro paese. Nel 2007 infatti ricorrono sia i 50 anni dalla prima pubblicazione mondiale del Doktor Z¹ivago di Boris Pasternak (evento che la casa editrice Feltrinelli celebra con una nuova traduzione e diversi appuntamenti in tutta Italia), che i 30 anni dalla cosiddetta “Biennale del dissenso”, ovvero dalla manifestazione culturale veneziana che nel 1977, sotto la presidenza di Carlo Ripa di Meana, rischiò di saltare per le fortissime pressioni da parte del regime comunista sovietico.

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Recensione in ANNALE Sissco IX/2008, p. 219, di Francesca Gori

Il libro di Marco Clementi costituisce una sintesi documentata, ampia e articolata della complessa storia del dissenso sovietico dopo la morte di Stalin. Partendo dall'epigrafe della raccolta Feniks '66, nella quale Galanskov sintetizzava uno dei motivi fondamentali della discordia tra potere e intellettuali, l'a. si domanda cosa intesero questi «spiriti liberi» con la parola «verità». Il tentativo di individuare una risposta sta alla base, secondo Clementi, del movimento di pensiero sul quale si sviluppò il dissenso sovietico la cui storia fra il 1953 e il 1991 può essere articolata in sei fasi. La prima data corrisponde alla morte di Stalin, la seconda alla promulgazione della legge sulla riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche. Il periodo 1953-1964 segnò profondi cambiamenti nella società sovietica, con la denuncia del culto della personalità durante il XX Congresso e la successiva estromissione di Chrus¹c¹ëv. Nel secondo periodo (1965-1967) il nuovo establishment guidato da Brz¹nev operò con espulsioni e arresti di scrittori dissidenti (celebre il processo a Sinjavskij e Daniel'). Nel terzo periodo (1968 1972) il movimento crebbe, con l'avvio della pubblicazione della «Cronaca degli avvenimenti correnti» e con il saggio di Sacharov Considerazioni sul progresso, la coesistenza pacifica e la libertà intellettuale. Nel quarto periodo (1973-1974) sopravvenne una crisi, ma non mancarono iniziative quali la fondazione del «Gruppo '73» e l'apertura della sezione russa di Amnesty International. Il quinto periodo (1975-1982) si aprì con il premio Nobel per la pace a Sacharov e fu caratterizzato dalla fine delle attività del Gruppo Helsinki. Durante l'ultimo periodo, infine, si giunse con M. Gorbac¹ëv alla liberazione dei prigionieri politici. Nei nove capitoli del volume l'a. ci presenta gli attori politici, gli scrittori e gli artisti legati al movimento del dissenso, del quale analizza aspetti peculiari quali il samizdat, i casi noti (come la pubblicazione del Dottor Z¹ivago e delle opere di Solz¹enicyn) e meno noti, che hanno comunque contributo a formare la complessa rete del dissenso sovietico. È merito dell'a. essersi interessato non solo agli eventi di Mosca, ma anche alle periferie dell'impero sovietico. Inoltre, Clementi dedica molte pagine alle questioni nazionali dei popoli deportati, all'affaire Grigorenko, all'uso della psichiatria negli ultimi anni e alla questione religiosa. Il volume è corredato da una ricca bibliografia tematica. Da un lavoro così importante e meritorio ci saremmo tuttavia aspettati un'analisi più mirata e approfondita di alcuni aspetti centrali, quali la «Cronaca», il pensiero di Solz¹enicyn e Sacharov. In definitiva la ricostruzione proposta da Clementi non sempre attribuisce ai vari fenomeni politici e di pensiero un giudizio di merito proporzionato. A questo proposito stupisce l'assenza di almeno un accenno all'Associazione Memorial, il cui impegno non si è esaurito con la fine del comunismo, continuando la migliore tradizione del movimento del dissenso sovietico contro qualsiasi forma di repressione e per la salvaguardia dei diritti umani.

Francesca Gori

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